30.4.13

«Letta navigherà a vista»

CAPITALE - Il neoliberismo non ha avuto la sua eclissi finale: «Dal Giappone una nuova bolla colpirà l'Europa e l'Italia»

INTERVISTA - Roberto Ciccarelli

CHRISTIAN MARAZZI * «È urgente prendere coscienza del fallimento dell'austerità. L'unica cosa che riesco a vedere è una rivolta sociale»
«Quando il governo italiano sostiene di volere ricontrattare con la Commissione Europea può anche volere posticipare, com'è stato fatto in Spagna o in Portogallo, la riduzione del deficit di un paio d'anni - afferma l'economista Christian Marazzi - Ma questo non significa ricontrattare l'austerità, significa solo posticiparla lasciando i problemi tali e quali. Non nego che Letta sia animato da buone intenzioni quando dice di volere affrontare il problema degli esodati, dell'esaurimento della cassa integrazione o parla di un welfare più universale. Il problema è dove prenderà i soldi. Soprattutto se le politiche di austerità resteranno intatte».

Propone anche un reddito a sostegno delle famiglie bisognose con tanti figli. Cosa ne pensi? 
Il reddito di cittadinanza, o il reddito minimo, ha un senso se definisce un affrancamento dalle logiche di un mercato del lavoro deregolamentato. Se definisce un'autonomia del reddito da quelle che sono le logiche della crescita o della riduzione dei costi. Fino a quando questo obiettivo non sarà perseguito, e non verrà garantita l'autonomia della vita dalle costrizione di un'economia neoliberale, le declinazioni del reddito in altre forme portano solo a sterili strategie di ingegneria sociale.

Ritieni che stia prendendo corpo in Europa un fronte contro l'austerità?
Parlare di un fronte è un'espressione piuttosto sproporzionata, anche se è indubbio che le proposte di allentare il rigore vengono fatte in Portogallo, Spagna o Francia, le autocritiche del capoeconomista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard e le timide aperture della Commissione Europea con Olli Rehn vadano in questo senso. Bisogna però considerare le controspinte che vengono dalla Germania dove prevalgono i discorsi di segno opposto a sostegno della responsabilità, del rigore fiscale, delle politiche anti-inflattive. In attesa delle elezioni politiche di settembre, non vedo come Angela Merkel possa retrocedere rispetto alle politiche degli ultimi quattro anni, considerando anche la nascita del partito anti-euro «Alternativa per la Germania.

Resta comunque l'impressione che un cambiamento sia avvenuto dall'inizio dell'anno...
Con una battutaccia direi che sono arrivati alla canna del gas. L'evidenza del fallimento politico e finanziario li ha costretti a tornare indietro rispetto alle posizioni scientifiche e ideologiche. È impressionante vedere con che faccia il Fondo Monetario, dopo 50 anni, oggi dica di cambiare politiche economiche che sono esattamente quelle imposte ai paesi indebitati dell'America latina, del Sud est asiatico e oggi a quelli europei. Hanno buon gioco i tedeschi che non intendono cambiare la strategia fiscale quando lo stesso Fmi l'ha imposta in tutti i paesi del mondo.

Allora non bisogna credere in queste aperture?
A me sembrano tentativi tardivi per rimediare ai danni che queste politiche hanno provocato e continuano a provocare. È di ieri la notizia che in Grecia hanno deciso di licenziare 15 mila impiegati pubblici e di aumentare l'orario di lavoro degli insegnanti. Si sta perseverando sulla stessa linea, per questo sono piuttosto scettico sulle possibilità che si riuscirà a incidere sull'austerità. La politica è governo del tempo. Se tu cerchi di recuperare dalle politiche complici dell' austerità, come mi sembra sia state quelle di Monti, devi però fare i conti con i processi reali che sono difficili da invertire.

Quali conseguenze ha prodotto l'austerità?
Ha distrutto una parte importante del tessuto industriale, delle piccole e medie imprese. Il credito alle imprese e alle famiglie non esiste praticamente più e ha aggravato le divergenze all'interno della zona euro tra paesi del Nord e paesi del Sud. Quando si dice che un euro tedesco non è un euro cipriota o italiano o francese, che nella moneta unica c'è un proliferare di monete parallele, significa che il processo di divergenza tra tassi d'inflazione, di interesse e di produttività si è spinto molto in avanti. Questi sono i processi reali che lavorano dietro i tentativi di contenere il danno che il prossimo governo italiano si troverà ad affrontare.

Quale sarà la prossima bolla finanziaria ad esplodere e che effetto avrà sull'Europa e l'Italia?
 Le bolle sono la modalità attraverso le quali la crisi capitalistica si manifesta in tutta la sua potenza distruttiva. La loro funzione è creare panico, una specie di choc esogeno che restringe gli spazi di manovra di un governo, piuttosto che ampliarli. Il rischio di un'esplosione di un'altra bolla, non so in quale forma, è veramente forte. È la politica della banca centrale giapponese a destare maggiori preoccupazioni. È diventata una specie di banca centrale del mondo, iniettando dosi impressionanti di liquidità che si catapultano sulle borse europee che stanno andando bene e hanno contributo a ridurre lo spread italiano. D'altra parte le borse hanno già raggiunto livelli record da questo punto di vista. Gli analisti considerano gli indici già oltre i limiti storicamente raggiungibili. E questo porterà ad una nuova grande bolla speculativa. Arriveranno misure di taglio alla spesa pubblica, continueranno a esserci sempre difficoltà di reperimento di capitali.

Insomma è un circolo vizioso...
Da anni ci troviamo in un'enorme trappola della liquidità. Questi soldi non hanno nessun effetto di trickle down, cioè non sgocciolano nell'economia reale, restano nelle sfere della finanza e alimentano bolle in termini di acquisti o vendite di buoni del tesoro che non modificano il quadro della crisi. Si sta cercando di risolvere finanziariamente un problema che è stato creato dalla finanza. È un rompicapo.

In che modo lo si può risolvere?
L'unica cosa che riesco a vedere, ma non a prevedere, è una rivolta sociale. Oggi scontiamo un grande ritardo nella mobilitazione, anche se ci sono stati momenti esaltanti come Occupy negli Stati Uniti o gli indignados in Spagna. Per quanto lo auspichi, non vedo però una capacità di mobilitazione a livello europeo. Se non fosse così una rivolta non avrebbe nessuna chance di vivere più di un giorno. Ma non voglio essere pessimista. Oggi è urgente prendere coscienza del fallimento dell'austerità e capire che ciò che accomuna gli europei non è l'euro, come moneta unica. La nostra moneta comune è la povertà. Una volta compreso, e mi sembra che lo stiamo capendo, bisogna forzare per attuare una rivolta contro la povertà

Quale lotta può diventare il simbolo di questa mobilitazione?
Il reddito di cittadinanza su scala europea. È una delle chiavi per un'Europa comune contro l'austerità. È il tempo della politica deve diventare quello della mobilitazione. Come dice Guido Viale, non abbiamo bisogno di fatti, ma di promesse. Oggi è la voglia di futuro che deve dominare sul realismo dei fatti.

* Un critico dell'economia politica
Christian Marazzi è uno dei più acuti economisti, critici del capitalismo, che da anni insegna in diverse università europee e alla State University di New York. Attualmente è docente alla Scuola universitaria e professionale della Svizzera italiana. È autore dei saggi come «E il denaro va» (Casagrande/Bollati Boringhieri 1998), «Finanza bruciata» (Casagrande 2009) e «Il comunismo del capitale» (Ombre Corte 2010)

26.4.13

Se nessuno ascolta la voce della base

 Curzio Maltese   (La Repubblica)

Primarie, parlamentarie, quirinarie e balle varie, per restare in rima, non tolgono che i vertici del Pd e quelli del M5S, in pratica Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, abbiano alla fine preso la più importante decisione della loro storia politica da soli e contro la chiara volontà dei loro elettori.
E allora, perché non finirla con queste ipocrite pagliacciate? Sono ormai mesi che Grillo e il Pd fanno a gara a chi è più democratico, più trasparente nelle scelte. Il Pd rimprovera a Grillo e Casaleggio di guidare un partito personale, una setta dove decidono i due capi, in barba allo slogan «uno vale uno». D’altra parte, Grillo ha accusato il Pd di allestire primarie truccate, dall’esito già deciso, in favore dell’apparato che controlla le regole.
Per mesi ci siamo chiesti chi avesse più ragione. Ora lo sappiamo, tutti e due. Quirinarie, parlamentarie, primarie rappresentano una stessa delega in bianco ai capi. I quali poi sono liberissimi di fare l’esatto contrario di quanto vogliono gli elettori e i militanti. Tutti sanno che Bersani e i bersaniani hanno vinto le primarie contro Renzi per due ragioni sulle altre. La prima è che venivano considerati «più a sinistra » rispetto al rivale, presentato come assai più disponibile nei confronti della destra in generale e di Berlusconi in particolare. La seconda è che fra il primo e il secondo turno Bersani ha ottenuto il decisivo appoggio degli elettori di Vendola e di Sel, proprio sulla base della promessa di non accettare mai compromessi non solo con il berlusconismo, ma neppure con il centrismo rappresentato da Monti. Ora i bersaniani stanno per varare un governo con Berlusconi e Monti. Che si fa, si restituiscono i soldi dell’obolo al partito?
Un discorso non diverso riguarda la tecnologicamente più avanzata ma non meno truffaldina democrazia elettronica di Grillo. Dopo il grottesco delle parlamentarie, che sono servite a mandare in Parlamento troppi sprovveduti col voto del condominio, siamo arrivati al numero da circo delle quirinarie. L’unico voto in due turni al mondo dove prima del ballottaggio non si conosceva il risultato del primo turno. Peraltro non ancora comunicato. Il risultato finale, con numeri risibili, è stato reso noto quando i giochi per il Quirinale erano finiti. Forse appunto perché i numeri erano risibili. In compenso sulla scelta vera, l’alleanza col Pd, la base non è mai stata consultata. La realtà è che tutto viene deciso dai monarchi Grillo e Casaleggio. Per giorni i grillini hanno rivolto una domanda ai dirigenti del Pd: perché no a Rodotà? Lamentando, a ragione, di non aver mai ricevuto una risposta. Anche noi però abbiamo provato a fare una domanda a Grillo e Casaleggio: perché non lanciate un referendum in rete sull’alleanza col Pd? In attesa della risposta che non è mai arrivata, vale quella che ci siamo dati da soli. Perché i capi avrebbero perso.
La soluzione del governissimo in corso è dunque il frutto della totale indifferenza dei vertici del Pd e di Grillo, in questo almeno uguali, nei confronti della volontà di 18 milioni di elettori. Nel Paese e nell’opinione pubblica una maggioranza di governo c’era, largamente maggioritaria. In Parlamento se n’è voluta trovare un’altra, che conviene alle oligarchie vecchie e nuove. Ma che almeno ciascuno si assuma le proprie responsabilità. E per favore, la smettano di organizzare show e di spacciarli per esercizi di democrazia.

HA DISTRUTTO L’ITALIA, MAI AL GOVERNO CON BERLUSCONI (Enrico Letta)

(tiro mancino del Fatto Quotidiano a Letta. Collage delle sue parole raccolte in uno pseudo-articolo)

Da Il Fatto Quotidiano del 26/04/2013

Occorre un grande patto costituente tra progressisti e moderati che escluda dal governo i populismi di Grillo, Berlusconi e Di Pietro (26-6-12). Il governo si regge su un patto politico chiaro: il Pd si è assunto la responsabilità di stare in una maggioranza con chi ci ha ridotto così, a patto che l’interlocutore non fosse Berlusconi (3-7-12). L’ipotesi di una grande coalizione col Pdl dopo le elezioni è molto lontana. E la lontananza è data dal ritorno in campo di Silvio Berlusconi, che rende questa ipotesi poco credibile” (22-8-12). Quella di una Grande Coalizione col Pdl è una prospettiva completamente affossata dal ritorno di Berlusconi, responsabile della situazione molto negativa nella quale il Paese si è ritrovato” (23-8-12). Nella prossima legislatura non possiamo governare con un patto politico con Berlusconi. Ha distrutto il lavoro di Alfano per rendere il Pdl un normale partito conservatore europeo e l’ha fatto tornare alla logica di Arcore, per noi inaccettabile (3-10-12). La prospettiva di un Berlusconi-5 la vendetta è una idea repellente rispetto alla buona politica (1-12-12). Tra Pd e Monti ci sarà dialogo e competizione leale. Il nostro avversario comune è Berlusconi (23-12-12). Se dovesse esserci necessità di governare con un alleato, non potremmo rivolgerci né a Berlusconi né a Grillo: il ragionamento andrà fatto con coloro con cui condividiamo la scelta europeista e dunque con Monti e le forze di centro (28-12-12). Risponderemo colpo su colpo alle parole vergognose sul presidente Napolitano pronunciate da Silvio Berlusconi (31-12-12). Alle bugie di Berlusconi risponderemo colpo su colpo. Bisognerebbe aprire una commissione parlamentare d’inchiesta su di lui (2-1-13).
Il disastro e la vergogna. Berlusconi, con lo spettacolo, cerca di far dimenticare entrambi al Paese. Lui è il nostro vero avversario. E dobbiamo battere il suo populismo. Confidiamo nella memoria degli italiani che sanno che, dopo tre anni di governo Berlusconi, le famiglie e le imprese si trovavano a pagare i mutui cinque volte tanto rispetto a tedeschi e francesi (12-1-13). Berlusconi non torna, perché i danni che ha fatto al Paese sono tanti e gli italiani non hanno una memoria così fallace (14-1-13). L’Italia è stata distrutta da Berlusconi, che sta cercando ancora una volta di rendere questa campagna elettorale ansiogena ai limiti della guerra civile (15-1-13). C’è stato un periodo in cui andando all’estero a noi italiani ci deridevano per il ‘bunga bunga’ piuttosto che apprezzarci per i tanti cervelli costretti a emigrare (25-1-13). Berlusconi è come Sylvester Stallone o Jean-Claude Van Damme nel film I mercenari, come quei personaggi che ritornano e a 65 anni fanno le cose che facevano quando ne avevano a 25: patetico e bollito (30-1-13).
La proposta di rimborsare l’Imu finanziando l’operazione con la tassazione dei capitali italiani in Svizzera non è credibile: perché la fa Berlusconi, perché è basata su premesse che non tengono conto della verità, perché non si poggia sulla possibilità di realizzarla dal punto di vista della solidità politica. Berlusconi è l’uomo che ha fatto quasi fallire l’Italia e che ora si ripropone, rovesciando la verità e facendo promesse irrealizzabili, contando sul fatto che gli italiani ogni tanto hanno la memoria corta. L’alternativa è tra noi e Berlusconi (4-2-13). I voti a Berlusconi? Era assurdo pensare che non ci fosse chi voleva votare per chi difende l’evasione fiscale, visto che in Italia c’è il 20 per cento di evasione fiscale e gli evasori fiscali votano (8-2-13). Abbiamo chiaro da tempo che l’errore fatto negli anni 90 e quando abbiamo governato è stato di non riuscire a fare una buona legge sul conflitto di interessi e la riforma del sistema radiotelevisivo. E anche se i buoi sono scappati dalla stalla, in questa legislatura bisogna rimediare a tutti i costi: il Pd obbligherà Berlusconi a sciogliere i suoi conflitti di interesse se si vuole ricandidare. Il suo ruolo di tycoon mediatico è emerso in tutta la sua pesantezza anche in questa campagna elettorale.
Sarebbe cambiata la storia del Paese se la legge si fosse fatta prima, perché Berlusconi ha usato in modo sempre scorretto il suo potere (21-2-13). Nel dire no a un governo con Berlusconi non dobbiamo avere alcuna ambiguità, mentre dobbiamo sfidare Grillo senza rincorrerlo (6-3-13). Grande coalizione? Fossimo in Germania e ci fosse la Merkel sarebbe la soluzione perfetta. Purtroppo siamo in Italia e c’è Berlusconi, la vedo complicata” (8-3-13). L’agenda del Pdl ha un solo punto: la difesa di Berlusconi (9-3-13). Non tenti la destra di rovesciare le cose e usare il monito di Napolitano a coperture delle proprie ingiustificabili manifestazioni sulle scalinate del Tribunale di Milano. Pensi il Pdl invece a riflettere sulle argomentazioni del Presidente e a rispettare i principi costituzionali di autonomia dei poteri (12-3-13).
Berlusconi oggi propone un governo della concordia. Ma con quale coraggio e con quale coerenza lo fa, dal momento che nell’unico caso in cui sostenevamo lo stesso governo per fronteggiare la crisi più grave del dopoguerra ha tolto la spina prima del tempo solo per i suoi interessi, perché voleva andare a fare la campagna elettorale? (20-3-13). Pensare che dopo 20 anni di guerra civile in Italia, nasca un governo Bersani-Berlusconi non ha senso. Il governissimo come è stato fatto in Germania qui non è attuabile (8-4-13).

24.4.13

Caccia ai rendimenti «senza frontiere»

Nicola Borzi (Sole24ore)

Le iniezioni di liquidità delle Banche centrali possono creare opportunità di investimento per i risparmiatori, ma alla lunga gli effetti si stemperano e subentrano altre variabili chiave. A partire dalla fiducia e dalle concrete opportunità di crescita dell'economia reale.
La ricaduta immediata è comunque molto positiva, soprattutto se l'azione messa in campo è massiccia. Le recenti mosse della Banca centrale del Giappone (BoJ), che il 4 aprile ha annunciato il raddoppio della massa monetaria nei prossimi due anni, sono state infatti salutate con euforia. L'operazione ha avuto un immediato impatto diretto sulla Borsa di Tokyo, con l'indice Nikkei che ha toccato i nuovi massimi degli ultimi cinque anni, complice la fortissima svalutazione dello yen. Alcuni benefici indiretti si sono avuti anche su altri mercati, come quello dei titoli di Stato dei Paesi periferici europei. Più liquidità in circolazione a livello internazionale aumenta le opportunità di finanziamento per le imprese e i corporate bond ne traggono nuova linfa: esemplare il boom di ordini per il bond di Indesit, che è tornata sui mercati dopo 14 anni con un'emissione da 300 milioni. La mossa della BoJ è inserita in un panorama di continuo, reiterato sostegno delle Banche centrali, soprattutto da parte della Fed. Gli effetti sono tangibili anche sull'ulteriore ribasso dei rendimenti dei titoli governativi Usa, come pure sull'accelerazione dell'aumento dei prezzi delle abitazioni negli Stati Uniti: l'indice Case Shiller è salito di oltre il 6% in un anno e quello mediano rilevato dagli agenti immobiliari a marzo ha segnato +11,8%. Gli operatori istituzionali sono tornati a investire: Blackstone ha rilevato un portafoglio di 20mila case da affittare per 3 miliardi di dollari e Colony Capital oltre un miliardo per 8mila abitazioni in setet Stati
Ma quello che vale per l'immobiliare Usa non è detto funzioni anche per quello italiano. Secondo l'ultimo rapporto di Nomisma sul mercato immobiliare, il parziale spostamento di ricchezza dal comparto mobiliare a quello immobiliare non è in grado di arginare il drastico calo dei livelli di attività e il calo delle compravendite nel 2012 anno induce a ritenere ormai esaurito il margine di adeguamento del mercato sul lato delle quantità, ma lascia aperta la porta ad aggiustamenti di prezzo.
In generale, la liquidità deve trasmettersi al sistema produttivo per amplificare i suoi massimi effetti e, comunque, non può agire all'infinito. Quello che è accaduto negli Usa, ad esempio, è la maggiore efficacia dei provvedimenti messi in campo nel 2009 (il cosiddetto Qe 1), sicuramente per effetto degli importi maggiori, ma anche grazie all'effetto sorpresa di tali misure. Con il passare del tempo le opportunità per gli investitori, derivanti da queste misure, si sono assottigliate. Emblematico è quanto accaduto all'oro, tradizionale bene rifugio in chiave anti-inflattiva e inversamente correlato al dollaro: dal settembre dello scorso anno il metallo giallo sta perdendo circa il 15%. Segno che anche le opportunità legate al mare di liquidità in circolazione non sono infinite. Con Wall Street ai massimi storici e il rendimento del decennale Usa sotto al 2%, la prudenza è d'obbligo.
I quattro fronti più caldi per i risparmiatori
EMISSIONI SOVRANE
La discesa dello spread tra BTp e Bund, ampiamente sotto i 300 punti, negli ultimi giorni ha evidenziato un ritorno di interesse per i titoli di Stato italiani, nonostante la situazione politica e istituzionale attenda ancora una chiara soluzione con la formazione del governo. Su questa dinamica dei prezzi ha sicuramente impattato l'effetto liquidità giapponese: sono stati infatti registrati acquisti di investitori nipponici in cerca di extrarendimenti. Questa tendenza dovrebbe proseguire, anche perché a livello mondiale l'enorme massa di liquidità spinge gli investitori a trovare opportunità e un BTp che rende ancora il 4% è giudicato sicuramente allettante.
POCO RISCHIOSO
EMISSIONI SOCIETARIE
Le obbligazioni societarie tornano in luce grazie alla forte domanda che consente di ridurre i rendimenti e riporta sul mercato operatori che da anni non si proponevano. Ne è un esempio Indesit, che nei giorni scorsi ha raccolto ordini per 2,75 miliardi su un titolo quinquennale a tasso fisso da 300 milioni. Torna la domanda anche sul mercato secondario, dove gli operatori internazionali cercano maggiori rendimenti e aumentano il peso dei titoli esteri (anche italiani) in portafoglio. I titoli già in circolazione beneficierebbero di un eventuale nuovo taglio dei tassi Bce, atteso a maggio.
POCO RISCHIOSO
METALLI PREZIOSI
L'oro ha subito una metamorfosi in questi anni, complice l'intervento massiccio della Fed. Da tradizionale bene rifugio è diventato un'asset class correlata al rischio. Le precedenti immissioni di liquidità (Qe 1 e 2) hanno sicuramente contribuito ad alimentare la domanda del bene rifugio. Con l'operazione Twist e con il terzo quantitative easing (in corso dallo scorso settembre), però, l'effetto liquidità è praticamente svanito. Il metallo giallo sta perdendo il 15% circa dallo scorso settembre e le prospettive, secondo gli analisti, non sono più allettanti, soprattutto in vista di un rafforzamento del dollaro. La variabile rischio diventa quindi chiave per capire le fluttuazioni.
RISCHIOSO
MATTONE
Attenzione all'amore per il mattone. L'aumento della liquidità sui mercati finanziari ha ridato forza agli acquisti dei grandi operatori immobiliari sul residenziale Usa. In Italia, però, secondo Nomisma si sconta il disallineamento tra domanda e offerta e la stretta alle erogazioni di credito delle banche. Inoltre entro il 2014 andranno in scadenza fondi immobiliari (anche quotati) per oltre 4 miliardi di euro, molti dei quali hanno già usufruito del periodo di proroga consentito dal regolamento. Le Sgr dovranno così vendere gli immobili e, in mancanza di domanda (nazionale o estera), l'ondata dell'offerta e un rischio di recessione protratta potrebbero causare nuovi, pesanti cali delle quotazioni.
NEUTRALE

23.4.13

Applausi in aula in cambio di una strigliata che ognuno pensa sia per il suo rivale

Leader e «peones» fanno finta di ignorare che le accuse li riguardano. Non tutti: «Ci ha fatto un mazzo a quadretti»

Gian Antonio Stella (Corriere)

«Siete stati sordi». E loro applaudono. «Inconcludenti». E si spellano le mani. «Irresponsabili». E vanno in delirio. Pare quasi una seduta di autocoscienza psichiatrica quella d'insediamento di Giorgio Napolitano. Passata la sbronza correntizia finita in rissa, proprio quelli che hanno fatto arrabbiare il nonno saggio non si accontentano di ascoltare la ramanzina in silenzio. A capo chino.

Ma accolgono ogni ceffone in faccia, guancia destra e guancia sinistra, come se fosse rivolto ad altri. Chi? Altri. Ma quali altri? Boh... Mai e poi mai a loro.
«Ci ha fatto un mazzo a quadretti e come grandi elettori ce lo meritavamo», riconoscerà con onesto imbarazzo il governatore ligure Claudio Burlando: «Ci ha detto che siamo stati a trastullarci di votazione in votazione anziché trovare un'intesa nell'interesse del Paese. Tanto più in un momento che per il Paese è drammatico». «La cosa divertente è che ho visto battergli le mani», ride Felice Casson, «colleghi che nei giorni scorsi hanno fatto l'esatto contrario di quello che il Presidente ci raccomanda». «E che domani hanno intenzione di restare esattamente inchiodati là dove stavano ieri», rincara Claudio Bressa.

Ugo Sposetti invita a non chiamare «Anonima Sicari» i franchi tiratori: «In passato hanno consentito di bocciare alcune candidature sbagliate per far passare uomini come Sandro Pertini o Oscar Luigi Scalfaro». A proposito, ha votato per Marini e poi per Prodi? «Il voto è segreto, lo dice la Costituzione». Ma se il partito aveva deciso... «Come: per alzata di mano?» Il senatore democratico Andrea Marcucci lo rivendica: «Dopo le campagne diffamatorie degli ultimi giorni oggi riaffermiamo l'orgoglio di aver votato Napolitano e non gli altri candidati in gara».

Manco il tempo di sfollare verso le uscite ed ecco «il giovane turco» Matteo Orfini interpretare già a modo suo il monito del presidente: «Un discorso perfetto, ineccepibile che chiede un'assunzione di responsabilità da parte di tutti per un accordo comune di governo». Però... Però «è importante che il sostegno arrivi da parte delle tre principali forze politiche. Se non c'è il MoVimento 5 Stelle cambia tutto e io sono contrario a un patto politico tra Pd e Pdl». Quindi? «Il voto di fiducia è un voto di coscienza, non c'è disciplina di partito... Se sono contrario voto contro». Poco più in là il deputato grillino Giorgio Girgis Sorial butta lì: «L'ultima volta che ho sentito un discorso così era quando in Egitto si è insediato Morsi».
Avrebbe potuto scommetterci prima ancora di scendere sotto la pioggia dal Quirinale verso Montecitorio, Napolitano, di essere destinato a ricevere inchini e baciamano, elogi e salamelecchi, senza però riuscire a scalfire la scorza di tanti. Troppo duro, lo scontro dei giorni scorsi. Troppo profonde le fratture. Troppo calloso l'odio personale che ormai divide le diverse fazioni dello stesso Pd. L'aveva messo in conto. Come aveva messo in conto il diluvio di applausi trasversali indispensabili a coprire pudicamente certe fratture.

Ed eccolo là, l'anziano Re Giorgio, che sale a fatica, senza neppure provarci a mostrare un'elasticità giovanile che non ha più, le scalette che portano alla presidenza. Perché mai dovrebbe rassicurare l'Aula sulla sua salute? Al contrario, raccolta l'ovazione di tutti con l'eccezione dei pentastellati che si alzano in segno di rispetto ma salvo eccezioni non battono le mani manco per cortesia, spiega le sue perplessità davanti a questo secondo mandato anche per «ragioni strettamente personali, legate all'ovvio dato dell'età». Come a dire: mi avete costretto voi, a restare. E lui ha dovuto accettare per il «senso antico e radicato d'identificazione con le sorti del Paese». (Sottinteso: «Che molti di voi non hanno»).

Ciò precisato, comincia a rinfacciare ai presenti «una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità». E li bacchetta per non avere dato risposte alle «esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti» facendo «prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi».
Tanto da svuotare, accusa, «quel tanto di correttivo e innovativo che si riusciva a fare nel senso della riduzione dei costi della politica, della trasparenza e della moralità nella vita pubblica» col risultato che alla fine «l'insoddisfazione e la protesta sono state con facilità, ma anche con molta leggerezza, alimentate e ingigantite da campagne di opinione demolitorie e da rappresentazioni unilaterali e indiscriminate in senso distruttivo del mondo dei politici, delle organizzazioni e delle istituzioni in cui essi si muovono». Ed ecco che, muti e silenti sotto i ceffoni sui ritardi nei tagli e le riforme, esplodono tutti nell'applauso liberatorio: ooh, finalmente gliele canta a chi accusa la politica di aver dato solo delle sforbiciatine!

Ed è lì che Napolitano esce dal discorso scritto e ferma l'entusiasta battimani: «Attenzione: il vostro applauso a quest'ultimo richiamo che ho sentito di dover esprimere non induca ad alcuna autoindulgenza». E vabbé, meglio che niente: e vai con nuovi applausi!

Pier Luigi Bersani, tradito prima dal risultato elettorale che si era illuso di avere in qualche modo già acquisito quando parlava del suo «squadrone» e poi tradito dai compagni di partito prima nelle sue disastrose aperture ai pentastellati e poi nelle votazioni per il Colle, se ne sta lì, deluso e cupo, il gomito piantato sul banco, il mento appoggiato nel cavo della mano. Dirà poi che «Napolitano ha detto quel che doveva dire, con un discorso di una efficacia eccezionale». Ma lo sa che, quando il Presidente ricorda che «piaccia o non piaccia, occorre fare i conti con la realtà delle forze in campo nel Parlamento da poco eletto», parla anche di lui.

Sull'altro fronte, Silvio Berlusconi sprizza allegria. Sette anni fa, dopo la prima elezione di «Re Giorgio», le cronache raccontarono che aveva raccomandato ai suoi: «Mi raccomando. Composti. Come fosse un funerale». E successivamente non aveva fatto mancare le sue riserve. Come quando, in una manifestazione a Vicenza, urlò che le elezioni erano state «taroccate» e che le sinistre avevano occupato tutte le istituzioni: «Il presidente della Repubblica è uno di loro, così come i presidenti di Camera e Senato, la Corte costituzionale...». Quando il Colle rifiutò di firmare il decreto su Eluana andò oltre: «Vi ho visto tutta la cupezza di un armamentario culturale figlio di una stagione che non è ancora tramontata».

Tutto cambiato, oggi. Tanto da spingere il Cavaliere, compiaciuto del discorso di insediamento dove il capo dello Stato «ha invitato a buttare a mare la parola inciucio perché la politica è fatta di compromessi e collaborazione e la realtà comporta la necessità di superare le distanze», ad ammiccare: «Ho pregato le mie parlamentari per oggi di cambiare l'inno del Pdl in "meno male che Giorgio c'è"».

E come potrebbe non essere allegro Pier Ferdinando Casini? «Ora chi è andato a chiedergli di rimanere, chi lo ha pressato per fare ciò che non voleva, ha il dovere morale di fare subito un governo. Altrimenti siamo nel regno dei buffoni». Bella sfida. Ce la faranno?

21.4.13

Re Giorgio II

Paolo Becchi (grillo.it)

“Cerchiamo anzitutto di riassumere quanto è accaduto negli ultimi mesi. Il successo elettorale conseguito dal MoVimento 5 Stelle è andato al di là di ogni realistica previsione: 163 parlamentari per una nuova forza politica rappresentano di per sé una vittoria. Il MoVimento avrebbe voluto cominciare a lavorare seriamente nel Parlamento, ma questo non è stato possibile. Si è tentato di costringerlo a un voto di fiducia ad un governo a guida Bersani che con il senno di poi avrebbe implicato lo strangolamento dello stesso MoVimento. Il PD era già sull’orlo del precipizio e il MoVimento sarebbe finito nel baratro insieme a lui. Ecco perché la linea di non accettare l’accordo, un accordo finto perché mirante soltanto agli interessi del PD, era del tutto condivisibile. Tuttavia si sarebbe potuto cominciare a operare e lavorare costruttivamente nel Parlamento e invece si è voluto impedire il funzionamento di quello che è il cuore della nostra democrazia. E così un movimento che mira alla democrazia diretta ha dovuto farsi paladino della stessa democrazia rappresentativa tradita dagli altri partiti. La crisi continuava e si avvitava su se stessa. Il governo era in carica, ma il Parlamento paralizzato. Tutto nell’attesa del nuovo Presidente della Repubblica e del conferimento di un nuovo incarico di governo. Alle Quirinarie il MoVimento ha votato con il cuore e con la testa, proponendo come primi tre nomi una donna, Milena Gabanelli, e un uomo, Gino Strada, della società civile e un giurista di caratura internazionale, Stefano Rodotà. Alla fine dopo la rinuncia dei primi due candidati è subentrato il terzo, una delle figure più autorevoli della cultura giuridica nel nostro paese e che pur nella sua indipendenza (è stato un tempo uno degli indipendenti di sinistra) ha sempre appartenuto alla sinistra. Sembrava quasi naturale che un partito sedicente di sinistra potesse convergere su questo nome. Un uomo di quella levatura giuridica sarebbe stato comunque il garante di tutti e avrebbe svolto la sua funzione di super partes, fondamentale per un Presidente della Repubblica. E invece hanno offerto al popolo italiano uno spettacolo indecoroso e, diciamolo pure, mortificante per le persone che sono state mandate al massacro: prima Marini e poi Prodi. A questo punto non restava altro che constatare la completa dissoluzione, liquefazione di un partito, quello democratico, che sin dal suo inizio era attraversato da latenti contraddizioni. Su questo deserto non c’era altra via per ricompattare quel che restava della partitocrazia che recuperare Re Giorgio. Ma cosa è avvenuto nella votazione di ieri sera? Suscitando lo sdegno di tutti ieri Beppe Grillo ha parlato di un “colpo di Stato, che avviene furbescamente con l’utilizzo di meccanismi istituzionali“. Si tratta di un’affermazione che può sembrare del tutto inadeguata e addirittura pericolosa, così la giudica infatti tutta la stampa unanime, perché quando si parla di golpe siamo abituati a pensare a un colpo militare, a un cosiddetto pronunciamiento, per usare l’espressione della tradizione spagnola. Esistono tuttaviasvariate tecniche del colpo di Stato, come già aveva mostrato Curzio Malaparte nel suo saggio del 1931. Quello classico fu attuato da Luigi Bonaparte nel 1851 quando diede il colpo di grazia a quella Repubblica di cui lui stesso era Presidente per riuscire a farsi proclamare Imperatore di Francia. La cosa è ben descritta in un celebre saggio di Karl Marx del 1852, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte. Ci fu in quel caso una violazione dell’assetto costituzionale esistente e un suo mutamento: il Presidente divenne Imperatore dei francesi. Non è quello che è avvenuto ieri in Italia. Il Presidente è restato Presidente, non è stato incoronato Imperatore, ma è il primo Presidente della storia repubblicana ad assumere due mandati contro quella che era sino ad oggi una consuetudine costituzionale, quella cioè contraria ad una rielezione del Presidente della Repubblica. Inoltre è il primo Presidente della Repubblica ad essere applaudito in Parlamento, ma oggetto di una sollevazione popolare nelle piazze d’Italia. Il Coup d’État per Gabriel Naudé, che per primo se ne occupò nel 1639 nelle sue Considérations politiques sur le Coup d’État, ha le più svariate caratteristiche e tende pure a confondersi con la “ragion di Stato”. Ebbene è proprio questa ragion di Stato che ci ha consegnato ieri la rielezione di Napolitano.
Lo stesso Napolitano d’altro canto qualche mese fa aveva messo in evidenza i rischi per la democrazia di un suo secondo mandato. Riportiamo qui integralmente il testo di una lettera scritta da lui al quotidiano, oggi non più esistente, “Pubblico” e pubblicata il 28 settembre 2012: “Caro direttore, Le scrivo per sgomberare – spero definitivamente – il campo da ogni ipotesi di ‘Napolitano bis’. Non è solo un problema di indisponibilità personale, facilmente intuibile, da me ribadita più volte pubblicamente. La mia è soprattutto una ferma e insuperabile contrarietà che deriva dal profondo convincimento istituzionale che il mandato (già di lunga durata) di Presidente della Repubblica, proprio per il suo carattere di massima garanzia costituzionale, non si presti a un rinnovo comunque motivato. Né tantomeno a una qualche anomala proroga.”. Evidentemente Napolitano ci ha ripensato. La vecchia stagione del compromesso storico doveva concludersi con un inciucio storico ed è per questo, contraddicendo quanto da lui stesso affermato, che alla fine ha accettato il secondo mandato.
Non vi è dubbio che tutto sia avvenuto ancora una volta nel solco della legalità, ma la legalità in questo caso è diventata un’arma contundente con la quale si è voluto colpire il popolo italiano. I partiti moribondi hanno ricevuto una boccata di ossigeno, ma avranno ancora qualche mese, al massimo un anno di vita, non di più, perché il virus del MoVimeno ha ormai infettato il loro corpo e non si riuscirà più a debellarlo.”

12.4.13

La tentazione dell’inciucio: qualche dirigente Pd è ricattabile?

di Paolo Flores d’Arcais e Barbara Spinelli (Micromega)

Cari parlamentari del Pd, M5S e Sel,

ci rivolgiamo oggi soprattutto ai parlamentari del Pd e di Sel, perchè c’è qualcosa che non riusciamo proprio a capire. Estromettere Berlusconi dalla vita politica e dal potere (compreso il suo monopolio sulla televisione commerciale) non solo sarebbe sacrosanto secondo tutti i canoni delle democrazie liberali occidentali, ma sarebbe anche un vantaggio non da poco per il centro-sinistra. Ora, se una misura a portata di mano, che corrisponde sia all’interesse generale e all’etica di una democrazia sia all’interesse egoistico e di bottega di una forza politica, viene da quest’ultima rifiutata e anzi tale forza politica si muove in direzione opposta (mantenere il Caimano nei gangli decisivi del potere e della politica), l’interrogativo è d’obbligo: perché tanta assurdità?

Il masochismo è infatti comprensibile e accettabile come una delle tante e varie inclinazioni sessuali (in fatto di sesso, tra adulti consenzienti, “di tutto e di più” è l’unica norma liberale), ma in campo politico è un controsenso, oltretutto enigmatico. Nessuna forza politica e nessun singolo politico vuole il proprio male, ama danneggiarsi. Talvolta lo fa, ma per stupidità. Nel caso che stiamo esaminando, però (la possibilità di estromettere B. dalla politica e dal potere), neppure la stupidità può essere una spiegazione, perché è talmente evidente, anche al più stupido del genere “homo sapiens”, che la soluzione prospettata sarebbe di enorme vantaggio per il centro-sinistra, e carica di rischi invece la scelta opposta, che la spiegazione di tanto pervicace “masochismo” va cercato altrove.

Dove? L’unica spiegazione logica che resti, visto che ogni interesse generale, ogni valutazione etica, ogni interesse di bottega spinge nel senso della “estromissione”, è che una parte del gruppo dirigente Pd+Sel sia ricattabile. Ovviamente dei contenuti e ingredienti di tale “ricattabilità” nulla possiamo sapere e neppure immaginare, ma se non ci viene data una spiegazione più plausibile, quella della “ricattabilità” (anche solo mentale) resta l’unica in campo. In un dialogo di oltre dieci anni fa su MicroMega, Giuliano Ferrara spiegava a un allibito Piercamillo Davigo che la prima dote di un politico deve consistere nell’essere ricattabile. “Non ricattabile, vorrà dire”, insiste Davigo. No, proprio ricattabile, replicò a quel punto Ferrara, perché un politico non ricattabile non è affidabile.

Pd e Sel hanno da guadagnare un Perù dalla estromissione di Berlusconi dalla politica e dal potere (del resto perfino la destra “presentabile” che si fa chiamare “centro” ha analogo interesse). L’Italia, la sua democrazia, la convivenza civile, la considerazione del nostro Paese in Europa e nel mondo (sia presso l’opinione pubblica che presso gli establishment), ne trarrebbero un impareggiabile giovamento, e del resto in nessuna democrazia liberale sarebbe mai stata tollerata la presenza in politica di chi assommasse il potere mediatico di un Murdoch a quello economico di un emiro.

Perciò, se il Pd e Sel non operano sollecitamente per dichiarare Berlusconi ineleggibile, se non scelgono un Presidente della Repubblica che – in quanto Custode della Costituzione repubblicana e dei suoi valori – rifiuterà di sottomettersi alle pressioni di Berlusconi, alle cui esigenze resterà indifferente, dovranno spiegare ai loro elettori perchè mai preferiscano un comportamento che è scellerato secondo i parametri di una democrazia liberale e al tempo stesso masochista fin quasi al suicidio per Pd e Sel medesimi.

Contro la povertà

di Donatella Di Cesare (Micromega)

Segnali sempre più forti ci indicano che nella sfera pubblica sta nascendo una sorta di “neopauperismo”. Non ci si può tuttavia rassegnare all’esistenza della povertà, né tantomeno giustificarla. Bisogna restituire al povero la possibilità di dare.

L’esplosione della povertà nel ricco Occidente costringe a ripensare un fenomeno che sembrava relegato in gran parte ai confini del passato e alle periferie del mondo. A parte rare eccezioni, hanno dominato finora sconcerto, sdegno, rassegnazione. Ed è risuonato il messaggio: «la povertà rende liberi»[1]. Quasi che al filosofo, o al teologo, non restasse, di fronte alla povertà altrui, che condividerla indicandola a stile di vita. C’è da chiedersi se stia nascendo, o sia già nato, un neopauperismo.

Certo si comprende l’esigenza che la vita pubblica non umili ulteriormente chi è nel bisogno. La ricchezza sfacciata ha di questi tempi un aspetto lugubre. E si comprende anche l’urgenza, avvertita da molti, di sottrarsi all’iperconsumo imposto dalla crescita infinita[2]. Ma la stessa regola di Francesco d’Assisi era il progetto di abdicare alla proprietà per una forma di vita comune fondata sull’uso[3].

Appare perciò dubbio il tentativo di anestetizzare con un concetto elevato di povertà il dolore dell’indigenza. Chi è povero subisce una privazione che non può essere in alcun modo giustificata – né come volere divino, né come calamità naturale, né tanto meno come inevitabile esito della storia. Proprio perché non può essere giustificata, reclama giustizia.

La povertà ha a che fare con la schiavitù, non con la libertà. Ed è dunque tra i mali peggiori. Perché il povero è oppresso dalla mancanza, prigioniero del debito. È lo schiavo. Non occorre risalire all’antichità. Le nuove forme di schiavitù – a cominciare dall’indebitamento incoraggiato dal sistema economico – sono sotto gli occhi di tutti. Che il debito sia stato contratto o, più spesso, ereditato, e non voluto, i nuovi schiavi sono schiacciati dal fardello del passato che non permette di intravedere il futuro.

Non stupisce, perciò, che la povertà sia sempre stata vista non solo come privazione dei beni materiali. Il povero, soffocato dalla ristrettezza, vive nell’angustia e nell’angoscia. E questa condizione esistenziale va di pari passo anche con l’esclusione sociale. Il povero è isolato, rinviato a se stesso, estromesso dalla condivisione non solo della proprietà, ma anche della dignità. Ecco perché nella Bibbia è paragonato allo straniero, avvicinato, per la sua debolezza, all’orfano e alla vedova. Di qui l’ingiunzione: «e se un tuo fratello impoverirà e le sue forze vacilleranno presso di te, tu dovrai sostenerlo, sia anche un forestiero o un avventizio, sicché possa vivere presso di te»[4].

Alla base di questo versetto vi è l’idea – dimenticata in molte epoche e occultata nel capitalismo – che la povertà non sia un evento naturale e ineluttabile. Povertà e ricchezza sono condizioni provvisorie, dovute a un processo che con il tempo si fa iniquo e che perciò deve essere interrotto. Non c’è una equità intrinseca al mercato. Chi lavora duramente viene premiato. Ma non sempre. E chi si affatica, può sperimentare l’inutilità dei propri sforzi. Nel corso degli anni le traversie personali, le disgrazie familiari, i rovesci finanziari, decretano la povertà di molti, la ricchezza di pochi. Dall’andamento dei rapporti economici non emerge una giusta ripartizione. E se è così, sarebbe semmai un furto mutare il possesso temporaneo in appropriazione definitiva.

Il povero non è colpevole. Porta il peso del debito, non quello della colpa. Non ha bisogno che altri condividano la sua condizione in un ideale di rinuncia. Quel che il povero, con la sua stessa presenza, richiede è che venga spezzato il circolo vizioso della povertà.

In nessun modo, dunque, il povero può essere stigmatizzato. È la posizione di Marx che, com’è noto, radicalizza la prospettiva: dove da un canto c’è accumulazione di capitale, dall’altro c’è accumulazione di povertà, tormento lavorativo, schiavitù. La ricchezza, nella produzione capitalistica, è fondata sulla povertà. Non si tratta allora né di disprezzare, ma neppure di esaltare la povertà – prendendo la strada di un pauperismo egualitarista. Piuttosto occorre recuperare ricchezza e povertà, fuori e oltre l’economia politica, nei loro valori umani. Ricco è chi ha bisogno dell’umanità dell’altro, chi nella povertà avverte quel vincolo passivo che «fa sentire all’uomo il bisogno della ricchezza più grande, dell’altro uomo»[5].

Se oggi si tende a giudicare l’economia non più solo in termini economici, è perché non è possibile ignorare quanto il capitalismo abbia deteriorato nel profondo le relazioni interpersonali. Non c’è economia che non debba rispondere della giustizia sociale e della dignità umana. Ha assunto così un nuovo rilievo la domanda sulla povertà che non va misurata solo sul reddito. Sono in molti – da Amarya Sen a Martha Nussbaum – ad aver introdotto criteri ulteriori che tengono conto dell’essere umano nella sua complessità. Così la povertà non si limita solo ai bisogni materiali della sussistenza, ma si amplia alla istruzione, alla partecipazione, alla libertà personale, al rispetto della dignità, alla condivisione dei beni pubblici. Sotto quest’ultimo aspetto è chiamata in causa la comunità. In breve, essere poveri vuol dire non poter attuare le proprie capacità[6].

D’altronde già il Talmud distingue tra ciò di cui il povero «ha bisogno» e ciò che «gli mancherà»[7]. Cibo, alloggio, arredi indispensabili costituiscono quel bisogno materiale che riguarda tutti. Non si tralascia però una povertà ulteriore, più difficilmente definibile, anche perché varia da caso a caso: è l’assenza di quel che si aveva prima e che viene a mancare. Questa povertà provoca umiliazione, incrina il rispetto di sé, toglie la dignità. E asservisce – nei modi più subdoli.

I nuovi poveri di oggi, che d’improvviso restano senza ciò che prima avevano, a cominciare dal lavoro e dalla casa, sono colpiti da questa “mancanza”. Colpevolizzati nel fallimento, mentre sono rinviati all’aiuto altrui, vengono paradossalmente estromessi dai legami sociali.

La carità non basta. Perché non muta i rapporti esistenti. Pur alleviandone lì per lì le sofferenze, lascia il povero nella povertà. Ma l’aiuto non può essere occasionale. E il sostegno è obbligo costitutivo della comunità. Qui chi è rimasto nell’indigenza deve essere reintrodotto per ritrovare la sua libertà. L’atto supremo di giustizia sociale è offrire un posto di lavoro.

Spezzare il circolo della privazione vuol dire restituire al povero la possibilità di dare. C’è infatti una dignità umana del dare che si traduce nella comune responsabilità per un terzo. Prima ancora che dalla condivisione della proprietà, nessuno può essere escluso dalla condivisione di questa dignità.

NOTE

[1] Cfr. ad esempio l’articolo di B. Forte, La povertà che rende liberi, “il Sole 24 ore”, 31 marzo 2013.

[2] Cfr. S. Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, trad. it. di F. Grillenzoni, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 30-31.

[3] Cfr. G. Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita, Neri Pozza, Vicenza 2011, pp. 151 sgg.

[4] Levitico 25, 35.

[5] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in id., Opere filosofiche giovanili, trad. it. di G. Della Volpe, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 234.

[6] Cfr. M. Nussbaum, Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil, trad. it. di R. Falcioni, Il Mulino, Bologna 2012.

[7] Talmud, bKetubot, 67b.

Donatella Di Cesare è professore ordinario di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma. Ha insegnato presso numerose università straniere ed è stata Distinguished Visiting Professor of Arts and Humanities alla Pennsylvania State University. Gli ultimi volumi pubblicati sono: Utopia of Understanding. Between Babel and Auschwitz, Suny Press, Albany 2012; La giustizia deve essere di questo modo. Paesaggi dell’etica ebraica, Fazi, Roma 2012; Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo, Il melangolo, Genova 2012; Grammatica dei tempi messianici, Giuntina, Firenze 2011.

3.4.13

L’eterno ritorno di Berlusconi. E chi lo rende possibile

L’attacco a Bersani perché non si presentasse alle Camere, il “piano B” con Berlusconi tornato protagonista, secondo il copione del Quirinale. Tra una sinistra subalterna e la storica mancanza, in Italia, di una destra almeno formalmente democratica, scivoliamo lungo una deriva mortale per la nostra fragile democrazia
Rossana Rossanda (sbilanciamoci.info)
Né Hollande né Bersani sono due rivoluzionari, ma non ricordo di aver assistito a una guerra più violenta di quella in atto contro di loro. Proprio guerra di classe, ha ragione Gallino: la destra proprietaria all’attacco contro chiunque non sia un liberista puro. In Francia, la sconfitta di Sarkozy è stata seguita da un’offensiva padronale durissima, chiusure, licenziamenti e delocalizzazioni che hanno aumentato di colpo la già forte disoccupazione dovuta alla crisi – oltre tre milioni di disoccupati, senza contare altri due milioni di persone che sono costrette a lavoretti senza continuità né diritti. La gente comune, il cui potere d’acquisto è decimato mese per mese , rimprovera sempre più aspramente al governo socialista di non aver tenuto le promesse. Insomma è aperto il fuoco da destra e da sinistra.
In Italia, Pier Luigi Bersani è stato oggetto di una distruzione sistematica, dal Quirinale e dalla stampa, per aver osato proporre di far verificare alle camere una proposta di programma certo modesta ma nella non infondata speranza di ottenere qualche voto dall’esercito dei deputati grillini, che sono un’armata Brancaleone senza programma, nei quali si potevano trovare una dozzina di voti come sono stati trovati per la presidenza del Senato. Il Quirinale non glielo ha permesso, come se fossimo già una repubblica presidenziale. Bersani non ha accettato, ma neppure si è ribellato alla volontà del capo dello stato. Così sta avanzando il cosiddetto “piano B”, che punta alla reintroduzione al governo di un Berlusconi più sfacciato che mai: “voglio questo, voglio quello” inossidabile, persuaso di poter proporre per il governo una maggioranza di cui lui sarebbe parte fondamentale e al Quirinale un suo uomo (“Letta o, perché no, io stesso”).
Non saprei quanto sarebbe durato un governo come quello proposto da Bersani, anche se gli fosse stato permesso di strapparlo alle Camere, ma quel che è sicuro è che il senso del divieto presidenziale è riaprire la strada a una unità nazionale di cui Berlusconi deve essere una parte determinante. In qualche modo, il fatto che Napolitano l’abbia ricevuto al Quirinale dopo che il Cavaliere aveva vomitato le sue insolenze due giorni prima in Piazza del Popolo l’ha, politicamente parlando, legittimato. E in tutta l’Italia sembra aver tirato un respiro di sollievo, basta con le interdizioni, chi propone e decide è il voto popolare – tesi che nel Novecento ha dato il potere alle dittature fasciste. Perché l’Italia non ha voluto assolutamente Bersani? Non certo, ripeto, perché avesse un programma sovversivo né estremista, e neppure antieuropeo; ma assai vagamente riformista, perché aveva dei rapporti con Vendola e la Fiom, perché aveva permesso che nel suo partito si annidassero pericolosi soggetti come Orfini e Fassina. Questo andava impedito.
È venuto il momento di smettere di domandarsi com’è che Berlusconi rispunta sempre sulla scena politica. Bisogna riconoscere che quando sembra del tutto abbattuto, c’è sempre una mano di destra o di sinistra che lo risolleva dal pantano in cui si trova. Bisogna chiedersi invece perché per la quinta volta questo scenario si ripete e se non ci sia nel paese un guasto assai profondo che ne consente la disposizione. Pare evidente la responsabilità di una sinistra – specificamente il Pci, che era stato dopo la guerra il più rilevante e interessante di tutto l’occidente – nel non aver esaminato le ragioni del crollo dell’89, quando i figli di Berlinguer si sono convertiti di colpo a Fukuyama (“la storia è finita”) con la stessa impermeabilità che avevano opposto a chi, fino a un mese prima, aveva avanzato qualche critica al sistema sovietico.
Ma, una volta ammessa questa debolezza della sinistra e dei comunisti italiani in particolare, è impossibile non chiedersi perché l’Italia sembri incapace, ormai storicamente, di darsi una destra almeno formalmente democratica, non sull’orlo dell’incriminazione in nome del codice penale. È questa una maledizione che ci perseguita fin dall’unità del paese e non sembrano certo i dieci “saggi” proposti dal Colle in grado di affrontarne le ragioni e estirparne le radici. Destra e sinistra sembrano ammalate nel loro stesso fondamento culturale e morale; la ragione di fondo per cui ci troviamo nella bruttissima situazione odierna sta, evidentemente, qui, finché questa diagnosi non viene seriamente fatta, non ne usciremo, neppure quando non mancano, come oggi, ragionevoli proposte per bloccare una deriva che appare mortale per la nostra giovane e fragile democrazia.
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1.4.13

Paul Krugman. Un'intervista e un articolo

Intervista: Paul Krugman: “L’euro è campato in aria”

La moneta unica sta scontando oggi i suoi difetti di fabbricazione. Ma secondo il premio Nobel per l’economia l’Europa può uscire dalla crisi accettando un po' d'inflazione e mettendo da parte l'austerity.

Philippe (L'Express 6.9.2012)

Il suo libro Fuori da questa crisi, adesso! è un’arringa contro la politica del rigore e il dogma della lotta al deficit. Secondo lei l’Europa ha sbagliato strategia?

Tutto ha avuto inizio dalla Grecia. Nessuno può negare che Atene avesse un problema di disciplina di bilancio e avesse enormi responsabilità per i propri insuccessi. Ma nel panico abbiamo trasformato quel paese nella causa della crisi europea. Ciò era compatibile con la tendenza delle banche centrali a dare un giro di vite e a puntare il dito contro il lassismo. Rifletteva inoltre l’inflessibilità dei tedeschi, sempre pronti ad accusare gli altri di non essere virtuosi quanto loro. Ma così si dimentica che il caso della Grecia è unico e isolato. È stato fatto di tutte le erbe un fascio per giustificare il dogma del rigore. Qualsiasi altro punto di vista è stato immediatamente eliminato dal dibattito.

Quindi è colpa dei tedeschi?

Da un punto di vista storico il loro comportamento si spiega con la fobia dell’inflazione, considerata la fonte di tutti i guai del passato. Sembrano però aver cancellato dalla loro memoria collettiva tutte le sofferenze provocate dalle terribili politiche deflazionistiche degli anni trenta. La loro influenza alla Bce ovviamente è dovuta alla loro posizione dominante in Europa e con l’ambizione originaria di fare di questa istituzione un argine contro l’indisciplina e l’inflazione. […] La Germania è il grande creditore di un’Europa che ha effettivamente conosciuto un periodo di prosperità. Sarei stato curioso, tuttavia, di osservare quali rimedi sarebbero stati proposti nel caso in cui, per esempio, i flussi di capitale fossero arrivati dalla Spagna verso il settore immobiliare tedesco, e non viceversa.

Era euroscettico sin dall’inizio?

Sì, penso che l’euro fosse un’idea sentimentale, un bel simbolo di unità politica. Ma una volta abbandonate le valute nazionali avete perso moltissimo in flessibilità. Non è facile rimediare alla perdita di margini di manovra. In caso di crisi circoscritta esistono due rimedi: la mobilità della manodopera per compensare la perdita di attività e soprattutto l’integrazione fiscale per ripianare la perdita di entrate. Da questa prospettiva, l’Europa era molto meno adatta alla moneta unica rispetto agli Stati Uniti. Florida e Spagna hanno avuto una stessa bolla immobiliare e uno stesso crollo. Ma la popolazione della Florida ha potuto cercare lavoro in altri stati meno colpiti dalla crisi. Ovunque l’assistenza sociale, le assicurazioni mediche, le spese federali e le garanzie bancarie nazionali sono di competenza di Washington, mentre in Europa non è così.

Come giudica la risposta europea alla crisi ?

Io suggerisco ai paesi che ancora possono scegliere di non ricorrere alle politiche di austerity. Né la Spagna né la Grecia potevano sottrarsi alle richieste tedesche e accollarsi il rischio di farsi tagliare letteralmente i viveri, ma dal mio punto di vista la Francia non si trova in una situazione così critica e non ha altrettanto bisogno di una politica di rigore.

Tuttavia occorre conservare la fiducia dei mercati. Come?

La risposta è monetaria e passa dalla Banca centrale europea. Immagino da un lato acquisti consistenti di obbligazioni spagnole e italiane per arginare l’impennata dei tassi di interesse, e dall’altro il segnale di una politica più morbida della Bce, la promessa di non alzare i tassi al minimo segnale di inflazione e la scelta di obiettivi realistici, come il 2 o 3 per cento di inflazione a medio termine, invece dello 0-1 per cento come oggi.

E come vede la Grecia?

Non vedo come questo paese possa restare nell’euro. É praticamente impossibile. La sua uscita, tuttavia, causerebbe un prelievo in massa dei depositi delle banche spagnole e italiane, al quale la Bce dovrebbe assolutamente rispondere tramite un apporto illimitato di liquidità. In caso contrario nel giro di due settimane la Bundesbank getterebbe la spugna, e quella sarebbe la fine dell’euro.

Quali sarebbero le conseguenze di una scomparsa della moneta unica?

Basta pensare ai debiti contratti in una valuta che non esiste più. Credo che la zona euro precipiterebbe in una grave recessione per un anno intero prima che i paesi trovino il modo di riprendere i loro scambi e, nel caso della Spagna e dell’Italia, di recuperare un po’ di competitività. Dal punto di vista politico sarebbe grave: il fallimento del più grande progetto della storia e il discredito gettato sui leader implicati nel mantenimento del vecchio sistema innescherebbe insurrezioni populiste e nazionaliste.

Quali soluzioni raccomanda per i paesi del sud?

Di norma suggerirei una svalutazione interna. In linea di principio una riduzione dei salari permetterebbe di recuperare competitività. Ma nessun paese, neppure l’Irlanda o la Lettonia, è riuscito davvero a ottenere una riduzione effettiva dei salari del settore privato. D’altro canto la deflazione aggrava il peso del debito privato in euro. Se a questo aggiungiamo il rischio di fuga dei capitali e l’instabilità dei governi incaricati di prendere queste decisioni, ecco che si arriva a un'impasse. I salari spagnoli oggi troppo alti del 30 per cento se paragonati a quelli dei tedeschi. Invece di ridurli con la forza – cosa politicamente impossibile – perché non lasciare che i salari al di là del Reno aumentino, per risollevare la competitività della Spagna? Ciò comporterebbe un allentamento della politica monetaria, e sicuramente una maggiore inflazione in Germania.

Quale futuro prevede per la zona euro?

Se la Bce prenderà i provvedimenti giusti ci si può attendere un miglioramento tra tre-cinque anni. Ma l’Europa sarà sempre fragile. La sua moneta è un progetto campato in aria e lo resterà fino alla creazione di una garanzia bancaria europea. Fino a quel momento il sistema potrà sopravvivere più comodamente accettando più inflazione, che agisca come un lubrificante. Ricordiamoci però una cosa: l’Europa non è in declino. È un continente produttivo e dinamico. Ha soltanto sbagliato a scegliersi la propria governance e le sue istituzioni di controllo economico, ma a questo si può sicuramente porre rimedio.

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Poland Is Not Yet Lost

But its leaders remain determined to give disaster a chance.
Poland is one of Europe’s relative success stories. It avoided the severe slump that afflicted much of the European periphery, then had a fairly strong recovery:
As you can see, growth has faltered more recently, largely due to fiscal austerity plus the puzzling decision to emulate the ECB and raise interest rates in 2011. Still, by European standards there’s a refreshing absence of sheer economic horror.
And a lot of that relative success clearly had to do with the fact that Poland not only kept its own currency, but allowed the zloty to float. As a result, during the years of big capital flows to the European periphery, Poland saw a currency appreciation rather than differential inflation, and it was able to correct that real exchange rate quickly when crisis struck:
So what does Poland’s leadership want to do? Why, join the euro, of course.
It really does make you want to bang your head against a wall. Think of Spain, Ireland, now Cyprus. How much more evidence do we need that the euro is a trap, which can all too easily leave countries with no good options in the face of crisis? Even if you’ve bought into the legend of Latvia, which you shouldn’t, you should be willing to acknowledge that euro membership is at best a gamble, with a potentially terrible downside.
But no; they still believe that one more cavalry charge will drive those tanks away.
Update: Aha. So those cavalry charges didn’t happen. In fact, I’m slowly reading Anthony Beevor on all this, and he tells me that the biggest problem the Poles had was lack of radios, leaving them unable to coordinate their actions.