19.12.11

Le parole dei senegalesi antidoto contro il disprezzo

 Concita De Gregorio (La Repubblica)

In questi anni si è diffuso il disprezzo. Provo a mettere a fuoco questa frase semplice e mite, persino riduttiva, in un certo senso pudica: la frase di un senegalese fiorentino colta dalle telecamere e dai taccuini dei giornalisti al corteo di Firenze in morte di due ragazzi uccisi martedì scorso a colpi di pistola da un “cacciatore di negri”. Un tizio sui cinquanta, l´assassino. Troppo giovane per essere stato fascista davvero – quando il partito fascista, o almeno il Msi esisteva ancora – e però fascista di ritorno. Fascista di Casa Pound e figlio degli anni dell´odio e del disprezzo, appunto, dei diversi e dei più deboli. Del “padroni a casa nostra” – canone leghista ma non solo – gli anni scellerati in cui mascherato dal sorriso da squali dei corruttori si è fatto strada il cinismo egoista e squallido, opportunista, di chi mostrava al pubblico che solo a spese degli altri si costruisce la propria fortuna, ciascuno la sua e fatevi sotto coi mezzi che avete, le parole o le spranghe, l´ignoranza a far da padrona, pazienza per chi non può difendersi. “In questi anni si è diffuso il disprezzo” è una sintesi gentile, prova vergogna per chi si dovrebbe vergognare, non dice della paura seminata come fertilizzante elettorale, della stupidità e della sistematica distruzione del sapere che l´ha scientificamente, consapevolmente coltivata. Da quanti anni? Venti, trenta o persino di più? A chi addosseranno i libri di storia la responsabilità politica dello sfacelo nelle cui macerie ci aggiriamo increduli, spaventati dall´odore di polveri che non sappiamo se e quando si riveleranno esplosive ben oltre quei due colpi di pistola? Solo a Berlusconi? Solo ai signori del denaro o anche, ben prima, già sul finire degli anni Settanta e poi negli Ottanta, a una classe politica esangue e pronta a lasciarsi comprare o spazzare via, brodo di coltura dell´Uomo della provvidenza prossimo venturo? Da quanti anni in questo Paese mancano lo sguardo, il sorriso, l´intelligenza la generosità e il coraggio di qualcuno capace di pensare il bene di tutti a scapito del suo? Qualcuno capace di vedere quel che gli altri ancora non vedono e provare a realizzarlo: senza un tornaconto privato, perché è l´unica strada possibile ed è giusta, persino. Pazienza se costa.
Mi scuso per la lunga premessa ma è che avevo negli occhi e nelle orecchie le immagini del corteo dei senegalesi di Firenze nelle ore in cui chiudevo il secondo dei due libri appena usciti per una piccolissima casa editrice, Alphabeta, che raccontano come fosse un romanzo d´avventura una straordinaria storia davvero accaduta in Italia negli anni Settanta. Una storia di cui i nostri ventenni sanno poco o niente e quanto sarebbe importante che la conoscessero, invece, per dare una direzione e un senso costruttivo alla loro sacrosanta indignazione. C´era una volta la città dei matti e Marco Cavallo – poderosi tomi, non libriccini – narrano l´incredibile magnifica rivoluzione condotta controcorrente da un pugno di donne e di uomini guidati da Franco Basaglia. Raccontano come sia stato possibile far approvare, in Italia, nei giorni dei sequestro Moro, una legge che riguardava apparentemente una irrilevante minoranza di persone, i matti dei manicomi. E siccome allora, davvero, molti dei “matti” erano semplicemente vittime delle violenze di quel tempo, non è poi così difficile per quanto sia – lo riconosco – sommamente impreciso pensare che il posto che occupavano i matti negli anni di Basaglia l´abbiano adesso i neri d´Africa e gli afgani e i migranti dei barconi che muoiono speronati al largo delle nostre coste. Numeri, volti senza identità, estranei, stranieri, diversi da noi che si insinuano nelle strade e nelle piazze proprio come, usciti dai manicomi, Boris e Mara, Margherita e suo figlio cercavano senza trovarlo un posto in un appartamento a Gorizia, a Trieste. La cronaca dell´assemblea in cui i cittadini “normali” denunciano come l´apertura dei centri di igiene mentale nel loro quartiere faccia perdere valore alle loro case, la paura delle “donne per bene” di fronte a “quelli là”, l´ostilità, la chiusura. L´atteggiamento dei politici, così prudente, così diffidente, anche a sinistra: perché non bisogna perdere di vista il fatto che sarà pure giusto che i matti escano dai manicomi ma la gente non li vuole e il nostro elettorato sono la gente, non i matti. Ecco, c´è più di una suggestione, come vedete.
Poi penso anche, forse con una punta di ottimismo, che questo sia il tempo giusto per ricominciare a raccontare – a ricordare – storie come quella. Il film di Marco Turco, C´era una volta la città dei matti, è andato in onda nel 2010 in Rai ed ha avuto un successo straordinario. Sette, otto milioni di spettatori. Fabrizio Gifuni, il sorriso di Basaglia redivivo. Un sorriso che guarisce e che illumina. Il libro che esce oggi contiene i due dvd del film tv e il corposissimo trattamento scritto da Elena Bucaccio, Katja Kolia, Alessandro Sermoneta e Marco Turco. Il trattamento è tutto il materiale raccolto per la preparazione del film. Un romanzo storico, un documento meticoloso e avvincente che racconta centinaia di storie, di vicende minori che si intrecciano alla cronaca grande, Tina Anselmi e la Dc di allora, i volontari da tutto il mondo, Zavoli e la Rai com´era, l´Italia di chi sognava il futuro e quella di chi conservava il passato nel presente, impaurita.
Marco Cavallo è il diario di Giuliano Scabia che racconta la storia del cavallo azzurro di cartapesta che – cavallo di Troia alla rovescia – ha portato fuori dai manicomi i biglietti dei reclusi chiusi nella pancia ed è diventato il simbolo del dialogo, è ristampato qui, rispetto all´edizione Einaudi del ‘76, coi contributi di Basaglia stesso e di Peppe dell´Acqua, allora giovane medico oggi direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste. Dell´Acqua racconta come questa storia ci porti fino ad oggi: all´interesse attivo di Giorgio Napolitano per la chiusure dei manicomi giudiziari, per esempio, sconcio e ferita ancora aperta. Quest´estate Marco Cavallo, il cavallo blu di cartapesta emblema della via crucis dei senza volto, senza diritti, sans papiers di ogni tempo ha fatto il suo ingresso al Teatro Valle Occupato, avamposto della tutela dei Beni comuni e supplente di una sinistra smarrita e divisa. È arrivato coi suoi quarant´anni che parevano quattro. I ragazzi, giovanissimi, lo hanno applaudito e festeggiato senza conoscerne, spesso, la storia. È stata una festa di teatro e di strada, un momento magnifico. I giornali non ne hanno quasi parlato, le televisioni per nulla. Il fatto è che in questi anni si è diffuso il disprezzo. L´antidoto è a rilascio lento, come certe medicine omeopatiche, e comincia dalle parole senza rabbia dei senegalesi di Firenze e da due libri così.

2.12.11

Saremo mai un paese normale?

Antonio Armano (Saturno - Il Fatto Quotidiano)

Festeggiamo i 150 anni dell’Unità passando, come dice David Gilmour (vedi intervista di Alessio Altichieri su The Pursuit of Italy), dall’anomalia Berlusconi all’eccezione Mario Monti: saremo mai un paese normale? Cambierà qualcosa o tutto cambia solo in apparenza come nella migliore tradizione trasformista e gattopardista? Guardando a ritroso: Tangentopoli e gli attentati a Falcone e Borsellino, quasi mezzo secolo di Dc senza alternanza, il terrorismo, il Fascismo… Dimentichiamo qualcosa: P2? Gladio? Bisogna tornare al Risorgimento per ritrovare l’orgoglio? In altre parole: di che ci stupiamo? Bè non è che – da destra a sinistra, da Francesco Perfetti ad Angelo d’Orsi passando per Emilio Gentile e Mario Isnenghi – una visione così apocalittica sia accettata: «C’è da temere che un libro come quello di Gilmour abbia successo – dice Gentile, docente alla Sapienza – sono luoghi comuni, cose dette e ridette. Non mi stupisco che nessuno voglia pubblicarlo qui».

«Non soffro di un senso di anormalità. Anormalità rispetto a quale modello?», dice Isnenghi, professore all’università di Venezia e autore di Dieci lezioni sull’Italia contemporanea, in uscita per Donzelli.

Gentile contesta l’accusa di gattopardismo rivolta all’Italia a partire dall’espressione stessa: «Sarebbe più corretto parlare di tancredismo, attribuire il trasformismo, la volontà di cambiare tutto affinché nulla cambi, a Tancredi, nipote del Gattopardo. Il Gattopardo, il Principe di Salina, è tutto tranne che trasformista, è un disgraziato che si trova a vivere a cavallo di due epoche. Il romanzo, la filosofia dell’autore, piuttosto è nichilista. Si apre col ritrovamento del cadavere del soldato in giardino e si chiude con la carcassa del cane Benedicò scagliata dalla finestra che si trasforma in polvere. Purtroppo l’espressione gattopardismo si è radicata anche se sbagliata ma non si può riferire al Principe di Salina né al romanzo».

Perfetti, docente di storia alla Luiss e firma del “Giornale”, non ama fare analisi di lungo periodo, accostamenti tra epoche e figure distanti, preferisce concentrarsi su singoli momenti e vede aspetti positivi nel berlusconismo (pur prendendo atto del fallimento): «Berlusconi ha saputo convogliare l’antipolitica in politica nel momento difficile di Tangentopoli. Ha ristabilito l’alternanza al governo. Prima avevamo un situazione bloccata. Ha rimesso in circolo i voti della destra missina che si trovavano in frigo. L’aspetto negativo è stato entrare in politica anche per interesse personale. Dobbiamo però distinguere. Tra il primo governo Berlusconi e l’ultimo c’è una bella differenza. La componente liberale che aveva dato la spinta e anche l’immagine, è stata accantonata».

Per Angelo d’Orsi, docente di storia all’università di Torino, il trasformismo in Italia è un fenomeno che riguarda gli intellettuali: «Giuliano Ferrara lo manderei in Siberia visto che conosce la realtà russa, gli farebbe bene anche alla linea. Lui è stato un campione nel giustificare qualsiasi cosa facesse Berlusconi. E gran parte degli editorialisti del “Corriere” hanno aspettato troppo per sganciarsi da Berlusconi. Hanno fatto anche loro gli equilibristi: sì è vero in questo sbaglia però… Ernesto Loggia Delle Galline, ehm Galli Della Loggia, Piero Ostellino, Pigi Battista». L’idealtipo del rinnegato, dell’intellettuale passato da sinistra a destra (la direzione del trasformismo), per d’Orsi è Mussolini già direttore dell’“Avanti!”. Quotidiano finito nelle mani di Lavitola e che ora si pretende, in modo ridicolo, «di far rinascere affidandolo a Rino Formica!».

Su un punto tutti concordano: se esiste un’anomalia italiana, innegabile, congenita, strutturale, è il Vaticano. Per Gentile, la presenza nel territorio italiano di una piccola città dotata di una grande potere spirituale crea problemi per la laicità dello stato. Ma invita a non fare troppa dietrologia: «Se pensassi che dietro a ogni azione del governo sia possibile rintracciare un disegno del Vaticano smetterei di fare questo mestiere. A che servirebbe? Il Vaticano appoggia tutti i governi in carica. È ministeriale per vocazione. Per un’ambiguità di fondo. Il Papa è anche capo di Stato».

Perfetti riconosce l’anomalia vaticana, rispetto alle democrazie di stampo anglosassone ma anche a Francia e Spagna; e dice: «Il mondo cattolico ha sempre appoggiato Berlusconi, a parte una frangia legata al vecchio dossettismo. Poi, per reazione a certi comportamenti privati, l’ha mollato. E pure per il liberismo selvaggio. Ora credo che dopo la caduta del governo esista un disegno per ricreare la democrazia cristiana, un blocco dei cattolici in politica che possa esercitare almeno il ruolo di ago della bilancia».

Rincara la dose d’Orsi: «In questo governo si vede una forte impronta vaticana, un progetto di egemonia cattolica, il tentativo di dettare l’agenda politica. Non più soltanto un potere d’indirizzo. Da tempo le dichiarazioni della Cei e del Papa sono quotidiane. Il Vaticano concede appoggi in cambio di esenzioni e privilegi. Il finanziamento alla scuola cattolica è uno scandalo. La vera anomalia italiana è questa. Ci indigniamo tanto per quel che accade nei paesi islamici e non per quel che succede in Italia. La religione deve tornare a essere un fatto privato. Le gerarchie cattoliche hanno esitato a lungo prima di prendere le distanze da Berlusconi, hanno aspettato che si muovessero prima altri poteri forti. La Marcegaglia è stata più coraggiosa e dura del Papa».

Per quanto tutti attacchino Gilmour, la visione che emerge è piuttosto desolante. Almeno nell’età moderna, Risorgimento a parte: «Nella mia Storia d’Italia – dice Isnenghi – insegno a essere fieri del Risorgimento. La Germania, che si viene formando in parallelo, non ha un Mazzini o un Garibaldi. Dobbiamo vergognarci meno di noi stessi. Me la prendo con alcuni stereotipi. Come quello del paese da operetta. Siamo un paese tragico. Abbiamo avuto un regicidio, l’assassinio Matteotti,  piazzale Loreto… Ecco, se una cosa si può dire di Berlusconi, è che ha fatto molto per identificarci con lo stereotipo del paese da operetta. Con il comportamento che ha tenuto all’estero soprattutto. Siamo diventati “il paese del cucù”… In Italia si mescola l’elemento tragico e quello operettistico, pizza, mandolino e stragi di mafia… Abbiamo intere regioni in mano alla criminalità organizzata ma giudici che chiedono di essere mandati là per combatterla. Io ragionerei in termini di dualismo, di conflitto, non di normalità e anormalità. Normalità e anormalità rispetto a quale modello?»

Per quanto esalti il Risorgimento, Isnenghi vede una costante storica nella figura del dittatore pro tempore, Garibaldi, Cadorna, il Duce, Berlusconi. Un bisogno di affiliazione, di una figura forte e affascinante da adorare. Tutto discende dal Papa. Poi diventa una versione attualizzata del (Santo) padre: «Un padre giovane, con cui andare al bar, all’osteria o al casino». Al casino in particolare. Gentile invita infine a tenersi lontano dalle eccessive generalizzazioni e lamentazioni: le anomalie toccano ogni paese e gli italiani sono molto cambiati in 150 anni di storia. A non cambiare mai è la classe politica: «Quando Obama incontra Napolitano penso che il nostro presidente era già in parlamento quando quello americano non era ancora nato».