30.9.11

L’Iva sale di 1 punto, i prezzi anche del 7%

Dai pedaggi ai cd, alla benzina: aumenti oltre l’incremento di impostaDe

Il 17 settembre è scattato, per effetto della manovra, l'aumento dell'Iva. Sono passati dal 20 al 21% i detersivi, i giocattoli, le tv ma anche auto, moto, abbigliamento, scarpe, computer, vino, cioccolata, calzature e una serie di altri servizi. E da un giorno all'altro sono aumentati i prezzi. Dell'1%, penserà il più ingenuo. Non proprio. L'effetto dell'operazione, scattata per rimpinguare le casse dello Stato tra i 4 e i 5 miliardi l'anno, sta diventando un po' più complessa. Soprattutto per i consumatori.

Le associazioni lo avevano annunciato: il rischio è un aumento indiscriminato dei prezzi. Tant'è. La benzina è subito volata a 1,7 euro al litro (per poi ripiegare: ieri oscillava tra 1,63 e 1,64 euro), le sigarette sono aumentate in media del 4%, con punte del 15% per il tabacco trinciato. Ma non solo. L'Adoc, l'associazione per la difesa e l'orientamento dei consumatori, ha preso carta e penna e con l'aiuto dei suoi volontari, ha monitorato alcuni negozi in tutta Italia prima e dopo l'innalzamento dell'aliquota. Il risultato? Oggi per fare un corso in piscina potremmo spendere al mese il 5,4% in più e per l'aperitivo con gli amici, aumenti del 3,2%. Certo, si tratta solo di un campione e alcuni prezzi (come nel caso degli aperitivi) sono solo una media di quelli rilevati sul territorio nazionale (nessuno ha mai pagato per un happy hour 7,75 euro). Ma dai risultati finali si ha un'idea di quanto, l'aumento dell'imposta sul valore aggiunto, stia impattando sui nostri acquisti.

Il Codacons poi fa notare: «Se l'Iva passa dal 20 al 21%, non significa che un bene che prima veniva 1 euro ora passa a 1,01 euro. Bisogna scorporare e considerare il prezzo del bene senza Iva, e su quello applicare l'Iva maggiore al 21%». Giusto. Lo abbiamo fatto, ma anche così i conti non tornano. Lo dimostrano, oltre ai calcoli (nella tabella sopra) le decine e decine di segnalazioni arrivate proprio all'associazione presieduta da Carlo Rienzi. Simile a questa: «Stamattina al solito bar, la tazzina di espresso - scrive un consumatore di Roma - mi è stata fatta pagare 0,90 euro contro gli ottanta centesimi pre-Iva. È una truffa».

Un caso tutto particolare è quello dei cd musicali, un mercato che con l'avvento della musica digitale è sempre più in crisi. Innumerevoli gli appelli degli artisti che negli anni passati hanno implorato di far scendere l'aliquota Iva sui cd dal 20 al 4%. Al danno, oggi, si aggiunge la beffa. «A questo punto auspichiamo una decisione sotto il 5% a livello comunitario» commenta Enzo Mazza, presidente della Fimi (Federazione industria musicale italiana). Nel frattempo i prezzi dei cd, anziché scendere per contrastare il fenomeno del download (illegale) e della pirateria, sono saliti. Nei negozi monitorati dall'associazione, al netto delle offerte e delle promozioni, sono passati da 19,40 euro a 20,90 euro.

Con un incremento lontano da quell'uno per cento. E vediamo perché: il prezzo medio dei cd prima del 17 settembre, era di 19,40 euro. Scorporando l'Iva si arriva a un prezzo base di 16,16 euro. Applicando l'Iva al 21%, il risultato è di 19,55 euro. Eppure il prezzo finale al consumatore è di 20,90 euro. Il 7,7% in più se confrontiamo il prezzo prima e dopo l'aumento dell'imposta. Il 6,9% in più se confrontiamo il prezzo del cd per come doveva essere con l'Iva al 21% (19,55 euro) e com'è invece oggi (20,90 euro). «Questo non aiuta né il commercio né i consumatori - aggiunge Carlo Pileri, presidente dell'Adoc -, che in alcuni casi rinunciano all'acquisto. Senza parlare delle sigarette, una vera e propria speculazione di Stato. E a parlare è un non fumatore: a fronte dell'aumento dell'Iva sono stati alzate anche le accise per un totale di 15-20 centesimi a pacchetto». E poi ci sono le autostrade. A sollevare il caso è stata questa volta Altroconsumo: «I pedaggi autostradali - spiegano dall'associazione - sono una delle categorie di servizi interessati dal recente aumento dell'Iva. Nulla di strano, quindi, se sono state adeguate le tariffe. Peccato che sia stato fatto per scaglioni di 10 centesimi e non applicando matematicamente l'1% in più come previsto dalla manovra finanziaria. Cosa significa? Che a Como, ad esempio il pedaggio è passato da 1,90 euro a 2,00 euro, con un incremento reale del 5,26%».
«Un arrotondamento disciplinato dal decreto interministeriale 10440/28/133 del 12 novembre 2001, del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e del Ministero dell'Economia e delle Finanze» fanno sapere da Autostrade per l'Italia. «In pratica, su una cifra da uno a dieci - spiegano - se l'incremento dell'Iva fa arrivare la tariffa a quattro, si arrotonda per difetto (zero). Ma se l'incremento fa arrivare il pedaggio a sei, si arrotonda per eccesso (dieci)». E così ci sono caselli dove l'aumento dell'Iva non ha fatto registrare alcun tipo di incremento (ad esempio Lainate) e altri dove invece il pedaggio è aumentato per eccesso. I comaschi si rassegnino.

Qualche giorno fa è intervenuto sull'argomento anche Mr Prezzi, Roberto Sambuco che ha avviato, in coordinamento con la Guardia di Finanza e gli uffici del Mise, delle azioni di verifica e ispezione. Oltre a un tavolo anti-speculazione. Subito sono seguiti i commenti sarcastici del Codacons: «Mister Prezzi si è svegliato dal letargo in cui sembrava essere caduto - ha detto Rienzi -. Peccato però che i controlli di cui parla andavano realizzati molti giorni fa, ossia ancor prima dell'entrata in vigore dell'aumento». Dall'altra parte, quella delle aziende, c'è chi ha deciso di farsi carico dell'aumento senza alzare i prezzi dei cartellini. Zara, Esselunga, Benetton, solo per citarne alcuni, assorbiranno l'incremento dell'imposta senza riversarla sui consumatori. Almeno per ora.

Corinna De Cesare

29.9.11

Lettera Draghi - Trichet a Berlusconi: «C'è l'esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita»

Francoforte/Roma, 5 Agosto 2011
Caro Primo Ministro,
Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea il 4 Agosto ha discusso la situazione nei mercati dei titoli di Stato italiani. Il Consiglio direttivo ritiene che sia necessaria un'azione pressante da parte delle autorità italiane per ristabilire la fiducia degli investitori.
Il vertice dei capi di Stato e di governo dell'area-euro del 21 luglio 2011 ha concluso che «tutti i Paesi dell'euro riaffermano solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali». Il Consiglio direttivo ritiene che l'Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali.
Il Governo italiano ha deciso di mirare al pareggio di bilancio nel 2014 e, a questo scopo, ha di recente introdotto un pacchetto di misure. Sono passi importanti, ma non sufficienti.

Nell'attuale situazione, riteniamo essenziali le seguenti misure:
1.Vediamo l'esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita. Alcune decisioni recenti prese dal Governo si muovono in questa direzione; altre misure sono in discussione con le parti sociali. Tuttavia, occorre fare di più ed è cruciale muovere in questa direzione con decisione. Le sfide principali sono l'aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualità dei servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano più adatti a sostenere la competitività delle imprese e l'efficienza del mercato del lavoro.
a) È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala.
b) C'è anche l'esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L'accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione.
c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi.

2.Il Governo ha l'esigenza di assumere misure immediate e decise per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche.
a) Ulteriori misure di correzione del bilancio sono necessarie. Riteniamo essenziale per le autorità italiane di anticipare di almeno un anno il calendario di entrata in vigore delle misure adottate nel pacchetto del luglio 2011. L'obiettivo dovrebbe essere un deficit migliore di quanto previsto fin qui nel 2011, un fabbisogno netto dell'1% nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa. È possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l'età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover (il ricambio, ndr) e, se necessario, riducendo gli stipendi.
b) Andrebbe introdotta una clausola di riduzione automatica del deficit che specifichi che qualunque scostamento dagli obiettivi di deficit sarà compensato automaticamente con tagli orizzontali sulle spese discrezionali.
c) Andrebbero messi sotto stretto controllo l'assunzione di indebitamento, anche commerciale, e le spese delle autorità regionali e locali, in linea con i principi della riforma in corso delle relazioni fiscali fra i vari livelli di governo.

Vista la gravità dell'attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate nelle suddette sezioni 1 e 2 siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di Settembre 2011. Sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio.
3. Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per garantire una revisione dell'amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l'efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze delle imprese. Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l'uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione). C'è l'esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province). Andrebbero rafforzate le azioni mirate a sfruttare le economie di scala nei servizi pubblici locali.
Confidiamo che il Governo assumerà le azioni appropriate.
Con la migliore considerazione,

Mario Draghi, Jean-Claude Trichet

27.9.11

Non possumus

di BARBARA SPINELLI

PARLANDO in nome della Chiesa italiana, il cardinale Bagnasco ha usato parole molto chiare, ieri, davanti al Consiglio permanente dei vescovi. Il nome del presidente del Consiglio non viene fatto, ma è di Berlusconi che parla: quando denuncia "i comportamenti licenziosi e le relazioni improprie", quando ricorda il "danno sociale (che essi producono) a prescindere dalla loro notorietà".

Quando cita l'articolo 54 della Costituzione e proclama: "Chiunque sceglie la militanza politica, deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell'onore". Non è la prima volta che il Presidente della Cei critica l'immoralità insediatasi ai vertici del governo italiano, ma questa volta le parole sono più precise e dure, il tono si fa drammatico perché il Vaticano ormai ne è consapevole: la personalità stessa del premier è elemento della crisi economica che sta catturando l'Italia, e all'estero la sua figura non è più giudicata affidabile. Tra le righe, Bagnasco fa capire che le dimissioni sarebbero la via più opportuna: "Quando le congiunture si rivelano oggettivamente gravi, e sono rese ancor più complicate da dinamiche e rapporti cristallizzati e insolubili, tanto da inibire seriamente il bene generale, allora non ci sono né vincitori né vinti: ognuno è chiamato a comportamenti responsabili e nobili. La storia ne darà atto".

Come in altre occasioni, non manca la critica parallela alla magistratura: critica che Berlusconi ha abilmente sfruttato a proprio favore, per lungo tempo, presentandosi come politico vicino alla Chiesa e da essa appoggiato. Il Cardinale ha dubbi "sull'ingente mole di strumenti di indagine messa in campo, quando altri restano disattesi e indisturbati" e giunge sino a dirsi "colpito dalla dovizia delle cronache a ciò dedicate": sono dubbi e sbigottimenti non del tutto comprensibili, perché è pur sempre grazie alla magistratura e alla dovizia delle cronache che la Chiesa stessa, infine, ha dovuto constatare i "comportamenti non solo contrari al pubblico decoro ma intrinsecamente tristi e vacui"; "l'improprio sfruttamento della funzione pubblica"; i "comitati d'affari che, non previsti dall'ordinamento, si autoimpongono attraverso il reticolo clientelare, andando a intasare la vita pubblica con remunerazioni, in genere, tutt'altro che popolari"; l'evasione fiscale infine, "questo cancro sociale" non sufficientemente combattuto. Senza le inchieste della stampa indipendente, senza le intercettazioni ordinate dai pubblici ministeri, senza la documentazione sugli innumerevoli reati imputati al premier, la Chiesa non potrebbe fondatamente pronunciare, oggi, il suo "non possumus".

Anche in questo caso tuttavia, Bagnasco cambia tono rispetto agli anni scorsi. Pur esprimendo dubbi su magistrati e giornalisti, si rifiuta di metter sullo stesso piano le condotte degli uni e degli altri: "La responsabilità morale ha una gerarchia interna che si evidenzia da sé, a prescindere dalle strumentalizzazioni che pur non mancano (...) La questione morale, complessivamente intesa, non è un'invenzione mediatica: nella dimensione politica, come in ciascun altro ambito privato o pubblico, essa è un'evenienza grave, che ha in sé un appello urgente".

La questione morale non è un'invenzione mediatica: lo dicono da tempo tanti cattolici, laici e non, e la Chiesa italiana sembra volerli ascoltare, meno riottosamente di ieri. Si capisce che non faccia nomi espliciti, che non usi l'arma ultima che è la richiesta esplicita di dimissioni: sarebbe un'interferenza nella politica italiana, non promettente per il futuro anche se comprensibilmente invocata da molti. La Chiesa già interviene molto sulle scelte delle nostre istituzioni (il testamento biologico è un esempio), e non sarebbe male se in tutti gli ambiti osservasse la prudenza politica che manifesta verso Berlusconi, non nominandolo espressamente. Forse la condanna che oggi pronuncia - che questo giornale ha chiesto con forza - non può che essere spirituale, al momento: il cristiano non compra l'amore, non compra il consenso, non mente, non inganna, non privilegia i ricchi contro i poveri, non presta falsa testimonianza. Su questi e altri peccati ce ne sono, di cose da dire.

La vera questione, a questo punto, concerne i cattolici che sono nella maggioranza, e che dovranno giustificare ora le innumerevoli connivenze, i silenzi così tenaci e vili. Cosa pensano Formigoni, o Giovanardi, delle parole che vengono dal vertice della Conferenza episcopale italiana? Con che faccia il ministro Rotondi parla di Berlusconi come di un "santo puttaniere"? Perché "santo"? Per tutti costoro, più che per la Chiesa, vale oggi il comandamento di Gesù: "Sia invece il vostro parlare "sì sì", "no no", il di più viene dal maligno". Il Cardinale sembra avere in mente questi politici quando constata: "Colpisce la riluttanza a riconoscere l'esatta serietà della situazione al di là di strumentalizzazioni e partigianerie; amareggia il metodo scombinato con cui a tratti si procede, dando l'impressione che il regolamento dei conti personali sia prevalente rispetto ai compiti istituzionali e al portamento richiesto dalla scena pubblica, specialmente in tempi di austerità".

Non è escluso che il Papa abbia avuto il suo peso, nel linguaggio più aguzzo cui la Chiesa italiana ricorre. Da quando si è inasprita la crisi, Benedetto XVI ha usato parole di grande severità contro le ingiustizie e le diseguaglianze che lo sconquasso economico sta dilatando. Va in questa direzione l'omelia pronunciata l'11 settembre a Ancona. E nel viaggio in Germania il Pontefice non ha esitato ad ammettere che la Chiesa per prima è oggi scossa alle fondamenta: che per sopravvivere e rinascere deve "demondanizzare" se stessa, deve farsi scandalosa. Nel discorso al Konzerthaus di Friburgo ha ricordato che uno dei tanti fattori che rendono "poco credibile" la Chiesa è il suo apparato, e sono le sue ricchezze materiali.

Demondanizzarsi, riscoprire l'umiltà e la povertà: è un progetto di vita alto, è l'antica denuncia che Antonio Rosmini fece nelle Cinque Piaghe della Chiesa (inizialmente la Sacra Congregazione dell'Indice condannò il grande libro, nel 1849). "La Chiesa non deve forse cambiare? Non deve forse, nei suoi uffici e nelle sue strutture, adattarsi al tempo presente, per raggiungere le persone di oggi che sono alla ricerca e in dubbio?" lo ha chiesto a Friburgo il Papa, stavolta, e quel che ha chiesto è importante anche per l'Italia, alla cui costruzione e alla cui unità tanti cattolici laici hanno contribuito. Così come è essenziale anche il discorso sulla povertà. È già un passo non irrilevante la disponibilità di Bagnasco a farsi giudicare, sulle sovvenzioni che la Chiesa riceve dallo Stato italiano: "Facciamo notare che per noi, sacerdoti e vescovi, e per la nostra sussistenza, basta in realtà poco. Così come per la gestione degli enti dipendenti dalle diocesi. Se abusi si dovessero accertare, siano perseguiti secondo giustizia, in linea con le norme vigenti".

26.9.11

Censurare Internet per salvare il premier

Guido Scorza (Il Fatto Quotidiano)

Per sottrarre il premier alla giustizia questa volta, la Rete italiana rischia la censura.

Se, infatti, come appare ormai probabile nelle prossime ore il Parlamento riprenderà l’esame del famigerato ddl intercettazioni e il Governo ricorrerà, ancora una volta, al voto di fiducia, il nostro ordinamento si arricchirà di una nuova disposizione in forza della quale tutti i gestori di siti informatici saranno tenuti a disporre la rettifica di ogni informazione pubblicata online entro 48 ore dall’eventuale richiesta, fondata o infondata che sia.

In assenza di tempestiva rettifica, la sanzione sarà quella di una multa sino a 12 mila euro.

E’ questo il contenuto del comma 29 dell’art. 1 del disegno di legge n. 1611 che già la scorsa estate aveva minacciato di mettere un enorme cerotto sulla bocca – o meglio sulla tastiera – della blogosfera italiana.

In occasione del precedente dibattito parlamentare sul ddl – dibattito che questa volta potrebbe addirittura non esserci complice il voto di fiducia – nonostante l’ampio movimento di opinione sollevatosi contro l’approvazione della norma, nessuno, in Parlamento, aveva ritenuto di intervenire in modo determinato per eliminare dal testo “ammazza informazione”, almeno la norma c.d. “ammazza blog”.

Questa volta le speranze di un intervento in extremis per salvare, almeno, l’informazione libera che corre in Rete, appaiono ancora di meno perché maggiore è il bisogno della maggioranza – o di ciò che resta del clan dei compagni di merenda del premier – di disporre delle nuove regole anti-intercettazioni e perché, comunque, il Governo ha già manifestato l’intenzione di ricorre al voto di fiducia.

L’entrata in vigore del ddl e, in particolare, del comma 29 dell’art. 1 nella sua attuale formulazione ridisegnerebbe, in maniera importante e in chiave restrittiva e censorea, la mappa dell’informazione libera sul web.

Il punto, come ho già scritto in altre occasioni, non è sottrarre il blogger alla responsabilità per quello che scrive perché è, anzi, sacrosanto che ne risponda ma, più semplicemente riconoscere la differenza abissale che c’è tra un blog e un giornale o una televisione e tra un blogger – magari ragazzino – e un giornalista, una redazione o, piuttosto, un editore.

Il primo – salvo eccezioni – sarà portato a rettificare “per paura” e non già perché certo di dover rettificare mentre i secondi, dinanzi a una richiesta di rettifica, ci pensano, ci riflettono, la esaminano, la fanno esaminare e poi solo se sono davvero convinti di dovervi procedere, vi provvedono.

Imporre un obbligo di rettifica a tutti i produttori “non professionali” di informazione, significa fornire ai nemici della libertà di informazione, una straordinaria arma di pressione – se non di minaccia – per mettere a tacere le poche voci fuori dal coro, quelle non raggiungibili, neppure nel nostro Paese, attraverso una telefonata all’editore e/o al principale investitore pubblicitario.

Sarebbe davvero una sciagura per la libertà di parola sul web se, preoccupato di assecondare l’urgenza della maggioranza nell’approvazione del ddl, il Parlamento licenziasse il testo nella sua attuale formulazione.

Inutile ripetere che le conseguenze dell’entrata in vigore della norma sarebbero gravissime: ogni contenuto, informazione o opinione non gradita ai potenti dell’economia o della politica sarebbe destinata a vita breve sul web e ad essere rimossa – lecita o illecita che ne sia la sua pubblicazione – a seguito dell’invio di una semplice mail contenente una richiesta di rettifica.

25.9.11

Facebook mostra il suo profilo migliore

Timeline in luogo dei profili per raccontare l'evoluzione dell'attività social dei singoli utenti. E ancora, app in collaborazione con sviluppatori terzi, editori e media per l'intrattenimento in blu

Dopo il redesign della sua homepage vi sono altre novità in vista per Facebook: proprio in questi giorni sta ospitando la conferenza f8 e in questa sede ha incontrato gli sviluppatori, parlato di piattaforme e in particolare di Open Graph, il sistema che integra app terze e contenuti nel flusso di notifiche e di aggiornamenti delle pagine.

Fra le maggiori novità presentate vi è Timeline: con l'idea di vedere quanto è cambiato il profilo di ogni utente da quando si è iscritto a Facebook, il social network in blu sta introducendo questa pagina che ospita contenuti in ordine cronologico e raccoglie tutto quello che si è condiviso nella propria vita su Facebook.

Si tratta, in pratica, di una sorta di album dei ricordi dedicato al proprio passato sul social network, o meglio a raccontare la propria storia, e andrà a sostituire l'attuale profilo.

L'aggiornamento, che sarà disponibile dalle prossime settimane, è stato pensato peri fornire un mezzo per guardare agli aggiornamenti più recenti senza perdere però le cose più importanti del passato: il social network sembra quasi voler sottolineare di far parte della vita dell'utente da ormai più di qualche anno e che è stato il testimone e il custode di tanti ricordi preziosi.

Al contempo, dopo aver modificato nei giorni scorsi la homepage, dimostra di voler dare una sterzata al suo look, e cambia così anche l'altro pilastro cui si fondavano le abitudini degli utenti: resta il dubbio se, senza profilo e notizie più recenti/più popolari, gli utenti sentiranno più l'aria fresca della novità o il vento gelido di un cambiamento non richiesto.

Visivamente Timeline ha il suo appeal: offre una pagina più larga del normale profilo e molti più contenuti da consultare. In alto a destra c'è posto per una grande foto che funge da copertina e che l'utente può scegliere, in basso vi sono gli eventi e le immagini passate in ordine cronologico e personalizzabili manualmente.

L'utente, poi, può arricchire questa pagina con social app, chiamate per il momento Lifestyle apps, che permettono di condividere la musica che si ascolta/ascolta, le ricette cucinate ecc.

Gli sviluppatori (o chiunque per avere l'anteprima si voglia spacciare per tale) hanno ottenuto accesso ad una versione in anteprima di Timeline proprio per far sì che possano testare le loro app.

Non solo: proprio sulle app Facebook dimostra di voler operare e, oltre all'introduzione di Timeline, ha iniziato a collaborare con diversi operatori dei media ed editori per portare applicazioni ad hoc sul social network.

A collaborare con Facebook ci sono, tra gli altri, Spotify, con un'app per ascoltare musica sul social network, Netflix, che permette così la visione di film in streaming come già sperimentato da Warner Bros, e News Corp che porta le pagine del suo The Daily sulla piattaforma blu.

Queste app, peraltro, saranno direttamente accessibili dagli utenti senza la normale procedura di installazione, la necessità di dare i permessi per pubblicare e accedere alla propria bacheca e senza dover lasciare Facebook: la novità è possibile per l'integrazione data da Open Graph e rappresenta l'intenzione di Zuckerberg di monopolizzare definitivamente il tempo degli utenti online.

Al contempo, peraltro, sembrerebbe trattarsi di un'agevolazione che rischia, se non bilanciata da un qualche tipo di funzione personalizzabile, di aggrovigliare nuovi nodi in materia di privacy.

23.9.11

Slipping into darkness

Italy’s tottering prime minister (The Economist)

How much longer can Silvio Berlusconi go on?

SILVIO BERLUSCONI and his coalition ally, Umberto Bossi, look increasingly like Butch Cassidy and the Sundance Kid in the last scene of the 1969 Western: wounded, doomed, yet seemingly unaware of the sheer numbers ranged against them.

Already rocked by thousands of pages of evidence detailing his alleged whoremongering, Italy’s prime minister took a more serious hit on September 20th when Standard & Poor’s, a ratings agency, downgraded Italy and expressed grave doubts about the government’s ability to respond effectively to the crisis in the euro zone. Such views are widely shared in Italy. Most Italians seem to have realised that their prime minister is a liability. His approval rating has slumped below 25%. He lost the unions a long time ago; now employers have lost faith in his right-wing government’s handling of the economy.

After S&P’s downgrade Il Sole-24 Ore, a business newspaper owned by Confindustria, the bosses’ federation, said it was time for Mr Berlusconi to go. Italy, it argued, was now the euro-zone country most likely to follow Greece into turmoil. It blamed, among other things, “the fragility of its governing coalition, the embarrassing chain of scandals that directly affect the prime minister, his ministers and their immediate associates, [and a] persistent inability to take painful but necessary decisions.”

Even this is not the end of Mr Berlusconi’s troubles. He is a defendant in three trials: one on charges of embezzlement, tax-dodging and false accounting, one in which he stands accused of paying an under-age prostitute and one for alleged bribery. (He denies all the charges.) The third, in which he is accused of corrupting his former legal adviser, David Mills, is the one he is said to fear most. On September 19th the judges overseeing the case shortened the list of witnesses, making it more likely that a verdict will be reached before Mr Berlusconi is saved, as he has so often been before, by a statute of limitations.

Just as damaging are two investigations in which the prime minister is not a suspect. One involves claims that he was blackmailed by Giampaolo Tarantini, a businessman from the southern city of Bari who is alleged to have supplied more than 100 women, including numerous prostitutes, for parties at Mr Berlusconi’s homes. The other, which focuses on Mr Tarantini’s alleged pimping, led on September 15th to the release of some 5,000 pages of evidence. Besides plenty of titillation, these included claims that the prime minister had acted in ways that were not just unseemly but illicit. It was already known that one of his guests was the girlfriend of a gangster—but not that he had put an official plane at the disposal of his alleged pimp, that he had obtained a visa for him to visit China, that he had found work for one of his shapely young guests on the publicly owned RAI television network and that he had arranged for Mr Tarantini to discuss juicy contracts with senior executives of Finmeccanica, a defence firm partly owned by the state.

In most democracies any of these allegations would surely be enough to remove the prime minister. Yet although Mr Berlusconi’s position has become untenable, the manner and timing of his departure remain unclear. A recent editorial in Corriere della Sera, a daily, suggested he might follow the example of his Spanish counterpart, José Luis Rodríguez Zapatero, and call an early election at which he would not stand, clearing the way for co-operation between government and opposition.

If the prime minister refuses to budge, he could be removed by President Giorgio Napolitano (although the head of state has said he will do this only if the government loses the confidence of parliament). Or he might be deserted by his coalition allies in the Northern League (but Mr Bossi has vowed to remain loyal). Or he might fall to a rebellion in his People of Freedom (PdL) party. But with many of its members owing their positions and livelihoods to Mr Berlusconi, that will be difficult.

This week brought signs of a possible movement in the logjam. On the day of the rating downgrade the government lost five parliamentary votes, largely because some PdL deputies failed to turn up. On the same day Mr Napolitano held meetings with senior political figures that looked like a sounding-out of opinion in anticipation of a possible government crisis.

A new government would be no panacea. As S&P’s analysts noted, resistance to the structural economic reforms that Italy so desperately needs is rife among trade unions, professional bodies, incumbent monopolies and the public sector. Ditching Mr Berlusconi might be a good start. But it would be no more than that.t would be no more than that.

19.9.11

Prima lezione di democrazia

Gherardo Colombo - La Repubblica
(per leggere l'articolo cliccare sul titolo del post)

Il dovere civico di testimoniare e le scelte del Premier

Luigi Ferrarella

Il braccio di ferro indica che il premier vuole scegliersi le regole, senza seguire quelle che valgono in tutti i tribunali

Non è un capriccio del premier o un'impuntatura dei pm il braccio di ferro sulla testimonianza che Berlusconi, convocato dalla Procura di Napoli, si rifiuta di rendere se non gli verrà consentito di farsi accompagnare dai suoi avvocati e quindi di potersi avvalere delle facoltà (compresa quella di non rispondere o di mentire) che il codice riconosce agli indagati in procedimenti connessi e non ai testimoni, obbligati invece a rispondere e a dire la verità.

La posta in gioco è molto più alta dell'orgoglio delle parti in causa, e perfino della sorte della singola inchiesta: è invece l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, e perciò è affare di tutti e non soltanto di Berlusconi o dei suoi pm, dell'arrestato Tarantini o del latitante Lavitola, la cui sorte è appesa proprio ai chiarimenti che la parte offesa Berlusconi potrebbe dare con la propria deposizione. È insomma la possibilità stessa di celebrare un procedimento secondo le regole valide per ricchi e poveri, potenti e diseredati.

Tutti i giorni, infatti, in tutti i palazzi di giustizia d'Italia ci sono persone che, citate come testimoni, vorrebbero tanto farne a meno: lamentano di dover sacrificare impegni lavorativi e personali, sbuffano per il fatto di dover sobbarcarsi magari anche lunghe trasferte a fronte di miserrimi rimborsi chilometrici, si chiedono perché non possano cavarsela spedendo una memoria scritta, e nei casi più delicati mandano (proprio come Berlusconi) il proprio avvocato a chiedere di essere ascoltati con le facoltà degli indagati anziché con gli obblighi dei testi. E tutti i giorni, in tutti i palazzi di giustizia d'Italia, queste persone si sottopongono infine alle decisioni dei vari soggetti previsti dalla legge (di volta in volta Procure, Tribunali, Corti d'Appello), pena l'ordine ai carabinieri di accompagnare coattivamente il teste recalcitrante.

Ecco perché il braccio di ferro sulla testimonianza va ben oltre la contingenza dell'inchiesta di Napoli: pretendendo per sé regole diverse da quelle che valgono per tutti gli altri cittadini chiamati ogni giorno come lui ad adempiere al dovere civico di testimoniare, il presidente del Consiglio vuole scegliersi le regole del deporre, proprio come già ha voluto scegliersi i giudici (legge Cirami sul legittimo sospetto e conflitti di attribuzione su Ruby), le prove (legge sulle rogatorie e ddl sulle intercettazioni), i reati (legge sul falso in bilancio), i tempi (legge ex Cirielli sulla prescrizione e ddl processo lungo), le impugnazioni (legge Pecorella), le immunità (legge Schifani e legge Alfano). Ecco perché, a prescindere dal merito dell'indagine, è una sconfitta il fatto che oggi il premier, invece di concordare con i pm napoletani la data della propria testimonianza che la legge gli consente di rendere stando a Palazzo Chigi, preferisca farsi scudo di una sonnolenta miniudienza (si comincia addirittura alle ore 11 e c'è un solo teste minore da ascoltare) di un processo-zombie come il processo Mills, la cui prescrizione tra quattro mesi è ormai da tempo assicurata dalla combinazione tra vecchie leggi ad personam e attuali impasse procedurali, amplificate dall'accordo informale richiesto mesi fa da Berlusconi e concessogli dalla presidenza del Tribunale per procedere di norma con udienze soltanto il lunedì.

A meno che il premier non abbia un sussulto e, per rendere più credibili i suoi «non mollo», oggi venga al processo Mills, dove lo si accusa di aver corrotto un testimone in giudizio, per annunciare la sua decisione di rinunciare a godere in febbraio della sicura prescrizione. Proprio quello, peraltro, che il partito del premier reclama a gran voce dall'indagato pd Filippo Penati.

12.9.11

Le nostre metamorfosi

Barbara Spinelli (La Repubblica 12.09.2011)

Giovedì, in una discussione su La7 che ha fatto seguito al film di Roberto Faenza e Filippo Macelloni, “Silvio Forever”, il direttore del Foglio ha detto una cosa importante. Ha detto che, grazie agli anni che portano l’impronta di Berlusconi, l’Italia avrebbe vissuto una “liberazione psicologica”. Si è sbarazzata di vecchie incrostazioni moraliste, di una democrazia con troppe regole, di tendenze micragnose, formalistiche. L’ora dei consuntivi sta arrivando, e nella valutazione dei diciassette anni passati c’è anche questo giudizio sull’avventura berlusconiana, imperturbabilmente positivo: quali che siano i loro esiti, vi sono fenomeni grandiosamente anomali che fanno magnifica la storia, in Italia e altrove.
È significativo che negli stessi giorni si celebri il decimo anniversario dell’11 settembre, perché anche qui fu un fenomeno prodigiosamente anomalo a trasfigurare la storia. I rivoluzionari amano questi prodigi, sia quando li incensano sia quando li demonizzano, perché il Grande Fenomeno fa tabula rasa, crea nuove classi dirigenti, interrompe quel che nella democrazia è lento e monotono, formalistico e incastonato in regole. Il tempo d’un tratto s’arresta, il rivoluzionario prova l’estasi dell’istante liberatorio. Il musicista Karlheinz Stockhausen s’estasiò, il 16 settembre 2001, davanti alla “più grandiosa opera d’arte nella storia cosmica”.

Nella discussione diretta da Enrico Mentana, spiccava la figura di Eugenio Scalfari. L’anomalia berlusconiana non gli appariva affatto grandiosa. Il giudizio era gelido, non magato neppure nelle pieghe, allergico all’inconcreto. Faceva impressione la sua presenza perché lo sguardo sul presente era ben più lungo dello sguardo dei colleghi. Il fenomeno Berlusconi (ma avrebbe potuto parlare anche dell’11 settembre, o della crisi economica) non era descritto come un botto improvviso, che fa piazza pulita e crea nuovi mondi. S’iscriveva in una storia lunga, che ancora ci tocca esplorare e che lui scruta dai tempi della prima repubblica con penna precisa. Mi sono chiesta come mai un giornalista con tanti anni di vita e d’esperienza sembrasse non solo il più acuto osservatore del presente, ma il più giovane.
La chiave penso sia la sua curiosità. Il curioso, lo dice l’etimologia, ha cura di quel che a prima vista pare enigmatico. Non gli basta vedere la pelle delle cose, ha brama di investigare, di tuffarsi molto a fondo, immergendosi con la testa come la balena narrata da Melville. Non si accontenta, e in genere usa poco questo tiepido aggettivo: contento. Il suo modo d’essere gli consente di intuire, nelle parole e negli eventi, quel che è altro dalla parola o dall’evento subito percepibili. Heidegger scrive cose simili, sulla tecnica: “L’essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico. Non apprenderemo mai la nostra relazione con la sua essenza, fino a quando rappresenteremo e praticheremo solo la tecnica. Sempre rimarremo, non liberi, incatenati alla tecnica: sia che l’approviamo con entusiasmo, sia che la neghiamo”.

Nel raccontare l’epoca che abbiamo alle spalle, Scalfari ragionava allo stesso modo: “La questione davvero importante non è Berlusconi. È come l’Italia abbia potuto sopportare un personaggio così per 17 anni. Chi siamo noi è la questione”. L’essenza di Berlusconi non è Berlusconi, così come l’essenza dell’11 settembre non è l’11 settembre ma la risposta che all’attentato venne data e la torpida genealogia dell’accadimento. In Italia l’essenza è la misteriosa, sempre ambigua metamorfosi dell’uomo e del suo mondo: il mondo che egli crea e quello che da fuori lo pigia e lo mette alla prova. Che lo spaventa anche, inducendolo a bendarsi gli occhi e seguire chimere per non vedere i precipizi verso cui sta correndo.

Se cito Scalfari a proposito dei bilanci che si stanno facendo (del berlusconismo, dell’11 settembre) è perché la metamorfosi è parte centrale del suo ultimo libro (Scuote l’anima mia Eros, Einaudi 2011) e perché i concetti di cui il testo è disseminato aiutano a capire la crisi che viviamo: la metamorfosi in primis ma anche la guerra fra gli istinti, l’amore di sé e dell’altro, la morte che impronta la vita e dunque viene prima della vita. E l’avarizia infine, una parola che mi ha colpito perché stranamente si è diradata nel dialogo fra le persone. Nel libro è evocata almeno tre volte. Una prima volta quando l’autore s’interroga sul segno (“più lieve della traccia che una lepre fuggitiva lascia sulla neve”) che resta delle singole vicende umane. Proprio perché la nostra è una “piccola vita circondata dal sonno”, scrive citando Shakespeare: “Non dilapidatela, non difendetela con avarizia (…) Vivetela con intensa passione, con speranza ed allegria”. Queste cose si imparano nell’adolescenza, quando sei in trasformazione e provi a cambiare in meglio il tuo Io. S’imparano anche in vecchiaia: se vissuta bene, è anch’essa metamorfosi. Ricordo il bellissimo disegno di Goya, al Prado. Un vecchio cammina appoggiato a due faticosi bastoni e sotto è scritto: Aùn aprendo, Ancora sto imparando.

Il secondo accenno all’avarizia è quando i mortali sono descritti come centauri, metà bestie metà uomini, sempre esposti al sopravvento del cavallo. L’avarizia di sé è figlia di questo rachitismo spirituale: dimentichi quel che fa dell’uomo un uomo, sei sopraffatto, rattrappisci. C’è infine un terzo passaggio, in cui ingeneroso è chi crede in una sola verità, e diviene avaro di sé.
L’avaro somiglia molto all’incurioso, che si fascia gli occhi per paura di disperdere quel che ammonticchia per sé. Anch’egli non ha cura dell’altro. Quando gli va incontro, è uno specchio che cerca: dunque vede solo se stesso. Giustamente è stato evocato, nella discussione, il narcisismo che affligge Berlusconi e l’Italia che l’ha scelto come modello. L’avaro incurioso vede l’Uno (la propria verità); al Due non arriva. Quando erano più sferzanti, i critici americani di G. W. Bush lo chiamavano incurious.

Non che sia mancata, subito dopo l’11 settembre, la sete di sapere. “Perché ci odiano?”, ripetevano sgomenti i politici Usa. Ma la domanda non era mai rivolta a se stessi, il male assurdo era sempre fuori. Anche Berlusconi chiede, di continuo: “Perché mi odiano?”, come se la sua persona fosse satanicamente osteggiata per motivi estranei a quel che lui è e fa. Anche qui è elusa la vera domanda: come avviene la seduzione? Cosa ha prodotto? E in America: come è potuto accadere che la guerra totale al terrore, lanciata caoticamente nel 2001, stia accelerando il crollo della potenza americana?
Dice Scalfari che gli italiani hanno un terzo istinto, oltre a quello buono e cattivo: un istinto anarcoide, antipolitico. Credo non sia un vizio solo italiano: penso alle civiltà suicide descritte da Jared Diamond nel libro Collasso, agli abitanti dell’isola di Pasqua, allo spirito anarcoide con cui distrussero tutti gli alberi fino a non poter costruire una sola barca per andare a pescare e nutrirsi.

In Italia come in America, l’evento cui abbiamo assistito è la morte della politica, il trionfo di poteri paralleli e sommersi che nemmeno Obama riesce a frenare. E la storia di questo trionfo è molto più lunga dei dieci anni che ci separano dall’11 settembre, o dei diciassette che ci separano dal Berlusconi politico. Negli Stati Uniti la dismisura, la hybris, culminò nel Progetto per il nuovo secolo americano, che i neoconservatori scrissero nel ’97, in collaborazione con l’industria militare: finita la guerra fredda l’America doveva trasformarsi in unica superpotenza, senza più rivali. L’orrore omicida dell’11 settembre permise al progetto di affermarsi. In Italia la hybris è radicata nella storia della P2, che ebbe il Premier tra i suoi affiliati. I fenomeni grandiosamente anomali hanno tutto un pedigree, e non solo: hanno effetti – sulla vita dei cittadini e sul futuro – che il giudizio finale deve incorporare. L’effetto in America è stato il collasso del potere mondiale. Quanto all’Italia, cosa ha prodotto la talentuosa conquista berlusconiana dei consensi? È ancora Scalfari che parla: “Il risultato lo si vede: siamo ridotti in mutande”.

Ascoltiamo quel che disse della P2 Tina Anselmi, il 9 gennaio ’86 in una Camera semivuota: “Ciò che dobbiamo chiederci è se accanto alla politica ufficiale, gestita nei modi e nelle forme che l’ordinamento consente, possa esistere una politica sommersa. Se (…) possa esistere un versante occulto, nel quale programmi e azioni destinate a incidere nella vita della collettività vengono elaborati al di fuori, non dico di ogni controllo ma della stessa conoscenza dell’opinione pubblica (…) Se sia possibile coltivare l’illusione di una correzione del sistema democratico attraverso meccanismi compensativi che, operando in maniera occulta o riservata, sarebbero in grado di assicurargli la necessaria stabilità” (Anna Vinci, La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi, Chiarelettere 2011). Sotto forme diverse (P2, P3, P4) la politica sommersa continua.

Chi siamo noi è la questione. È la sola che conti. Non si tratta di dividersi tra benpensanti e malpensanti. Qui c’è bisogno di pensanti, tout court. Di trasformatori, consapevoli con Nietzsche che “Noi, cercatori della conoscenza, siamo a noi stessi degli sconosciuti, per il semplice motivo che non ci siamo mai cercati”.

Dialogo sulla Scuola che insegna a vivere

Cesare Segre e Irene Gianotti (Corriere 12.09.2011)

«Cari studenti, anche se pare non più di moda, vi auguro un buon anno scolastico. Imparare è un piacere, ma anche una fatica che un giorno vi ripagherà dell’impegno…». «Caro professore, conosco l’importanza dello studio, ma in una scuola sempre più sganciata dalla realtà vivo con l’angoscia del futuro…». Sul senso della scuola che inizia, dialogo tra un prof e uno studente.

Cari studenti, tra i banchi imparate la ricchezza delle differenze
di CESARE SEGRE
Cari studenti,
anche se dirlo non pare più di moda, l’inizio dell’anno scolastico è sempre un evento importante nella vostra vita. Vi auguro che sia per voi molto felice. Voi entrate, o rientrate, in quella “società degli studi” che, secondo un progetto messo a punto nel corso dei secoli, dovrebbe fornirvi le conoscenze che vi saranno utili nella vita. Non parlo solo dell’utilità pratica, certo importante, ma anche di quella che consiste nel saper godere di tutti i piaceri che l’esercizio dell’intelligenza e della sensibilità può fornire. La vostra fortuna nel futuro può essere maggiore o minore; ma voi potrete sempre, se trarrete profitto dagli anni di scuola, ricorrere al tesoro costituito dall’acquisita capacità di comprendere i fatti e di saper riflettere sulla realtà. Poi, la “società degli studi” dovrebbe fornirvi non solo conoscenze, ma anche strumenti per l’interpretazione, persino la capacità di apprezzare la bellezza e la sensibilità per l’equilibrio del nostro ecosistema. Leggendo un libro — è vitale continuare a farlo — penserete con gratitudine a chi vi ha insegnato a leggere e capire; vedendo una pittura o un edificio, sarete in grado di apprezzarne le qualità. Avrete sempre maggiori curiosità per il mondo che vi circonda.
Imparare è un piacere, ma è anche una fatica. Pedagoghi troppo indulgenti hanno cercato di trasformare questa fatica in divertimento, o di alleggerirla. Ma c’è poco da fare. Perché le nuove conoscenze entrino nelle nostre teste, è necessario un impegno, dunque uno sforzo; solo poi, una volta assimilate queste conoscenze, sentiamo il sollievo, anzi la gioia di chi ha fatto una conquista. Se ci pensate bene, sforzo e sollievo sono analoghi a quelli di chi esercita uno sport: eliminarli sarebbe come offuscare la realtà dello sport. Notate poi che l’allenamento aumenta la capacità di allargare il nostro orizzonte, sinché apprendere diventa quasi un’abitudine.
Da oggi, voi farete parte di classi in cui incomincerete a esercitare l’arte della convivenza sociale: i rapporti con gli altri studenti, con i docenti, con le autorità scolastiche, sono un piccolo modello di Stato. Vi accorgerete che seguendo i principi della giustizia, e magari della carità, questi rapporti si rivelano scorrevoli; e l’impegno comune (insegnamento e apprendimento) li garantisce. Non incominciate nemmeno per leggerezza a praticare la prepotenza, peggio se in gruppo. La parola vigliaccheria, parente di vergogna, dovrebbe farvi detestare qualunque cedimento a questa tentazione, anche perché questi cedimenti vi priverebbero moralmente dei vostri diritti entro la comunità. Quanto poi alla furbizia, ricordatevi che è l’arma dei deboli, lasciatela perdere.
Soprattutto se siete in una scuola di Stato, constaterete differenze di opinione tra i docenti. È una grande ricchezza. Perché potrete riflettere su queste differenze, e farvi un’opinione personale. Da tutti si può imparare; nessuno va condannato per le sue idee. Tenete presente che lo spirito critico vi mette al sicuro dagli impostori grandi e piccoli, che ci insidiano tutti. E ricordatevi che anche i mass media, preziosa fonte di notizie e spettacoli e modi d’essere, vanno sempre, dico sempre, sottoposti a verifica, facile per chi è un po’ scaltrito. Utilizziamo tutti Internet; ma dobbiamo renderci conto che qualunque dato o notizia che fornisce è soggetto a errori o mistificazioni, e va controllato.
E non dobbiamo chiudere gli occhi. Sono in atto cambiamenti nell’organizzazione degli studi: non sappiamo ancora come funzioneranno, e occorre una certa duttilità, oltre che la capacità di segnalare con fermezza gli errori di programmazione. Per di più, i cambiamenti hanno luogo in un momento di crisi economica europea, e particolarmente italiana. Questo significa, non nascondiamocelo, gravissime riduzioni di spesa e di personale, in un ambito nel quale il nostro Paese è già molto arretrato. Qui non è possibile dare suggerimenti. Bisogna comunque farsi sentire a tutti i livelli degli organismi scolastici, insistendo soprattutto sul fatto che dalla nostra scuola verranno fuori i futuri cittadini e cittadine, che la vostra generazione costituirà il fulcro dell’Italia di domani. Anche in questo caso la lucidità e la forza delle idee potrà essere una buona base.

Cari prof, troppo distacco tra i manuali e il mondo fuori dall’aula
di IRENE GIANOTTI *
Cari professori,
sto per cominciare l’ultimo dei cinque anni di liceo. Conosco bene le raccomandazioni che vengono fatte ogni volta che si torna in classe: studia, a scuola si impara a vivere, la tua fatica sui libri sarà ripagata nella vita.
Ma oggi ho molti dubbi: in classe mi sembra di vivere fuori dal mondo reale. Penso a quelli della mia età, che fanno i conti con le cose fatte e le occasioni perdute. Quale futuro avremo?
Personalmente uscirò cambiata dalla lezione ricevuta dal confronto continuo, non sempre facile, con i compagni di classe, e con i diversi professori. Una abitudine a far gruppo che mi mancherà all’università, perché, a quello che ho sentito, almeno negli atenei italiani, l’impegno è soprattutto individuale. Né conterà più il sostegno dei genitori.
Voi che venite da un mondo fatto di maggiori sacrifici ci rimproverate di non essere disposti all’impegno. Vi assicuriamo che non è così. In cinque anni, nessuno ci ha regalato nulla: abbiamo studiato dalla matematica al greco antico, dalla storia alla filosofia, dalla biologia alla letteratura.
Cinque o sei ore in classe al mattino e almeno quattro ore per i compiti a casa. Tutti i giorni per nove mesi. Ma sono contenta perché consapevole che una preparazione come quella che dà il liceo statale italiano trova pochi riscontri nelle scuole di pari grado americane o anche europee.
Certo, leggo che le scuole che funzionano davvero sono minoranza, ma voglio dire che non mi sento di appartenere a una «casta inferiore», come spesso viene dipinta la popolazione scolastica italiana.
Sono dunque grata al liceo classico per avermi dato l’opportunità di una cultura generale vasta, ma mi rendo conto che certi punti, credo anche per un problema di costi, siano stati trascurati. Mi riferisco ai computer (non ci sono pc in classe ma una sala computer per tutta la scuola) e a un uso critico di Internet, che, anche se malvisto da alcuni professori «conservatori», domina nel mondo esterno.
Alcune facoltà richiedono un «patentino informatico» tra i requisiti per la laurea. Non si potrebbe anticipare questo passo alla scuola secondaria?
Un altro punto, cari professori, è il distacco tra l’aula del liceo e quello che sta fuori. Il liceo ci dà una «cultura universale» e noi ne siamo ben contenti.
Ma l’universo che abbiamo appreso (e amato) sui manuali e sui testi dei classici (da Tacito a Dante, da Svevo a Pavese) che ci avete spinto a leggere durante tutte le scorse estati sa un po’ di «orticello chiuso».
In un’ora di storia civica, poi, non si ha certo il tempo non dico per approfondire ma per sfiorare la cultura delle civiltà che stanno sfidando e mettendo in crisi la nostra.
Mi riferisco alla Cina e all’India e alla loro storia millenaria. Dovremmo avere gli strumenti per dialogare con le ragazze e i ragazzi di Shangai o di Bangalore, già oggi protagonisti di un mercato globale e nostri futuri concorrenti.
Alla fine di quest’anno dirò arrivederci ai miei compagni di Quinta B (anche se secondo la vecchia divisione del liceo classico, in vigore sino all’anno scorso, saremmo nella Terza F).
Dieci maschi e diciotto femmine: due o tre faranno giurisprudenza, molti, ho sentito, tenteranno di entrare a medicina, uno a lettere moderne, un paio faranno i test per la facoltà di economia e commercio, io forse mi iscriverò ad architettura. Come vedete, sono scelte molto diverse.
Una cosa ci accomuna: il futuro incerto. Negli anni Settanta, quando i nostri genitori uscivano dalla scuola secondaria, non avevano questo tipo di angoscia.
Chi andava a lavorare subito, chi si iscriveva all’università, nella certezza che avrebbe trovato un posto di lavoro. Oggi in Italia non è più così. E questa, forse, è la nostra preoccupazione più grande.
Un’angoscia che non pretende risposte certe al mille per mille, ma almeno un quadro più solido entro il quale muoversi. Come avviene all’estero.
* Liceo class ico Tito Livio di Milano (Quinta B)

Scuola: ha fatto l'Italia, può renderla multiculturale

Tullio De Mauro

Un geniale architetto e urbanista italiano, Luigi Piccinato, per sdrammatizzare il contrasto tra città e campagna ripeteva un bon mot: «Tutte le città sono nate in campagna». Quando si parla di alieni, forestieri, migranti, meticci, vale la pena ricordare che siamo tutti alieni e forestieri per qualcuno, tutti abbiamo il dna di qualcuno venuto da fuori, foresto, nel luogo in cui siamo e dunque tutti siamo un po’ meticci, basta risalire a volte anche poco nel tempo e nelle generazioni.

La bimbetta che con aria solenne dice: «Noi a casa nostra facciamo così» e si riferisce a qualche azione assolutamente comune, ma poi è attenta e curiosa al nuovo e all’ignoto, o il grande, famoso discorso con cui, secondo Tucidide, Pericle esaltava l’orgoglio di essere ateniesi perché cittadini di una città sempre pronta a ospitare gli altri venuti da fuori, riflettono l’ambivalenza che ci accompagna. Siamo noi perché altri, anche assai diversi da noi, ci hanno fatto e fanno così come siamo: vale per le singole persone e per i grandi gruppi umani.

Le mille e mille lingue del mondo riflettono questa ambivalenza. Chi viene da fuori fu, per i Latini, partendo dalla stessa etimologia, hospes e hostis, «ospite» e «nemico». L’estraneo fu ekhthròs e xénos, «esterno» per i Greci, ma poi si dicevano xénia i regali, tipicamente da destinare inizialmente a chi veniva da fuori. Nella Roma primitiva, quelli di fuori porta, stanziati al di là dell’originaria cinta muraria, in opposizione ai nativi interni, gli inquilini, furono detti exquilini. Ma poi le mura si ampliarono e l’Esquilino divenne uno dei sacri Sette Colli. Del resto, sta nei miti delle origini di Roma il deliberato meticciato. E nella parola italiana ospite, «ospitante» e «ospitato», vive ancora un’antica e non rara ambivalenza etimologica altrettanto presente in altre lingue: sembra certo che in latino hospes sia stato dapprima il «padrone di casa che accoglie gli hostes stranieri», l’ospitante, e solo poi l’ospitato.

Se le migrazioni non segnassero la storia del genere umano saremmo ancora arrampicati sugli alberi di una savana nel centro dell’Africa, incerti se scendere e camminare dritti sul suolo. Alcuni milioni di anni fa scegliemmo – scelsero per noi – di scendere. E da allora le generazioni successive di ominidi, ormai bipedi deambulanti, a ondate successive lasciarono il cuore dell’Africa per diffondersi nei continenti. Ultimi, un po’ più di duecentomila anni fa – già il fuoco veniva acceso e sfruttato e spento e riacceso in Asia ed Europa, già vi erano tecniche sofisticate per costruire strumenti preziosi al vivere, già tutti gli altri ominidi sapevano comunicare e istruire per segni – gli homines sapientes sapientes, quali noi dovremmo onorarci di essere; attraverso il Sinai, intorno a centomila anni fa passarono in Asia e in Europa, in tempi più recenti, attraverso le Aleutine, si spinsero nel continente americano. E sempre conservarono l’ambivalenza: formavano gruppi diversi per sopperire solidalmente alle necessità del vivere e ciascun gruppo, nato da altri, tornava ad aprirsi e fondersi con altri ancora; costruivano lingue diverse per parlare tra loro nel gruppo, ma ogni lingua era ed è la chiave per entrare in ogni altra e capirla, e dalle altre lingue trae ricchezza di espressioni e di nuovi significati.

Questa storia naturale del migrare sta scritta nella struttura più profonda della nostra specie e nella lunga storia di cui siamo figlie e figli. Non dovremmo mai dimenticarlo. Qua e là nell’Europa di oggi c’è chi cerca di dimenticarlo e farlo dimenticare. C’è chi alimenta la paura di altri nuovi e la sfrutta per carpire qualche voto. Capita perfino in Paesi che sono stati e sono Paesi di larga e civile ospitalità, dalla Francia ai Paesi scandinavi. E capita in Italia. Ma non capita in generale nelle nostre scuole.

Bisogna, per la verità, dire che lo sfruttamento a fini elettorali delle paure è cominciato in Italia relativamente tardi. Sergio Mattarella, ministro dell’Istruzione del sesto governo Andreotti, tra il 1989 e il 1991, mentre era ormai chiaro ai più attenti che l’Italia, antico Paese di emigrazione, stava diventando, anzi era diventata terra di immigrazione, emanò un primo testo normativo, una «circolare», indirizzata alle scuole perché predisponessero quanto era necessario all’accoglienza dei bimbi e ragazzi immigrati o figli di immigrati. Le scuole già erano su questa lunghezza d’onda e, anche se forse più nessuno ricorda quel benemerito atto, lo sono rimaste. E un altro tratto importante del ceto dirigente è il comportamento delle università, che dagli anni Novanta, e in qualche caso già anni prima, si sono attrezzate per studiare sistematicamente gli aspetti demografici, sociologici, linguistici e educativi della crescente immigrazione, da Pavia a Siena (l’Università per Stranieri), da Bergamo e Venezia (Università Ca’ Foscari) a Napoli e «Roma Tre», da Palermo all’udinese Centro per il Plurilinguismo, per ricordare almeno alcuni dei centri più attivi.

Vinicio Ongini va al concreto e viaggia attraverso le scuole italiane documentando difficoltà, scacchi e successi della scuola multiculturale. Chi, dall’informazione corrente, è frastornato da notizie di casi di xenofobia farebbe bene a seguirlo nel suo viaggio, a leggere i suoi concreti e suggestivi «casi di studio».

Non è l’unico aspetto per cui la scuola non si può dire che rifletta meccanicamente tendenze e umori appariscenti nella società o, per dir meglio, se riflette la società è capace di espungere e spurgare quanto c’è in essa di deteriore. Prendete il caso della lettura. Ormai dagli anni Sessanta possiamo seguire i progressi (lenti, è vero) dell’abitudine alla lettura nel nostro Paese. E a ogni indagine si verifica che bambini e giovani leggono assai più delle generazioni anziane. Le alte percentuali, quasi europee, di lettura di libri non scolastici tra ragazze e ragazzi declinano tra gli adulti che hanno varcato la soglia dei trent’anni. Queste percentuali positive non possono avere altra matrice che l’impegno educativo delle scuole. Oppure prendete il caso della comprensione dei testi. Fanno notizia, ma danno luogo a sciocchezze (anche di qualche ministro), i dati periodici che l’OCSE accerta e diffonde ogni tre anni sulle capacità di comprensione di testi tra i quindicenni. Alti lai perché il 40% dei ragazzi mostra difficoltà di comprensione. Certo, bisognerà che migliorino. Ma attenzione: gli adulti con analoghe difficoltà, tra i 18 e i 65 anni, non sono il 40%, sono una percentuale che, secondo l’ultima indagine comparativa internazionale, raggiunge e supera l’80%. Il doppio dei ragazzi a scuola. Se la scuola registrasse meccanicamente le (in)competenze degli adulti dealfabetizzati e non leggenti, le percentuali OCSE dovrebbero darci l’80% di ragazzi in difficoltà. Il 40% di scarto esprime l’enorme lavoro in salita che la nostra scuola sa fare e fa. Potrebbe aumentare se ci decidessimo a investire di più nella e per la scuola: di più in termini di finanziamento e di più in termini di attenzione simpatetica, circostanziata e fattiva come quella, esemplare, di Vinicio Ongini.

Se un rimprovero si può muovere alla nostra scuola è che non sempre essa è ben consapevole di quanto ha fatto, sa fare e fa per l’intero Paese. Il libro di Ongini, tra gli altri meriti, può essere d’aiuto, può stimolare il giusto orgoglio della nostra scuola pubblica.

9.9.11

“Silvio Forever”. Speriamo di no

Stefano Corradino

“Stare a Palazzo Chigi mi ha danneggiato”. E’ una delle tante massime del presidente Berlusconi raccolte dagli sceneggiatori di Silvio Forever. Danneggiato a tal punto che come lo stesso film riporta nel cartello finale, il premier, secondo la rivista Forbes, dalla sua discesa in campo nel 1994 ad oggi ha quintuplicato la sua ricchezza…

Ieri ho rivisto con attenzione questa autobiografia non autorizzata diretta da Roberto Faenza e Filippo Macelloni e sceneggiata dagli autori de La Casta Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. Il film che La7 ha avuto l’ardire di trasmettere in prima serata altro non è che un mosaico della storia pubblica e privata di Silvio Berlusconi, dai primi vagiti alle leggi ad personam.

Come ci insegna la psicoanalisi, scavare nell’infanzia e nell’adolescenza può aiutarci a comprendere la personalità dell’uomo adulto; e il film ci offre numerosi spunti interessanti attraverso i racconti dello stesso Berlusconi, che evidenziano come l’arte della speculazione e della truffa si impari già in tenera età: “A scuola – racconta Berlusconi - mi facevo pagare per aiutare i compagni nei compiti salvo poi rimborsarli (dice lui) se non ottenevano almeno un 6-”.

“Alla fine dell’Università mio padre acquistò un terreno e costruimmo le prime quattro case. Ma il mercato si bloccò. Allora andai a Roma al fondo di previdenza e convinsi gli ispettori a venire a vedere le case. Arrivò la Commissione ma bisognava fargli vedere che c’era già un interesse del mercato all’affitto degli appartamenti. Allora telefonai a tutti i miei parenti per farli venire. Ma scoprirono l’inghippo…”

Il lato privato di Silvio Berlusconi che traspare dal film è ancora più inquietante e arricchisce il materiale per lo studio della schizofrenia patologica del premier: “Tutti mi amano, perchè sono simpatico e divertente, per il mio incredibile charm”. Poi, come in ogni sindrome bipolare, l’affermazione contraria: “Ho avuto sempre la sinistra contro: a 12 anni mentre sulla scala attaccavo i manifesti della Democrazia Cristiana alcuni ragazzi comunisti cominciarono a scuotere violentemente la scala e a strattonarmi…”

Un’esistenza vissuta tra delirio di onnipotenza e manie di persecuzione. Dall’Italia “paese che amo“, all’Italiapaese di m…. Silvio forever, speriamo di no…

Ps: Il film è stato accompagnato da un dibattito interessante sulla figura di Silvio Berlusconi tra Enrico Mentana, Eugenio Scalfari, Giuliano Ferrara e Paolo Mieli. Se venisse ripristinata, e non solo su La7, l’abitudine a trasmettere un film o un documentario per poi svilupparne una discussione sarebbe un modo intelligente di fare televisione.

Editoria: 20 milioni in sette anni a Lavitola

Beppe Lopez (Il Fatto Quotidiano)
Tutti sanno che di mestiere fa il faccendiere (nel suo caso, un pallido eufemismo). Tutti sanno che sta al giornalismo come Berlusconi al libero mercato. Tutti sanno che la testata Avanti!, organo del partito socialista, è morta e sepolta nel 1994. Tutti sanno che l’Avanti! è una testata-imbroglio e comunque è un giornale-fantasma buono solo per acquisire i contributi per l’editoria. Eppure, su tutti i giornali, Valter Lavitola continua ad essere definito “direttore dell’Avanti!“. Lo stesso Ordine dei Giornalisti lo sospende dalla professione – certificando paradossalmente la sua piena, legittima appartenenza ad essa – in base all’articolo 39 della legge n.69 del 1963, secondo capoverso, che stabilisce: “Ove sia emesso ordine o mandato di cattura gli effetti dell’iscrizione sono sospesi di diritto fino alla revoca del mandato o dell’ordine”.

Il problema sta nel fatto che si sa da sempre il mestiere di Lavitola (possiamo pure dire: dei Lavitola). Che si sa da sempre che, insieme a molte altre false cooperative, falsi organi di partito e falsi editori, Lavitola prende quattrini dal Dipartimento Editoria della Presidenza del Consiglio (cioè dalle nostre tasche) illegittimamente, illecitamente, immoralmente, anche se in base a una legge dello Stato e a specifiche decisioni che fanno capo direttamente a Palazzo Chigi. E non si tratta di pochi quattrini. Basti pensare alla cifra scandalosa - 800 mila euro – di cui si parla in questi giorni a proposito dei suoi traffici tra Berlusconi e Tarantini. Ebbene, solo in un anno, dal Dipartimento, Lavitola ne prende più di 2 milioni e mezzo, per un giornale che nessuno conosce o vede, e a valere sui fondi per “quotidiani editi da cooperative di giornalisti”.

Ci voleva molto a capire e a dimostrare che l’”International Press Società Cooperativa di Lavoro Arl” non è una vera cooperativa e a stabilire nei regolamenti che cosa significa essere vera cooperativa (che l’azienda è controllata e amministrata da coloro che lavorano nell’azienda)?

Vi ricordate il caso Ciarrapico? Com’era successo anni prima con una cricca che si era impadronita della testata Il Giornale d’Italia, dovette intervenire la magistratura per rilevare che, tra il 2002 e il 2005, l’ex uomo di Andreotti e senatore del Pdl aveva incassato indebitamente 25 milioni di euro in contributi pubblici. Secondo i pm, Ciarrapico avrebbe fatto figurare “artatamente” che le due società amministratrici degli otto giornali locali da lui controllati avevano gestioni separate e avrebbe “attestato falsamente” che il loro capitale sociale era controllato da cooperati. Non lo verificò il Dipartimento. Così come non l’ha mai verificato per tutti gli altri, Lavitola compreso.

Vi ricordate che fine facevano i soldi date al Campanile del partito di Mastella? Anche in quel caso dovette intervenire la magistratura.

Solo a valere sugli anni compresi fra il 2003 e il 2009, vale a dire in sette anni, Lavitola ha incassato sette volte una cifra sempre superiore ai 2 milioni e mezzo: vale a dire, complessivamente, una cifra di poco sotto i 20 milioni. Altro che gli 800 mila da dividere con Gianpi e Nicla! E non è escluso – ed è ovviamente auspicabile – che ancora una volta si arrivi a smascherare una truffa commessa ai danni (e con la “collaborazione tecnica”) del Dipartimento, anche se per intervento casuale ed esterno della magistratura.

Nemmeno l’obbligo dei tagli, imposti dalla crisi e dall’Europa, ha suggerito al governo (o alla opposizione) di dare un’occhiata agli sprechi, diciamo così, del Dipartimento.

In base agli ultimi dati (anno di riferimento 2009), le “cooperative” che, in quanto tali, prendono soldi dal Dipartimento sono circa una trentina e ci costano una cinquantina di milioni. Basta scorrerne l’elenco per avere netta la sensazione che le vere e proprie cooperative si contino sulle dita di una sola mano. Che la quasi totalità delle testate siano proprietà di singoli. Che queste testate (titolari del contributo) si siano trasformate col tempo in una sinecura, spesso oggetto di compravendita.

Diciassette testate che dovrebbero far capo a “cooperative, fondazioni o enti morali” ingoiano, poi, circa 45 milioni. Ma siamo proprio sicuri che – a parte i 2/3 miliardi di esenzioni fiscali – dobbiamo assicurare alla Chiesa italiana anche poco meno di 6 milioni di euro l’anno per l’Avvenire? E che alla Cisl, a parte tutto il resto, dobbiamo pagare più di 3 milioni per finanziarle Conquiste del Lavoro? E che dire – in un Paese che, come afferma ogni giorno ItaliaOggi, deve emanciparsi dall’assistenzialismo e che, come pretendono la crisi e l’Europa, deve tagliare privilegi e servizi – dei 5 milioni e passa l’anno che regaliamo a ItaliaOggi?

Per non parlare, naturalmente, dei tagli alla politica (rinviati) e ai finanziamenti ai partiti (che nessun partito ha nemmeno preso in considerazione). Nel bilancio del Dipartimento, ci sono 22 testate “organi di partiti e movimenti politici che abbiano il proprio gruppo parlamentare in una delle Camere o rappresentanze nel Parlamento europeo o che siano espressione di minoranze linguistiche riconosciute, avendo almeno un rappresentante in un ramo del Parlamento ovvero che, essendo state in possesso di tali requisiti, abbiano percepito i contributi alla data del 31.12.2006″. Si dividono una quarantina di milioni l’anno.

Quell’“ovvero ecc.”, da solo, ci sosta una trentina di milioni. Senza quell’“ovvero ecc.”, infatti, passerebbe alla cassa praticamente solo La Padania (quasi 4 milioni l’anno). E invece ci tocca continuare a tenere sulle spalle decine di testate che non sono più proprietà di partiti e che facevano riferimento a partiti ormai inesistenti, o che già erano finti “movimenti” prima del dicembre 2006: tutti (più o meno) rispettabili aziende e persone che, per una serie di ragioni storiche abbondantemente esauritesi da anni, si ritrovano a godere di un privilegio ragionevolmente immotivato (se non dal rispetto di tradizioni e occupazione da un canto, e da protervia prepotenza di regime dall’altro). Si va dai due giornali “del Pd”, in effetti ambedue di privatissimi assetti editoriali e redazionali (l’Unità 6 milioni 377 mila, Europa 3 milioni e mezzo), ai 3 milioni e mezzo con cui dobbiamo finanziare Giuliano Ferrara e il suo Foglio, e ai 2 milioni che continuano a tenere in piedi l’Opinione di Arturo Diaconale, passando per i 3 milioni al Secolo d’Italia gasparrizzato, i 3 milioni e mezzo per Liberazione, i quasi 3 milioni per Cronache di Liberal, ai 2 milioni e mezzo del Denaro di Napoli…

Purtroppo nell’elenco dei beneficati dal Dipartimento ci sono, insieme, gentiluomini e truffatori di tutti i “colori”. Come nelle Province. E forse di più. I tagli all’editoria sono riusciti infatti non solo ad evitarli ma persino a non citarli, senza nemmeno l’alibi di “dover rinviare tutto perché si tratta di cambiare la Costituzione”. E nonostante che, proprio in questi giorni, per caso (e grazie alla magistratura), la cronaca ci abbia ancora una volta svelato le truffe e i ladrocinii che avvengono sotto l’insegna dei “contributi pubblici all’editoria”.

7.9.11

L'altrove del narcisista

di BARBARA SPINELLI

FORSE, se vogliamo capire un poco quel che accade in Italia, bisogna pensare alle guerre, ai tabù che esse infrangono. Clausewitz, ad esempio, diceva che le guerre napoleoniche avevano "abbattuto le barriere del possibile, prima giacenti solo nell'inconscio", e che risollevarle era "estremamente difficile". Non dissimile è quel che ci sta succedendo.

Un capo di governo ci s'accampa davanti, e passa il tempo a distribuire soldi perché cali il silenzio su verità che lo riguardano. Non qualche soldo, ma tanti e sfacciati. Sfacciati perché la stessa persona dice che verseremo "lacrime e sangue", per riparare una crisi che per anni ha occultato, non sentendosene responsabile. Mentre noi faticosamente contiamo quello che pagheremo, lui sta lì, in un narcisistico altrove, e dice che i soldi li elargisce a persone bisognose, disperate, a lui care: i coniugi Tarantini, Lele Mora, Marcello dell'Utri, e parecchi altri.

Abbondano i diminutivi, i vezzeggiativi, nelle intercettazioni sempre più nauseabonde che leggiamo: si parla di regalini, noccioline, problemini. I diminutivi sono spesso sospetti, nella lingua italiana: nascondono infamie. Nel caso specifico nascondono la cosa più infame, che è il ricatto: sto zitto e ti sono amico, ma a condizione che paghi. Amico? Piuttosto "complice in crudeltà", come diceva La Boétie nella Servitù Volontaria. Dice la moglie di Tarantini, sul mensile di 20.000
euro che il premier elargì per anni ai coniugi che spedivano escort a Palazzo Grazioli: "Ci servivano tutti quei soldi perché abbiamo un tenore di vita alto". Dovevano andare a Cortina, precisa. Chissà perché: dovevano. Questa è la disperazione che Berlusconi incrocia passeggiando. Uno sciopero, immagino non gli dica nulla su chi dispera.

Ricattare un uomo è peggio di sfruttarlo. È conoscerne i misfatti e racimolando prove guadagnarci. Le conversazioni fra Tarantini e il faccendiere Lavitola sono istruttive: il premier va "tenuto sulla corda"; messo "con le spalle al muro"; "in ginocchio". È insultare il bisogno chiamarli bisognosi. La giustizia accerterà, ma già sappiamo parecchio: il premier è ricattabile, non padrone di sé. È una marionetta, manovrata da burattinai nell'ombra. Si è avuta quest'impressione, netta, quando Dell'Utri commentò, il 29-6-2010, la sentenza che lo condannò in appello per concorso esterno in associazione mafiosa. Ancora una volta glorificò Mangano, il tutore-stalliere distaccato a Arcore dalla mafia che mai nominò Berlusconi. Poi aggiunse, singolare postilla: "Io non l'avrei fatto. Forse non avrei resistito a quello cui ha resistito lui". La frase non era buttata lì; pareva un pizzino: "Stai in guardia, posso parlare, io non sono un eroe".

Uno che accetta d'esser ricattabile pensa di dominare ma è dominato; sproloquia di un Paese che ama ma lo considera "di merda". La guerra distorce gli animi a tal punto. Come può governare, se è ostaggio di uomini e donne che lo spremono? Come, se la sua vulnerabilità al ricatto diventa un male banale, un'ordinaria abitudine omertosa, e questo nell'ora in cui dagli italiani si esige una ripresa, morale oltre che economica, e una solidarietà con i poveri, i giovani derubati di pensione e futuro, i precari che la Banca d'Italia chiede di tutelare (comunicazione al Parlamento del vicedirettore Ignazio Visco, 30-8-11) e che la manovra ignora? Non è solo Berlusconi, il sequestrato. La cultura estorsiva secerne i suoi habitués, per contaminazione. Fra essi potrebbe esserci Tremonti, il così imprudente, così stupidamente spavaldo uomo-chiave della crisi.
Gli stava vicino un ometto tracotante e avido, Marco Milanese: ma proditoriamente. Accusato di associazione a delinquere, corruzione, rivelazione di segreto, si spera che il Parlamento ne autorizzi l'arresto. Milanese aveva anche dato al ministro un appartamento al centro di Roma che Tremonti pagava in parte e senza fattura. Il perché resta oscuro. Il ministro ha detto che la Guardia di finanza lo spiava: cosa strana per chi della Gdf è capo. Più la faccenda s'annebbia, più cresce il sospetto che anch'egli sia ricattato da un "complice in crudeltà".

Ma c'è di più: la debolezza di Berlusconi accresce negli italiani il disprezzo, l'odio della politica. Proprio lui, che entrò in scena vituperando i politici di professione ed esaltando meriti e competenze, incarna ora la politica quando si fa putrescente. La sua è una profezia che si autoavvera: aveva dipinto la separatezza teatrale del politico, e l'immagine s'è fatta iper-realtà. Al posto dei partiti le cerchie, le cosche: più che mai i cittadini sono tenuti all'oscuro. Per questo è così vitale raccogliere le firme per abolire tramite referendum la legge elettorale che ha potenziato le cosche. Disse ancora Dell'Utri, nel 2010, che mai avrebbe voluto fare il ministro: "Voglio scegliere i ministri". Ecco lo scopo delle cosche: scegliere, ma dietro le quinte. Berlusconi accusa tutti, di debilitare il premier: costituzione, Parlamento, oppositori, giornali. Non accusato è solo chi amichevolmente lo irretisce in permanenti ricatti.

Non si creda che basti toglierlo di scena perché tutto torni a posto. Che basti sostituirlo con altri spregiatori della politica, magari invischiati come lui in conflitti d'interesse. Se tante barriere sono cadute, abbassando la soglia del fattibile, è perché da 17 anni la sinistra ingoia i conflitti d'interessi, e si irrita quando qualche stravagante parla di questione morale. Perché anch'essa custodisce sue cerchie. Altrimenti avrebbe capito un po' prima che a Milano e Napoli montava una rivolta della decenza che infine ha incensato, ma di cui non fu l'iniziatrice. Altrimenti si getterebbe ora nella raccolta di firme sulla legge elettorale. Altrimenti elogerebbe ogni giorno l'opera di Visco e Prodi contro l'evasione fiscale. Il male di Berlusconi contagia: è "dentro di noi", come scrisse Max Picard di Hitler nel '46. Come spiegare in altro modo l'incuria, l'impreparazione, davanti ai tanti scandali che assillano il Pd: da Tedesco a Pronzato e Penati?

Certo la sinistra non è Berlusconi: rispetta la giustizia, e non è poco. Ma una cosa rischia di accomunarli: il virus viene riconosciuto solo quando i magistrati lo scoperchiano, non è debellato in anticipo da anticorpi presenti nei partiti. Le condotte di Penati non erano ignote. Fin dal 2005 fu sospettato d'aver acquistato a caro prezzo azioni dell'autostrada Serravalle, quand'era Presidente della provincia a Milano, nonostante la società fosse già pubblica: per ottenere forse dall'imprenditore Gavio, cui comprò le azioni, contributi alla scalata di Bnl. Poi vennero le tangenti per l'ex Area Falck di Sesto San Giovanni. Nel 2007 il giornalista Gianni Barbacetto scrisse su questo un libro (I compagni che sbagliano). Prudenza avrebbe consigliato l'allontanamento da Penati. Invece niente. Passano soli due anni, e nel 2009 Bersani nomina proprio Penati capo della sua segreteria. Era "l'uomo del Nord", scrive Nando Dalla Chiesa sul Fatto, e il Nord s'espugna con i figli del berlusconismo.

Si racconta che un giorno i discepoli di Confucio gli chiesero: "Quale sarà la prima mossa, come imperatore della Cina?". Rispose: "Comincerei col fissare il senso delle parole". È quello di cui abbiamo bisogno anche noi, è la via aurea che s'imbocca quando - finite le guerre - urge rialzare le barriere del fattibile. Rimettere ordine nelle parole è anche smettere gli smorti totem che ci assillano: parole come riformismo, o centrismo. Ormai sappiamo che riformista è chi si accredita conservando lo status quo, facendo favori a gruppi d'interesse, Chiesa compresa. Liberare l'Italia da mafie e ricatti non è considerato riformista. Sbarazzarsi di Berlusconi servirà a poco, in queste condizioni. Gli elettori sono disgustati dalla politica come nel '93-'94. Cercheranno un nuovo Berlusconi.

È a Wall street il nemico di Obama

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6.9.11

Camusso a de Bortoli: «Nessuna deroga»

«Nessuna deroga». Lo afferma il segretario della Cgil, Susanna Camusso, in replica all'articolo del direttore Ferruccio de Bortoli. Spiegando che «lo sciopero generale è stato convocato in condizioni straordinarie». Il Corriere della Sera martedì non sarà in edicola a causa della protesta indetta dalla Cgil. A differenza di quanto accade per molti altri quotidiani, l'astensione dei poligrafici aderenti al sindacato guidato da Camusso bloccherà l'uscita del giornale. De Bortoli ha quindi chiesto spiegazioni a Camusso, definendo la decisione del sindacato «un atto grave e discriminatorio».

LA REPLICA DI SUSANNA CAMUSSO - La risposta è arrivata solo nella tarda serata di lunedì: «Mi pare che sia evidente a tutti - ha detto Camusso a margine di un incontro alla festa del Pd a Torino - che lo sciopero generale straordinario che abbiamo convocato avviene in una condizione straordinaria e non ci pare utile in una condizione di questo tipo che ci siano deroghe né per il Corriere né per altri che ce lo hanno chiesto e che hanno ricevuto la stessa risposta, senza però lamentarsi e insinuare come ha fatto il direttore del Corriere».

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L'articolo di Ferruccio De Bortoli

Effetto sgradevole dello sciopero generale

(f. de b.) - Lo sciopero nazionale della Cgil impedirà domani l'uscita del Corriere . La maggior parte degli altri quotidiani sarà in edicola. In precedenti occasioni, i lavoratori poligrafici, con grande senso di responsabilità, avevano garantito tutte le pubblicazioni. Questa volta no.

La decisione è stata presa direttamente da Susanna Camusso. Ed è stato minacciato un ulteriore sciopero nel caso si tenti di far uscire ugualmente il giornale con le maestranze presenti. Un atto grave e discriminatorio. Ho chiesto al segretario della Cgil di esaminare la possibilità di una deroga. Com'è sempre accaduto.

Le ho fatto notare che altri giornali, pur con molti dipendenti aderenti alla Cgil in sciopero - seppure in percentuale inferiore ai nostri -, appariranno regolarmente in edicola. Il Corriere no. Non ho ricevuto risposta. Educazione a parte, mi è sembrato di cogliere nelle parole della Camusso un fastidio nei confronti delle critiche e delle posizioni del Corriere che mi ha sorpreso e amareggiato. Ci siamo sempre comportati in maniera corretta con la Cgil, pur non condividendone alcune scelte. Nell'impedire l'uscita del giornale, Susanna Camusso scrive una pessima pagina della sua gestione. Nega i diritti di altri lavoratori e, soprattutto, dei lettori. Già, i diritti. Ne parlerà dal palco di Roma, domani, segretario?

5.9.11

Come abolire il diritto al lavoro

Luciano Gallino - La Repubblica

Se diventano legge, le modifiche all´art. 8 del decreto sulla manovra economica avranno effetti ancor più devastanti per le condizioni di lavoro e le relazioni industriali di quanto non promettesse la prima versione.
I ritocchi al comma 1 rendono più evidente la possibilità che sindacati costituiti su base territoriale - si suppone regionale o provinciale, e perché no, comunale - possano realizzare con le aziende intese che, in forza del successivo comma 2, riguardano la totalità delle materie inerenti all´organizzazione del lavoro e della produzione. Da un lato si apre la strada a una tale frammentazione dei contratti di lavoro e delle associazioni sindacali da rendere in pratica insignificante la presenza a livello nazionale dei sindacati confederali; un esito che la maggioranza di governo punta da anni a realizzare.
Dall´altro lato la combinazione dei commi 1 e 2 darebbe origine a veri mostri giuridici. Il comma 2 stabilisce infatti che le intese sottoscritte da associazioni dei lavoratori più rappresentative anche sul piano territoriale valgono per la trasformazione dei contratti di lavoro e per le conseguenze del recesso del rapporto di lavoro. Come dire che se il sindacato locale accetta che uno possa venir licenziato con tre mesi di salario come indennità e basta, tutti i lavoratori di quel territorio dovranno sottostare a tale clausola. C´è dell´altro. Le eventuali intese tra sindacati e aziende riguardano anche le modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese - si noti bene - le collaborazioni coordinate o a progetto e le partite Iva. Il che significa che il sindacato potrebbe sottoscrivere dei contratti che prevedono l´impiego di lavoratori autonomi, quali sono formalmente i collaboratori e le partite Iva, come lavoratori dipendenti. Finora, se qualcuno cercava di realizzare simile aberrazione, finiva dritto in tribunale. L´art. 8 del decreto trasforma l´aberrazione in legge.
Quanto al nuovo comma 2-bis, esso abolisce di fatto non solo l´art. 18, bensì l´intero Statuto dei lavoratori. E con esso un numero imprecisato di disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2, visto che nell´insieme essi abbracciano ogni aspetto immaginabile dei rapporti di lavoro. Ciò è reso possibile dalla esplicita indicazione che le intese di cui al primo comma operano anche in deroga alle suddette disposizioni ed alle regole contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro. A ben vedere, il legislatore poteva condensare l´intero articolo 8 in una sola riga che dicesse "i contratti collettivi nazionali sono aboliti e con essi tutte le norme concernenti il diritto del lavoro".
Per quanto attiene alla tutela della parte più debole del contratto di lavoro, sarebbe quindi un eufemismo definire scandaloso il complesso del nuovo articolo 8 del decreto. Ma è giocoforza aggiungere che esso è anche penosamente miope per quanto riguarda il contributo che una riforma delle condizioni di lavoro potrebbe dare ad una ipotetica ripresa dell´economia. Il nostro Paese avrebbe bisogno, per menzionare un solo problema, di cospicui interventi nel settore della formazione continua delle sue forze di lavoro, di ogni fascia di età. È un settore in cui siamo indietro rispetto ai maggiori paesi Ue. Questo decreto che punta in modo così smaccato a dividere le forze di lavoro per governarle meglio li rende impossibili. Naturalmente, c´è di peggio: esso rende anche impossibile un significativo recupero mediante la contrattazione collettiva della quota salari sul Pil, la cui caduta - almento 10 punti in vent´anni - è una delle maggiori cause della crisi.

2.9.11

Beppe Grillo, “da censurato a censore” Rimosso video per violazione di copyright

Elena Rosselli (Il Fatto Quotidiano)

L'accusa arriva dal duo Merighi&Troja che a maggio ha postato su Youtube un video satirico sul comico genovese e il Movimento 5 Stelle. In rete i "grillini" si scatenano contro gli autori. Due giorni fa sul Fatto.it un post di Troja riaccende la polemica. E il filmato viene cancellato dal canale per "reclamo di violazione del copyright da parte di StaffGrillo"

Qual è il colmo per un censurato? La domanda se la sono posta Massimo Merighi e Tony Troja, i due musicisti e cantautori che il 24 maggio hanno postato sul loro canale Youtube il video satirico “Beppe Grillo come fa?” vedendoselo censurare due giorni fa. In realtà Grillo non ha preso ufficialmente posizione, ma il contenuto del video è stato rimosso “a causa di un reclamo di violazione del copyright da parte di StaffGrillo”. Su Youtube invece è rimasta – sia sul loro che su altri canali che l’hanno rilanciata – un’altra versione del filmato che si conclude con uno spot elettorale per Luigi de Magistris. “Non ci era mai capitato di essere censurati – denunciano Merighi e Troja – Eppure, come abbiamo scritto, la nostra satira è bipartisan. Non solo Berlusconi, La Russa e Santanchè. Nel nostro mirino è finito anche il Popolo Viola. Mai abbiamo subito attacchi personali così pesanti come in questo caso”. E ora che sta per arrivare il nuovo video “Il partito che non c’è” (qui l’anteprima) si annunciano scintille. “Non abbiamo nessuna intenzione di tirarci indietro”, racconta Merighi che anni fa aveva fondato a Palermo uno dei primi Meetup salvo poi uscirne “proprio perché intravedevo la trasformazione da movimento a partito”. “Si sono molto offesi per il riferimento al fascismo, ma come si chiama l’assenza di libertà? Come si chiamano l’impossibilità di contestare il capo e la mancanza totale di regole?”, si chiede Tony.

Il video non è stato rimosso subito. L’intervento dello staff di Grillo è avvenuto il 31 agosto subito dopo un post (“Essere grillini a propria insaputa”) di Troja sul Fatto.it in cui l’autore, blogger del sito dal febbraio 2011, scrive: “Sulla mia bacheca di Facebook, da quando io e il mio socio Massimo Merighi abbiamo pubblicato il video satirico “Beppe Grillo come fa?”, gli adoratori di Grillo se la sono un po’ presa. Paradossalmente non abbiamo mai ricevuto nessun commento negativo dagli elettori del Pdl. E chi ci conosce sa che proprio il nostro (ahinoi) premier è l’oggetto dei nostri strali satirici. Ma perché se la sono presa così tanto? Un po’ per aver offeso (secondo loro) il guru Grillo (perché finché si prendono in giro Berlusconi e soci va tutto bene. Grillo è intoccabile) e un po’ per quella rima ‘il populismo instilla, ai giovani Balilla’ contenuta all’interno della parodia . E le risposte, da parte dei grillini, non hanno tardato ad arrivare: “Balilla lo dici a tua sorella!”, “Fascista ce sarai te, co****ne!”

Molti “grillini” contestano l’esistenza di un doppio video, uno più corto e uno più lungo. Ecco la versione long che differisce solo per il taglio della scena finale in cui Merighi e Troja fanno gli auguri a Luigi de Magistris in vista del secondo turno alle amministrative. E’ stato proprio il Fatto a chiedere al duo di togliere quella parte essendo in periodo elettorale

Ma cosa contiene di così sconvolgente questo video? Girato a cavallo tra il ballottaggio e il secondo turno delle amministrative tre mesi fa, in meno di 4 minuti confeziona una risposta al post inserito da Grillo – in trasferta a Parigi – sul suo sito il 17 maggio (dal titolo “Movimento 5 Stelle sopra e oltre”) in cui il comico sostiene che se il M5S non va abbastanza bene nel sud Italia, il motivo è da cercare in alcuni ‘ritardi cronici’ tipici del meridione: “Mi duole e abbraccio con forza i napoletani e i salernitani, il più bel gruppo d’Europa, sono meravigliosi, non ce l’abbiamo fatta, ma lì lo capiamo, sappiamo il perché, ex amici e Rete che non c’è, voto di scambio, è molto più difficile”, afferma commentando i risultati del primo turno. Così, il duo Merighi&Troja, anche un po’ per scaramanzia (Luigi De Magistris, candidato sindaco di Napoli vincerà al 2° turno con oltre il 60% dei voti, ndr), decide di rivisitare la canzone dello Zecchino d’Oro “Un coccodrillo come fa?” che per l’occasione si trasforma in “E Beppe Grillo come fa?”: “La sua non è volgarità, nel caso suo è comicità. E infatti dall’inizio in ogni suo comizio a fare in culo manda la gente che comanda. Ma Beppe Grillo sai che fa? Si fa una gran pubblicità e il populismo instilla nei giovani balilla che gli van dietro di città in città”, recita la prima parte del motivetto.

Insomma, i due musicisti fanno satira. Quella satira che il comico ha sempre difeso a spada tratta essendo lui stesso un prodotto, mediaticamente parlando, della censura sin dalla celebre cacciata dalla Rai negli anni ’80. Grillo, nella postfazione del volume “Regime” di Marco Travaglio e Peter Gomez scrive: “Quando lavoravo alla Rai, ogni sabato sera, prima di andare in onda, mi chiamava il direttore generale Biagio Agnes: ‘Con la stima che ci lega, signor Grillo, si ricordi che lei si rivolge alle famiglie’. Io regolarmente rispondevo: ‘Non c’è nessuna stima, signor Agnes, fra me e la sua famiglia … ». Poi, subito dopo la sigla, avvertivo il pubblico: ‘Pochi minuti fa mi ha telefonato il direttore generale e ha cercato di corrompermi’. La censura della Rai democristiana non era brutale e intimidatoria, violenta e ottusa come quella di oggi. Non cercava di annientarti, di rovinarti con le denunce. Era più bonaria, famigliare, melliflua. Si presentava col volto del vecchio zio burbero benefico, che ti dà buoni consigli per il tuo bene. E tu, con un po’ di astuzia, la potevi aggirare”.

Allora,viene da chiedersi, qual è il volto della censura targata StaffGrillo? Come è possibile che da censurato si faccia censore? Nella parte finale della canzone Merighi&Troja rivolgono una serie di domande molto chiare al comico e ai militanti del M5S: “Dicono che Grillo nel partito non conti niente. Ma UNO VALE UNO e Beppe Grillo è solo là per dar loro visibilità. Ma Beppe Grillo come fa? Questa è la mia perplessità. Se UNO VALE UNO, e lui non è nessuno, ma fa i comunicati e dà i certificati, davvero non comanda? Oppure è solo propaganda? Ma Beppe Grillo lo dirà. Prima o poi dircelo dovrà: i nostri voti chi li gestirà?”. E sul finale, in risposta alla questione cruciale, compare l’immagine di Gianroberto Casaleggio, uno dei fondatori della Casaleggio Associati, la società che gestisce a 360 gradi l’immagine del comico, dagli spettacoli ai dvd, dai contenuti del sito fino all’organizzazione dei Meetup, ossia gli “embrioni” politici di quello che diventerà il Movimento 5 Stelle.

Cercato dal Fatto.it più volte, Beppe Grillo non ha risponde al cellulare mentre Gianroberto Casaleggio, raggiunto sempre al telefono, dichiara di “essere in vacanza”, di conoscere “vagamente” la questione del video censurato e non saper dare alcuna indicazione: “Del resto i giornali devono parlare di questo”, si limita a commentare.

Ma la Casaleggio, così come Beppe Grillo, ha sempre combattuto contro la “tirannia dei vecchi media” a favore di una totale libertà di espressione. Come dimenticare, ad esempio, la campagna fatta dal comico a sostegno di Marco Travaglio in occasione di una censura da parte di Mediaset? In quell’occasione, il motivo portato dall’azienda del Cavaliere a sostegno della propria censura era proprio lo stesso che oggi Grillo (o comunque il suo staff) utilizza contro il duo satirico: violazione del copyright. E pensare, come ricorda il blogger Pasquale Videtta e come scrive anche l’Espresso, che il 25 settembre del 2009 Beppe Grillo postò sul suo sito l’articolo “419 video di Grillo cancellati da YouTube” in cui denunciava la censura operata nei suoi confronti dai gestori del canale: “Durante la notte YouTube ha disattivato TUTTI i video pubblicati da questo blog. 419 video, spesso di denunce, di fatti mai visti in televisione o sui giornali. Visualizzati per 52.296.387 volte. Il secondo canale italiano di informazione su YouTube dopo la RAI”. Il motivo? “Violazione del copyright”. In quell’occasione migliaia di utenti, invitati da Grillo stesso, avevano inondato YouTube di mail di protesta ottenendo in risposta la rimozione del blocco e la riattivazione dell’utente StaffGrillo. Scriveva allora il comico: “A pensar male si fa peccato”. Ma spesso ci si azzecca.

1.9.11

Meno sconti sui libri = più cultura?

Guido Scorza (ilfattoquotidiano.it)

E’ davvero curiosa l’equazione che sembra ispirare la nuova disciplina sul prezzo dei libri approvata in estate, con il consenso di tutti gli schieramenti politici, dopo un lungo e travagliato iter parlamentare iniziato nel 2008: meno sconti sui libri, anche se acquistati online, e più cultura per tutti.

Si tratta di un’iniziativa che – promossa con la dichiarata intenzione di difendere la rete dei piccoli librai italiani e con l’alibi di tutelare così la diffusione della cultura nel nostro Paese – danneggia in realtà i lettori e il commercio elettronico. I primi, tra qualche ora, si vedranno privati della possibilità di acquistare online o per corrispondenza libri di ogni genere a prezzi scontati mentre il commercio elettronico – che già, nel nostro Paese, arranca e stenta a decollare – si vedrà privato di un importante volano costituito dall’aver, sin qui, rappresentato un canale privilegiato per l’acquisto di prodotti editoriali a prezzi competitivi.

Difficile condividere lo spirito del disegno di legge che sembra andare contro il buon senso, lo sviluppo del mercato, l’innovazione e i consumatori. Più facile prendere atto del fatto che ci si trova, ancora una volta, dinanzi ad una scelta politica suggerita – per non dire imposta – da una delle tante caste italiane dure a morire: quella degli editori.

Impossibile spiegarsi diversamente perché nel 2011, in un Paese che ambisce a definirsi moderno e che le analisi dell’Unione Europea sullo stato di attuazione dell’agenda digitale ritraggono come drammaticamente indietro sul versante del commercio elettronico (solo il 14,7% degli italiani acquista beni o servizi online), il Parlamento decida di regolamentare un mercato come quello librario mentre in tutta Europa si deregolamentano tutti gli altri, contingentare i prezzi sui libri e, soprattutto, abrogare una norma del 2001 che riconosceva, almeno per le vendite online, libertà di sconto sulla vendita dei libri.

Per capire l’assurdità di una simile decisione basti pensare che, in una segnalazione inviata nel 2002 al Parlamento, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato auspicava “l’eliminazione di tutte le norme che prevedono prezzi minimi di vendita di beni e servizi, incluse le recenti regolamentazioni del sottocosto e quelle che introducono un tetto allo sconto sui libri” in quanto, scriveva l’Autorità, “la fissazione di prezzi minimi non risulta mai uno strumento direttamente funzionale a garantire il mantenimento di un livello minimo di qualità del servizio, il principale obiettivo comunemente invocato a suo sostegno”.

Detto, fatto, o quasi: non solo il Parlamento non ha eliminato la previgente disciplina sui prezzi minimi di vendita ma ne ha, addirittura ampliato l’ambito di applicazione e la portata. Maggioranza e opposizioni, in un’epoca di feroci faide, persino interne ai singoli schieramenti, questa volta si sono straordinariamente trovate d’accordo. Un’unica eccezione che merita una segnalazione e una nota di merito: quella della delegazione Radicale nel Gruppo Pd, rappresentata dai senatori Poretti e Perduca.

Questa la loro dichiarazione di voto a rompere l’unanimità dell’aula: “Proprio in questi giorni, in cui si fa un gran parlare di casta accusando la casta della politica, questo provvedimento ci rientra a pieno titolo. Stavolta si parla di un’altra casta, quella dell’editoria. Ancora una volta siamo qui a sottolineare che questo è un provvedimento corporativo e protezionista, che vede il mercato come un qualcosa di pericoloso, come una giungla non da regolamentare e da disciplinare, ma da cui scappare a gambe levate. Questo provvedimento dovrebbe invogliare la lettura e l’acquisto di un libro limitando gli sconti e imponendo i prezzi per legge; contro queste scelte, per quanto ci riguarda, ci asterremo”.

Da domani i libri, in Italia, costeranno di più e non li compreremo più on line. Secondo il nostro Parlamento, però leggeremo di più e la nostra cultura ci guadagnerà. Se incontrate uno qualsiasi delle centinaia di Parlamentari che ha votato il disegno di legge, chiedetegli di spiegarvi perché limitare gli sconti sui libri dovrebbe far bene alla cultura ed allo sviluppo del Paese.