23.10.11

Post-coloniali?

Rossana Rossanda (il manifesto)

Qualche osservazione.

Prima. Dunque l'assassinio del nemico non è un opzione perseguita dalla sola Israele ma dalle Nazioni Unite e da queste trasmessa alla Nato nell'accordo di tutti i governi. Giovedì sera, nel caos di informazioni e disinformazioni sulla fine di Gheddafi, una cosa era certa, che Gheddafi è stato catturato, ferito, trascinato per strada, linciato e, già coperto di sangue, ucciso. Dai ribelli, con la benedizione del loro comando e il "via" della Nato e dell'Onu.

Qualche mese fa gli Stati Uniti avevano spedito un commando di addestrati alla demenza, a penetrare urlando nella casa dove l'alleato Pakistan ospitava Bin Laden, e ad ammazzarlo, infermo e inerme, in camera da letto, senza che potesse far un gesto. Tutto lo stato maggiore di Obama assisteva all'operazione, il commando essendo dotato di cineprese. Obama s'è rallegrato sia dell'uccisione sia dei rottweiler del comando speciale, e nessuno si è vergognato. Che terroristi e dittatori vadano ammazzati da prigionieri e senza processo deve essere un nuovo articolo della Carta delle Nazioni Unite. Le virtuose democrazie danno licenza di uccidere piuttosto che consegnare i loro nemici al Tribunale penale internazionale, dove potrebbero rivelare i molti intrallazzi fatti assieme. Resta da qualche parte un lembo di diritto internazionale? Non lo vedo.

Seconda. Non credo da un pezzo, e l'ho scritto, alle dittature progressiste.
Come il "socialismo di mercato", sono un ossimoro che anche il manifesto ha fatto proprio. Si dà il caso che io sia fra i fondatori di questo giornale, ed è fra noi una divergenza non da poco. Viene da lontano, dagli anni '60 e '70 quando abbiamo creduto che alcuni paesi, specie "arretrati", potessero svolgere un ruolo mondiale positivo con un regime interno indecente. Famoso l'assioma dei "due tempi": prima demoliamo i monopoli stranieri e poi vedremo con la democrazia. Fino a sembrare una variante del pensiero socialista, l'antimperialismo. Concetto sempre più confuso dopo lo sfascio dell'Urss, la Russia restando "altro" dal comando Usa, la Cina diventando un gigante del capitalismo mondiale con relativo supersfruttamento della manodopera, Cuba restando soltanto antiamericana perché, ha detto sobriamente Fidel Castro, il modello cubano non ha funzionato.
Anche i regimi latino-americani sono in genere antimperialisti sì, socialisti no. Chissà che cosa vuol dire, in un mondo dove delle due superpotenze ne è rimasta una sola ma i candidati all'egemonia mondiale nei commerci, sulla schiena dei popoli propri e altrui, si moltiplicano. Non siamo ancora alle guerre commerciali ma alla corsa a chi arriva primo nella spartizione del bottino dei paesi terzi, diretti da qualche satrapo che ha preso l'eredità del colonialismo. Storie bizzarre di degenerazione, specie in Africa, dove diversi leader anticolonialisti, tolto di mezzo lo straniero, piuttosto che far crescere il loro paese si sono occupati di liquidare senza esitazione gli avversari interni.

Terza. Che una parte consistente dei relativi popoli sia venuta a sentirsi oppressa è non solo comprensibile ma giusto. Che nelle rivolte di una popolazione giovane, nella quale un pensiero politico non ha potuto circolare, si inseriscano le potenze predatrici esterne era da attendersi. Non è stata la sinistra ad abbattere i dittatori. Essa non abbatte più nessuno. La mancanza di un pensiero e una struttura capace di assicurarsi libertà politica e protezione sociale, si rivela drammatica una volta abbattuto o fuggito il "tiranno", perché c'è sempre un esercito, o una nuova borghesia, un vecchio fondamentalismo pronti a prenderne il posto. I popoli in rivolta sono presto spossessati, vedi Tunisia e Egitto.
L'Europa lo sa, ma di quel che succede sull'altra sponda del Mediterraneo si occupano gli affaristi, non i residui delle sinistre storiche né i germogli della sinistra nuova che cercano di emergere fuori dai muri delle istituzioni. Un vecchio amico ha protestato quando chiedevo che si riformasse qualcosa come le Brigate internazionali - ma che dici, la rivoluzione spagnola era una cosa seria, queste rivolte sono derisorie. Non ne sappiamo molto e ce ne importa ancora meno.

Anche noi abbiamo dovuto contare su alleati più potenti per abbattere il fascismo. Ma qualche struttura politica, qualche partito ha innervato la resistenza che ha potuto anche presentarsi alle forze alleate come possibile nucleo di una dirigenza democratica. Queste strutture politiche dovevamo aiutarle a formarsi, accompagnarle. Invece ieri sulla Tunisia, oggi sulla Libia, domani magari sulla Siria diamo i voti a chi sia il peggio: Gheddafi o la Nato? Il meglio ai non europei non appartiene.

21.10.11

Se anche la Bce fa il tifo per il reddito di cittadinanza

di Giovanni Perazzoli

C’è un punto nella famosa lettera della Bce che non ha suscitato il dovuto interesse. Leggo che insieme all’“accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti” bisognerà stabilire “un sistema di assicurazione dalla disoccupazione”.

Non voglio parlare adesso delle molte possibili critiche alla lettera (una tra tutte, il fatto che non faccia una parola sull’evasione fiscale italiana, ribadendo così l'orientamento generale che a pagare la crisi non debbano essere coloro che l'hanno provocata). Noto però con stupore che nessuno ha dato il giusto rilievo al passaggio citato sopra.

A proposito del quale, bisogna subito rilevare che esso induce a prendere atto di due fatti. Il primo è che, se si propone di istituire un’assicurazione sulla disoccupazione, evidentemente una simile assicurazione in Italia non c’è. Mentre c'è in Europa.
Il secondo fatto è che, per realizzare questa assicurazione sulla disoccupazione, non mancano i soldi.

Non mi pare poco. Nel momento estremo della crisi, quella stessa lettera della Banca Centrale Europea che consiglia il risparmio all’osso per tenere sotto controllo il debito pubblico, consiglia anche di introdurre in Italia un sussidio di disoccupazione. Il quale, evidentemente, dovrà immaginarsi analogo a quello degli altri paesi europei (dove anche chi non lavora ha un reddito garantito), ovvero corrispondente alle direttive europee sottoscritte e mai applicate dall’Italia (e dalla Grecia). Non credo che la Bce possa infatti proporre qualcosa di contrario o di diverso rispetto alle direttive europee.

Ma perché nessuno ne ha parlato? Certo, non sfugge il contesto drammatico nel quale cade la proposta dell’istituzione di questa “assicurazione sulla disoccupazione”. Tanto meno però deve sfuggire il fatto che, su questo specifico punto, niente il governo abbia “recepito”, e che nulla la sinistra abbia detto, spiegato, chiarito.

Invece, sarebbe essenziale dire, spiegare e chiarire. Anche perché in Italia sorprendentemente pochi sanno di che cosa si tratta, e gli equivoci sono continui. Ad esempio Franco Berardi, su questo sito si chiede con ironia se “la BCE erogherà finalmente un reddito di cittadinanza per tutti i disoccupati europei”; Beppe Grillo in un post dichiara che il suo movimento, come altri movimenti europei, da sempre sostiene il reddito di cittadinanza per i disoccupati. Sono solo due esempi.

Per evitare equivoci controproducenti per l’Italia, meglio allora essere chiari. I disoccupati europei non devono aspettare i banchieri centrali o il movimento indicato da Grillo per avere un “reddito di cittadinanza”, perché hanno già un “reddito di cittadinanza”. In Gran Bretagna la prima formula è del 1911 (National Insurance Act), in Belgio del 1915. La Francia – che è stata tra le ultime nazione ad adottare una forma di reddito di cittadinanza – lo ha istituito ormai più di vent’anni fa (RMI, Revenu minimum d'insertion, ora è stato riformato e migliorato e si chiama RSA). Tutti i paesi europei, ad eccezione di Italia, Grecia e Ungheria, hanno forme di “reddito di cittadinanza”. In generale, queste forme di sussidi sono illimitate nel tempo, con l’unica condizione della ricerca attiva di un lavoro da parte di chi ne usufruisce; ad esse si devono aggiungere altri aiuti per l’alloggio, integrazioni per i redditi sotto una certa soglia etc. (In calce i riferimenti a Wikipedia ). Il sostegno del reddito è, del resto, uno dei pilastri del welfare state, come la scuola, la sanità, la pensione.

Perché allora ci sono dei movimenti europei che chiedono il “reddito di cittadinanza”? Perché questi movimenti vogliono andare oltre quello che già hanno. Infatti, una cosa è il sussidio di disoccupazione, un’altra il reddito universale. Spesso si prende il “reddito di cittadinanza” come un sussidio rivolto al disoccupato; l’idea di questi movimenti è invece intendere il “reddito di cittadinanza” nel senso di un reddito rivolto a tutti, che lavorino o meno. Ma la differenza non deve occultare che le forme di sussidio di disoccupazione o di reddito minimo garantito europee costituiscono di fatto una forma di reddito universale o di cittadinanza perché comunque, per così dire, nessuno resta senza un euro in tasca. Tanto più che a questi sussidi si accede con la maggiore età anche se non si è mai avuta un’occupazione in precedenza.

Tuttavia, il fatto non è il diritto; e l’idea che il sussidio riguardi il disoccupato in cerca di lavoro non è un aspetto neutrale di questo istituto. Ed è per questo che in Europa esistono dei movimenti che vogliono andare oltre il tipo di reddito di cittadinanza come indennità di disoccupazione o integrazione del reddito. Le teorie proposte sono molto interessanti, ma in Italia hanno involontariamente confuso le acque, che erano già torbide per conto loro. Poiché in Italia non è noto che in Europa i disoccupati usufruiscono di una serie di sussidi e di facilitazioni, si può cadere nell’errore di credere che i movimenti per il reddito universale vogliano un sussidio per i disoccupati. Il che non è vero. Anzi, nella formulazione più importante, quella del Basic Income, è vero il contrario. L’idea nuova è che il “reddito di cittadinanza” debba essere pensato non solo per i disoccupati (lo hanno già), ma anche per chi lavora. In generale, l’idea di questi movimenti è che il reddito di cittadinanza debba essere indipendente dal lavoro.

La forma più elaborata e influente di questa teoria politico-economica è quella formulata dal filosofo ed economista belga Philippe van Parijs, dell’università americana di Harvard e della Katholieke Universiteit Leuven (Belgio). Intorno a lui si è creata anche una rete internazionale molto attiva, formata da economisti, uomini politici, filosofi, studiosi attivisti (Bien http://www.basicincome.org/bien/. In Italia, invece esiste il Bin http://www.bin-italia.org/).

Qui non posso illustrare la teoria di van Parijs. Ma è importante notare, per avere un’idea del dibattito sul welfare state in Europa, che uno degli argomenti da lui utilizzati a favore del Basic Income – ovvero del reddito universale distribuito a tutti, lavoratori o disoccupati – è che esso potrebbe risolvere una delle distorsioni che si imputano alle forme europee di reddito minimo garantito: la “trappola assistenziale”.

Di che cosa si tratta? La disoccupazione sarebbe prodotta in Europa, oltre che dalla crisi e dalla globalizzazione, proprio dai sussidi di disoccupazione. Il disoccupato europeo (non italiano, ovviamente, che ha solo la famiglia, perché un vero welfare in Italia non c'è) può essere incentivato a non lavorare dal sussidio. In effetti, in molti casi, può non essere conveniente da parte del disoccupato cercare un lavoro, visti gli aiuti a cui si ha diritto – sussidio disoccupazione, sostegno economico per i figli, alloggio gratuito, esenzione per le spese sanitarie, contributi per i trasporti, il riscaldamento, il telefono ecc. In particolare, il sussidio si trasformerebbe in un incentivo a non lavorare per le donne, già gravate dalla cura della famiglia. Di fatto, specialmente per i lavori meno qualificati, le somme percepite finiscono per essere equivalenti a quelle del sussidio: è stato calcolato che in Germania la differenza tra un basso salario e il sussidio sarebbe di circa 100 euro.

Ora, secondo van Parijs, un’allocazione universale uguale per tutti (seguita da una tassazione per fascia reddito che tolga quanto anche ai ricchi viene dato con il Basic Income) disinnescherebbe la trappola assistenziale perché invertirebbe la direzione dell’incentivo: lavorare non comporterebbe la perdita dei vantaggi che si hanno non lavorando. Facciamo l’ipostesi di un reddito minimo corrisposto a tutti di 1000 euro. Ricchi e poveri percepirebbero tutti mille euro, salvo il fatto che i più ricchi verrebbero tassati di mille euro (quello che prendono lo restituiscono con le tasse). La differenza rispetto alle forme di reddito garantito europee è che non ci sarebbe più il disoccupato “assistito”; lavorare e quanto lavorare sarebbe una scelta, prevedendosi anche il caso di chi, rinunciando a un certo livello di consumi, preferisca non lavorare (per avere, ad esempio, tempo libero o per dedicarsi ai figli) o preferisce lavori meno remunerati (ad esempio, vicini al volontariato ecc.). Nel caso di una donna, tornare al lavoro dopo avere avuto un figlio non sarebbe disincentivato dal venire meno del sussidio, ma verrebbe al contrario incentivato grazie alla più alta retribuzione.

I costi? Secondo van Parijs dovrebbero essere inferiori a quelli che servono attualmente per finanziare in media il welfare europeo, soprattutto perché il suo Basic Income prevede l’azzerarsi di tutti gli altri sussidi e aiuti. Uno dei libri più importanti di van Parjis – Real Freedom for All: What (if anything) can justify capitalism?, Clarendon Press, 1995 – ha in copertina un tizio che se la spassa sul windsurf. L’autore racconta che la scelta della copertina riprende il caso su cui aveva discusso con il filosofo americano John Rawls: una società giusta può prevedere la libertà di scegliere di non lavorare, per passare il tempo a fare windsurf su una spiaggia assolata?

Il Basic income, secondo van Parijs, dovrebbe contribuire a modificare profondamente l’incidenza dell'esclusione dal lavoro, della povertà e rendere la società più giusta non solo dal punto di vista della distribuzione delle risorse, ma anche, ed è questo l’aspetto più importante, dal punto di vista della libertà delle scelte. La Bocconi ha pubblicato in traduzione italiana nel 2006 un bel libro di van Parijs, Il reddito minimo universale, dove si possono trovare tutte le informazioni sul tema.

Ogni lettore italiano percepisce immediatamente la distanza siderale tra questi problemi e quelli italiani. Quanti di noi avrebbero mai sospettato che il disoccupato potesse stare meglio dell’occupato? E invece, anche se può stupire, in Germania, Francia, Olanda ecc., il difetto (vero o presunto) di incentivare la disoccupazione attribuito al reddito di cittadinanza (o come lo si voglia chiamare) è uno dei temi chiave del dibattito politico sul welfare state. E comunque, la destra non propone di cancellarlo, ma di ridurne l'impatto sulla disoccupazione, inducendo il disoccupato ad accettare il lavoro offerto dall’ufficio di collocamento, anche se questo corrisponde solo in parte alla propria qualifica professionale. Secondo la riforma del governo conservatore britannico di Cameron, il disoccupato che rifiutasse per tre volte un lavoro ragionevolmente vicino alla sua formazione professionale resterebbe tre anni senza sussidio. È facile capire che proprio questa politica restrittiva ha innescato la crescita di movimenti più radicali che intendono svincolare del tutto il reddito minimo garantito dal lavoro. E la posizione di van Parijs è estremamente interessante, soprattutto nella crisi attuale.

Complessivamente, restando al presente, il reddito di cittadinanza esistente in Europa ha, comunque, più vantaggi che svantaggi; non è infatti solo un rimedio “alla povertà” (il fatto che in Italia di questi temi si discuta sotto il profilo del “rimedio alla povertà” è un indicatore quasi infallibile della confusione regnate), ma è un istituto che accresce la disposizione al rischio di impresa (perché crea una rete di protezione), che rinsalda il legame sociale e nazionale (come notava Eric Hobsbawm ne Il secolo breve), che abbatte il clientelismo e la classe politica che da esso si alimenta.

Non da ultimo, la flessibilità sul lavoro è ben altra cosa se esiste una rete seria di protezione (ma deve essere seria e non un surrogato di Europa, come lo sono alcune attuali leggi regionali). Si potrebbe allora anche immaginare una società diversa da quella che viene difesa solo perché non si ha davanti un'alternativa. La diffusione in Europa del movimento per il “reddito universale” avviene sulla base di anni di sussidi che non sono rivolti a chi ha perso il lavoro, ma a chi non lavora o, pur lavorando, non guadagna abbastanza.

Perché guardare indietro e non avanti? In fondo, una società ingessata nella quale l’operaio farà per tutta la vita l’operaio, e deve anche ringraziare il parroco o l’assessore che lo ha raccomandato perché venisse assunto, non è proprio un modello di società giusta e libera. Il posto fisso in un mondo a sua volta fisso è una condanna mascherata, che penalizza i più deboli: trovato il posto, guai a te se non ti comporti bene e non ti metti in riga (devi pure pagare le rate del mutuo). I conflitti sul lavoro? Le donne che devono sopportare il superiore che ci prova? Sono situazioni che non hanno via di scampo, tranne ricorre all’avvocato e al tribunale in caso di licenziamento. Ma questa rappresentazione della società, che è in fondo frutto dell’immaginario sovietico della vecchia sinistra (uno mondo, del resto, speculare a quello del film Pleasantville, stile anni ’50, in cui ogni individuo “è” per il ruolo che ha, secondo un legge inesorabile, sempre presupposta come giusta, che distingue chi è in alto e chi è in basso nella gerarchia sociale), ha impedito fin qui in Italia l’adozione di una forma di assicurazione sulla disoccupazione sul modello delle socialdemocrazie europee (che erano “piccolo borghesi”). Una rete solida darebbe a tutti invece una di quelle opportunità che sono il metro di una società giusta e libera: la possibilità di cambiare vita (che molto spesso significa la possibilità di migliorare le proprie condizioni di partenze).

È curioso che da noi si continui ad ignorare una realtà europea esistente, tutt’altro che utopistica (perché rodata in mille modi e difesa nella sua sostanza sia da destra che da sinistra), e così normale e consueta che ce la viene a proporre addirittura il banchiere centrale europeo.

Spero di aver dato un’idea di quello che in margine alla lettera della Bce non è stato detto.

Francia: Rmi (Revenu minimum d'insertion); Rsa (Revenu de solidarité active)Gran Bretagna: Jobseeker's AllowanceGermania: Arbeitslosengeld II

Presidente, more solito!

Commento di Silvio Berlusconi alla morte di Gheddafi: "Sic transit gloria mundi!". E la frase fa il giro del mondo.

Da uno che ha baciato l’anello al dittatore di Tripoli in vita non potevamo aspettarci che un glorificazione in morte: “Sic transit gloria mundi”.

Silvio Berlusconi non ci ha nemmeno pensato un attimo e la sua frase ha fatto immediatamente il giro del mondo. Ma lui è abituato così. Parla “apertis verbis”, insomma chiaro e franco, come nella recente occasione del nome del suo nuovo partito. E lo fa “coram populo”, senza chiedersi “cui prodest?”, senza assolutamente riflettere, almeno una volta, “cum grano salis”.

Certo “de gustibus non disputandum est”. Eppure sarebbe meglio farlo: “Sapiens ut loquatur multo prius consideret” (un sapiente prima di parlare deve molto pensare). Ma non sembra la regola del nostro Presidente. Forse, dopo quel baciamano, era naturale associare gloria a Gheddafi: “Promissio boni viri est obligatio”. (Le promesse delle persone per bene sono un impegno che va mantenuto). Anche con una fulminea dichiarazione “post mortem”.

Il Cavaliere parla “pro domo sua”, “sic et sempliceter”, anzi “ ridendo dicere verum”, “sine ira et studio”, neppure “una tantum”. E non lo fa “ob torto collo”, ma, “mirabile visu” (cosa incredibile a dirsi), insomma “more solito”, “ex abrupto” (all’improvviso) “ex abundantia cordis” (dal profondo del cuore).

Cosa c’è stato tra lui e Gheddafi? Forse un “do ut des”? Se fosse vero sarebbe stato meglio una “damnatio memoriae” piuttosto che esercitarsi nel “carpem diem”, nel cogliere l’attimo di una dichiarazione “ad hoc” sicuramente ed esageratamente “ad abundantiam”. Tutto questo “absit iniuria verbo”, sia detto senza offesa.

8.10.11

Siate curiosi siate folli

di Steve Jobs (testo integrale in italiano della celebre conferenza a Stanford - L'Espresso)

Nella vita le sconfitte sono le svolte migliori. Perché costringono a pensare in modo diverso e creativo. Il credo del capo di Apple
(27 dicembre 2006)

Voglio raccontarvi tre storie della mia vita. Tutto qui, niente di eccezionale: solo tre storie. La prima storia è su una cosa che io chiamo 'unire i puntini' di una vita. Quand'ero ragazzo, ho abbandonato l'università, il Reed College, dopo il primo semestre. Ho continuato a seguire alcuni corsi informalmente per un altro anno e mezzo, poi me ne sono andato del tutto. Perché l'ho fatto? è iniziato tutto prima che nascessi. La mia mamma biologica era una giovane studentessa universitaria non sposata e quando rimase incinta decise di darmi in adozione. Voleva assolutamente che io fossi adottato da una coppia di laureati, e fece in modo che tutto fosse organizzato per farmi adottare sin dalla nascita da un avvocato e sua moglie. Però, quando arrivai io, questa coppia - all'ultimo minuto - disse che voleva adottare una femmina. Così, quelli che poi sarebbero diventati i miei genitori adottivi, e che erano al secondo posto nella lista d'attesa, ricevettero una chiamata nel bel mezzo della notte che gli diceva: "C'è un bambino, un maschietto, non previsto. Lo volete?". Loro risposero: "Certamente!". Più tardi la mia mamma biologica scoprì che questa coppia non era laureata: la donna non aveva mai finito il college e l'uomo non si era nemmeno diplomato al liceo. Allora la mia mamma biologica si rifiutò di firmare le ultime carte per l'adozione. Poi accettò di farlo, mesi dopo, solo quando i miei genitori adottivi promisero formalmente che un giorno io sarei andato al college. Questo è stato l'inizio della mia vita.

Così, come stabilito, parecchi anni dopo, nel 1972, andai al college. Ma ingenuamente ne scelsi uno troppo costoso, e tutti i risparmi dei miei genitori finirono per pagarmi l'ammissione e i corsi. Dopo sei mesi non riuscivo a trovarci nessuna vera opportunità. Non avevo idea di quello che avrei voluto fare della mia vita e non vedevo come il college potesse aiutarmi a capirlo. Eppure ero là, che spendevo tutti quei soldi che i miei genitori avevano messo da parte lavorando per tutta una vita.


Così decisi di mollare e di avere fiducia, che tutto sarebbe andato bene lo stesso.

Era molto difficile all'epoca, ma guardandomi indietro ritengo che sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso in vita mia.

Nel momento in cui abbandonai il college, smisi di seguire i corsi che non mi interessavano e cominciai invece a entrare nelle classi che trovavo più interessanti.

Non è stato tutto rose e fiori, però. Non avevo più una camera nel dormitorio, ed ero costretto a dormire sul pavimento delle camere dei miei amici. Guadagnavo soldi riportando al venditore le bottiglie di Coca-Cola vuote per avere i cinque centesimi di deposito e potermi comprare da mangiare. Una volta la settimana, alla domenica sera, camminavo per sette miglia attraverso la città per avere finalmente un buon pasto al tempio degli Hare Krishna: l'unico della settimana. Ma tutto quel che ho trovato seguendo la mia curiosità e la mia intuizione è risultato essere senza prezzo, dopo. Vi faccio subito un esempio.

Il Reed College all'epoca offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del Paese. In tutto il campus ogni poster, ogni etichetta, ogni cartello era scritto a mano con calligrafie meravigliose. Dato che avevo mollato i corsi ufficiali, decisi che avrei seguito la classe di calligrafia per imparare a scrivere così. Fu lì che imparai i caratteri con e senza le 'grazie', capii la differenza tra gli spazi che dividono le differenti combinazioni di lettere, compresi che cosa rende grande una stampa tipografica del testo. Fu meraviglioso, in un modo che la scienza non è in grado di offrire, perché era bello, ma anche artistico, storico, e io ne fui assolutamente affascinato.

Nessuna di queste cose, però, aveva alcuna speranza di trovare un'applicazione pratica nella mia vita. Ma poi, dieci anni dopo, quando ci trovammo a progettare il primo Macintosh, mi tornò tutto utile. E lo utilizzammo per il Mac. è stato il primo computer dotato di capacità tipografiche evolute. Se non avessi lasciato i corsi ufficiali e non avessi poi partecipato a quel singolo corso, il Mac non avrebbe probabilmente mai avuto la possibilità di gestire caratteri differenti o spaziati in maniera proporzionale. E dato che Windows ha copiato il Mac, è probabile che non ci sarebbe stato nessun personal computer con quelle capacità. Se non avessi mollato il college, non sarei mai riuscito a frequentare quel corso di calligrafia e i personal computer potrebbero non avere quelle stupende capacità di tipografia che invece hanno. Certamente, all'epoca in cui ero al college era impossibile per me 'unire i puntini' guardando il futuro. Ma è diventato molto, molto chiaro dieci anni dopo, quando ho potuto guardare all'indietro.

Insomma, non è possibile 'unire i puntini' guardando avanti; si può unirli solo dopo, guardandoci all'indietro. Così, bisogna aver sempre fiducia che in qualche modo, nel futuro, i puntini si potranno unire. Bisogna credere in qualcosa: il nostro ombelico, il destino, la vita, il karma, qualsiasi cosa. Perché credere che alla fine i puntini si uniranno ci darà la fiducia necessaria per seguire il nostro cuore anche quando questo ci porterà lontano dalle strade più sicure e scontate, e farà la differenza nella nostra vita. Questo approccio non mi ha mai lasciato a piedi e, invece, ha sempre fatto la differenza nella mia vita.

La mia seconda storia è a proposito dell'amore e della perdita

Io sono stato fortunato: ho scoperto molto presto che cosa amo fare nella mia vita. Steve Wozniak e io abbiamo fondato Apple nel garage della casa dei miei genitori quando avevo appena 20 anni. Abbiamo lavorato duramente e in dieci anni Apple è diventata - da quell'aziendina con due ragazzi in un garage che era all'inizio - una compagnia da 2 miliardi di dollari con oltre 4 mila dipendenti.

Nel 1985 - io avevo appena compiuto 30 anni e da pochi mesi avevamo realizzato la nostra migliore creazione, il Macintosh - sono stato licenziato.

Come si fa a venir licenziati dall'azienda che hai creato? Beh, quando Apple era cresciuta, avevamo assunto qualcuno che ritenevo avesse molto talento e capacità per guidare l'azienda insieme a me, e per il primo anno le cose erano andate molto bene. Ma poi le nostre visioni del futuro hanno cominciato a divergere e alla fine abbiamo avuto uno scontro. Quando questo successe, il consiglio di amministrazione si schierò dalla sua parte. Quindi, a 30 anni io ero fuori. E in maniera plateale. Quello che era stato il principale scopo della mia vita adulta era saltato e io ero completamente devastato.

Per alcuni mesi non ho saputo davvero cosa fare. Mi sentivo come se avessi tradito la generazione di imprenditori prima di me; come se avessi lasciato cadere la fiaccola che mi era stata passata. Era stato un fallimento pubblico e io presi anche in considerazione l'ipotesi di scappare via dalla Silicon Valley.

Ma qualcosa lentamente cominciò a crescere in me: ancora amavo quello che avevo fatto. L'evolvere degli eventi con Apple non aveva cambiato di un bit questa cosa. Ero stato respinto, ma ero sempre innamorato. E per questo decisi di ricominciare da capo.

Non me ne accorsi allora, ma il fatto di essere stato licenziato da Apple era stata la miglior cosa che mi potesse succedere. La pesantezza del successo era stata rimpiazzata dalla leggerezza di essere di nuovo un debuttante, senza più certezze su niente. Mi liberò dagli impedimenti, consentendomi di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita.

Durante i cinque anni successivi fondai un'azienda chiamata NeXT e poi un'altra chiamata Pixar, e mi innamorai di una donna meravigliosa che sarebbe diventata mia moglie. Pixar si è rivelata in grado di creare il primo film in animazione digitale, 'Toy Story', e adesso è lo studio di animazione di maggior successo al mondo. In un significativo susseguirsi degli eventi, Apple ha comprato NeXT, io sono tornato ad Apple e la tecnologia sviluppata da NeXT è nel cuore dell'attuale rinascimento di Apple. Mia moglie Laurene e io abbiamo una splendida famiglia. Sono sicuro che niente di tutto questo sarebbe successo se non fossi stato licenziato da Apple. è stata una medicina molto amara, ma ritengo che fosse necessaria per il paziente.

Qualche volta la vita ti colpisce come un mattone in testa. Non bisogna perdere la fede, però. Sono convinto che l'unica cosa che mi ha trattenuto dal mollare tutto sia stato l'amore per quello che ho fatto. Bisogna trovare quel che amiamo. E questo vale sia per il nostro lavoro che per i nostri affetti. Il nostro lavoro riempirà una buona parte della nostra vita, e l'unico modo per essere realmente soddisfatti è di fare quello che riteniamo essere un buon lavoro. E l'unico modo per fare un buon lavoro è amare quello che facciamo. Chi ancora non l'ha trovato, deve continuare a cercare. Non accontentarsi. Con tutto il cuore, sono sicuro che capirete quando lo troverete. E, come in tutte le grandi storie d'amore, diventerà sempre migliore mano a mano che gli anni passano. Perciò, bisogna continuare a cercare sino a che non lo si è trovato. Senza accontentarsi.

La terza storia è a proposito della morte.

Quando avevo 17 anni lessi una citazione che suonava più o meno così: "Se vivrai ogni giorno come se fosse l'ultimo, un giorno avrai sicuramente ragione". Mi colpì molto e da allora, negli ultimi 33 anni, mi sono guardato ogni mattina allo specchio chiedendomi: "Se oggi fosse l'ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?". E ogni qualvolta la risposta è no per troppi giorni di fila, capisco che c'è qualcosa che deve essere cambiato.

Ricordarmi che morirò presto è il più importante strumento che io abbia mai incontrato per fare le grandi scelte della vita. Perché quasi tutte le cose - tutte le aspettative di eternità, tutto l'orgoglio, tutti i timori di essere imbarazzati o di fallire - semplicemente svaniscono di fronte all'idea della morte, lasciando solo quello che c'è di realmente importante. Ricordarsi che dobbiamo morire è il modo migliore che io conosca per evitare di cadere nella trappola di chi pensa che abbiamo sempre qualcosa da perdere. Siamo già nudi. Non c'è ragione, quindi, per non seguire il nostro cuore.

Più o meno un anno fa mi è stato diagnosticato un cancro. Ho fatto la Tac alle sette e mezzo del mattino e questa ha mostrato chiaramente un tumore nel mio pancreas. Prima non sapevo neanche che cosa fosse un pancreas. I dottori mi dissero che si trattava di un cancro che era quasi sicuramente di tipo incurabile, che sarei morto entro i prossimi tre, al massimo sei mesi. Quindi sarebbe stato meglio se avessi messo ordine nei miei affari (che è il codice dei dottori per dirti di prepararti a morire). Questo significa prepararsi a dire ai tuoi figli in pochi mesi tutto quello che pensavi di poter dire loro in dieci anni. Questo significa essere sicuri che tutto sia stato organizzato in modo tale che per la tua famiglia sia il più semplice possibile. Questo significa prepararsi a dire i tuoi addio.


Ho vissuto con il responso di quella diagnosi tutto il giorno. La sera tardi è arrivata la biopsia, cioè il risultato dell'analisi effettuata infilando un endoscopio giù per la mia gola, attraverso lo stomaco sino agli intestini, per inserire un ago nel mio pancreas e catturare poche cellule del mio tumore. Ero sotto anestesia ma mia moglie - che era là - mi ha detto che quando i medici hanno visto le cellule sotto il microscopio hanno cominciato a gridare, perché è saltato fuori che si trattava di un cancro al pancreas molto raro e curabile con un intervento chirurgico. Ho fatto l'intervento chirurgico e adesso, per fortuna, sto bene.

Questa è stata la volta in cui sono andato più vicino alla morte e spero che sia anche l'unica per qualche decennio. Essendoci passato attraverso, adesso posso parlarvi con un po' più di cognizione di causa di quando la morte per me era solo un concetto astratto

Nessuno vuole morire. Anche le persone che vogliono andare in paradiso, in realtà non vogliono morire per andarci. Ma la morte è la destinazione ultima che tutti abbiamo in comune. Nessuno gli è mai sfuggito. Ed è così come deve essere, perché la morte è con tutta probabilità la più grande invenzione della vita. è l'agente di cambiamento della vita. Spazza via il vecchio per far posto al nuovo.

Il nostro tempo è limitato, per cui non lo dobbiamo sprecare vivendo la vita di qualcun altro. Non facciamoci intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altre persone. Non lasciamo che il rumore delle opinioni altrui offuschi la nostra voce interiore. E, cosa più importante di tutte, dobbiamo avere il coraggio di seguire il nostro cuore e la nostra intuizione. In qualche modo, essi sanno che cosa vogliamo realmente diventare. Tutto il resto è secondario.

Quando ero un ragazzo, c'era un giornale incredibile che si chiamava 'The Whole Earth Catalog', praticamente una delle bibbie della mia generazione. è stata creata da Stewart Brand non molto lontano da qui, a Menlo Park, e Stewart ci aveva messo dentro tutto il suo tocco poetico. è stato alla fine degli anni Sessanta, prima dei personal computer e del desktop publishing, quando tutto era fatto con macchine per scrivere, forbici e foto Polaroid. è stata una specie di Google in formato cartaceo tascabile, 35 anni prima che ci fosse Google: era idealistica e sconvolgente, traboccante di concetti chiari e fantastiche nozioni.

Stewart e il suo gruppo pubblicarono vari numeri di 'The Whole Earth Catalog' e quando arrivarono alla fine del loro percorso, pubblicarono l'ultimo numero. Era più o meno la metà degli anni Settanta. Nell'ultima pagina di quel numero finale c'era la fotografia di una strada di campagna di prima mattina, il tipo di strada dove potreste trovarvi a fare l'autostop se siete dei tipi abbastanza avventurosi. Sotto la foto c'erano le parole: 'Stay Hungry. Stay Foolish', siate affamati, siate folli. Era il loro messaggio di addio. Stay Hungry. Stay Foolish: io me lo sono sempre augurato per me stesso. E adesso lo auguro a voi. Stay Hungry. Stay Foolish.

traduzione di Antonio Dini

7.10.11

Scuola: 10 BUGIE

Giuseppe Caliceti (da rete scuole)

Ci sono almeno 10 bugie sulla scuola ripetute ossessivamente ai genitori italiani dal ministro all'Istruzione-Pinocchio che ci ritroviamo. Vale la pena smascherarle: perchè i genitori degli studenti conoscano la verità.
1. Più merito a scuola? Falso. Prima che fosse – immeritatamente - Ministro all'Istruzione, la scuola primaria italiana era al 1° posto in Europa per qualità, ora al 13° (dati Ocse). Di che merito parla?
2. In Italia ci sono troppi insegnanti? Falso. Sono in media con gli altri paesi europei. Ma Gelmini non dice che conta anche i docenti di sostegno, in altri paesi pagati dal ministero all'istruzione: così falsifica un corretto confronto. Dire poi che ci sono più bidelli che carabinieri è tendenzioso: fortunatamente è ancora così in ogni paese del mondo. Lo scandalo sarebbe il contrario. Saremmo in un paese militarizzato.
3. Le scuole private sono meglio della pubblica? No. Nel 2007, dati Ocse, gli studenti usciti dalla pubblica erano mediamente più preparati di quelli usciti dalle private. Ma si è tagliato i fondi alla pubblica. Ancora: di che merito si parla?
4. Abbiamo una scuola più funzionale ed efficiente? No. Se un docente è assente, niente supplenti: gli studenti sono sparpagliati in altre classi senza svolgere il programma previsto. Gelmini ha inoltre ridotto il tempo scuola: ore a scuola degli studenti. E l'offerta formativa: ciò che viene loro insegnato. Per risparmiare.
5. Gli edifici scolastici sono a norma di sicurezza? Quasi la metà no. Anche quelle che lo erano, con le famose classi-pollaio, non lo sono più. In caso di terremoto o di incendio chi è responsabile della sicurezza? Nessuno lo sa. E più studenti ci sono per classe, meno qualità c'è a scuola: gli studenti hanno meno possibilità di essere seguiti dai docenti. Il resto sono chiacchiere.
6. La scuola è aperta a tutti? C'è un “tetto” massimo per classe del 30% di studenti di origine straniera. Considerando stranieri anche i nati e sempre vissuti in Italia, che parlano bene l'italiano. E' discriminante. E in Italia abbiamo già un record negativo sulla dispersione scolastica: studenti che abbandonano la scuola.
7. La nostra scuola è solidale? No. Il ministro ha ridotto le ore di aiuto agli studenti disabili. Attualmente si parla di sponsorizzazione dei disabili per pagar loro docenti di sostegno. Un disabile sponsorizzato dalla FIAT? No. Pagheranno di più i suoi genitori, pagheranno caro. E chi non ha denaro?
8. La scuola sa valutare? Con i test Invalsi la valutazione degli studenti è meno trasparente di una pagella. E' un sondaggio parziale e umiliante. E poi perché l'Invasi chiede anche titolo di studio e professione dei genitori dello studente? Se è di origine italiana o no? Se attualmente è disoccupato? E la privacy?
9. Gelmini aveva detto: Non toccherò il tempo pieno. Ma 'ha toccato: abolendo la compresenza e trasformandolo in un doposcuola. Paradosso: proprio chi lparlava di “maestro unico”, sottopone a ogni bambino un carosello di sei, otto, dieci docenti. Ha trasformato l'elementare in una media: la scuola in Italia più problematica.
10. L'Italia spende troppo per la scuola? Al contrario: spendiamo troppo poco. In rapporto al Pil, nelle spese per la scuola, in Europa, siamo al penultimo posto: dietro di noi c'è solo la Slovacchia. E i docenti sono tra i meno pagati al mondo. Si dice che in periodo di crisi occorre tagliare. Dipende sempre dalle scelte. Per esempio, le spese militari sono aumentate. Germania, Stati Uniti, India invece di tagliare, hanno aumentato le spese per la scuola. Strategicamente. Per il loro futuro di paese. Per quello dei loro giovani. la scuola di oggi non è più quella di cui si parla nella nostra Costituzione.

5.10.11

La nostra vergogna - Così il degrado del lavoro sta uccidendo la speranza

Luciano Gallino (La Repubblica)

Nella tragedia di Barletta sono presenti i peggiori ingredienti che un talento malvagio possa mettere insieme per farci provare dolore e vergogna.
Un edificio pieno di crepe, uno scantinato mal illuminato, mal aerato, senza uscite di sicurezza. Nel quale lavoravano una decina di donne, faticando fino a dieci ore al giorno. Però senza contratto di lavoro, e pagate 4 euro l´ora. Di laboratori del genere ce ne sono decine solo a Barletta, che diventano migliaia se si guarda all´insieme del Mezzogiorno, e decine di migliaia se lo sguardo si allargasse mai al Centro e al Nord.
Di laboratori e officine e cantieri in nero è piena tutta l´Italia, lo era prima della crisi e lo è ancora di più adesso che la crisi morde tutti e dovunque. Non tutti hanno sulla testa mura che si sgretolano. Però le condizioni di lavoro crudeli, il lavoro in nero e le paghe da quattro euro o meno sono per centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori l´esperienza di ogni giorno. Il sindaco di Barletta ha detto che non se la sente di attribuire alle persone alcuna responsabilità per le condizioni in cui avevano accettato di lavorare in nero entro quel laboratorio. E neanche alla famiglia dei titolari, che non firmavano contratti in regola, ma nel crollo hanno perso la giovanissima figlia. Dalle nostre parti, intendeva dire il sindaco, l´alternativa al lavoro nero è la disoccupazione e la fame (o l´ingresso nella truppa della criminalità). L´affermazione è politicamente poco opportuna. Il guaio – che è un guaio di tutti noi – è che il sindaco ha ragione. Fotografa una situazione. Il mercato del lavoro è stato lasciato marcire dai governi e dalle imprese in tutte le regioni d´Italia. La crisi ha accelerato il degrado, ma esso viene dall´interno del paese, non dall´esterno. Una intera generazione oppressa dalla precarietà lavora quando può, quando riesce a trovare uno straccio di occupazione. Stiamo uccidendo in essa la speranza.
Adesso milioni di italiani guarderanno i funerali di Barletta in tv, e molti proveranno una stretta al petto, e il giorno dopo torneranno al loro lavoro precario per legge, grazie alle riforme del mercato del lavoro, o precario perché del tutto in nero. Tuttavia qualcuno un po´ di vergogna potrebbe o dovrebbe pur provarla. Come può un paese in cui si vendono centinaia di migliaia di auto di lusso l´anno, in cui ci sono più negozi di moda che lampioni stradali, e milioni di famiglie hanno almeno due cellulari pro capite, permettere a sé stesso di lasciar morire sotto una casa malandata che crolla un gruppo di giovani donne che faticavano senza contratto per 4 euro l´ora? Le abbiamo costruite tutte noi, queste trappole fisicamente e giuridicamente infami, con le nostre scelte di vita, i nostri consumi, con lo squallore della nostra cultura politica e morale.

Titoli a picco

Marina Corradi (Avvenire)

Donne vere e un viso da copertina

Maria aveva 14 anni, faceva il primo anno di liceo classico e lunedì era uscita un’ora prima da scuola perché mancava un insegnante. Così è andata a trovare il padre, al maglificio di via Mura Spirito Santo, a Barletta. È rimasta sotto le macerie. Assieme a quattro operaie, in uno scantinato dove in quanti esattamente lavorassero non si sa; e dove le crepe aperte nei muri non erano bastate a far dichiarare l’edificio inagibile.

Ma questa tragedia del Sud, dal sapore così amaro e così antico, come la somma ineluttabile di endemici mali, ieri sulle prime pagine era eclissata dai titoli cubitali su Amanda Knox, assolta dall’accusa di omicidio dell’amica Meredith Kerch. Dopo un processo tanto seguito dai media, da essere diventato simile a una fiction; con la protagonista così bella e fotogenica da indurre a un inconscio equivoco – come se il delitto di Perugia, fosse solo un film.

Già, i giornali, alzerà la spalle qualcuno. Sì, i giornali, certo. Ma i giornali, oggi più scientificamente che mai, danno spazio a ciò che presumono che i lettori desiderino e che i lettori s’abituano a considerare il pane quotidiano dell’informazione. Dunque, è vero che il circo mediatico a volte va fuori controllo, ma è anche vero che lo fa per soddisfare la domanda (vera e indotta) del "mercato". Allora ci si può domandare che Paese è, quello in cui una sciagura che mescola irregolarità edilizie, inadempienze di controlli e lavoro in nero, e fa cinque morti, interessa tanto di meno del destino di una bella ragazza e del suo amico, in primo grado condannati per un omicidio terribile, e a torto o a ragione diventati quasi dei foschi eroi, nella penombra di incertezza che tuttora avvolge ciò che veramente avvenne quella notte, a Perugia. Se si misurasse aritmeticamente lo spazio occupato dai titoli su Amanda e su Barletta, ieri, si vedrebbe che la prima vince quattro a uno; e anche di più, se persino il più grande e il più rigoroso dei giornali "di sinistra" ieri per Maria e le altre non hanno trovato uno spicchio in prima pagina.

Del resto, anche le dieci pagine di sbobinatura di intercettazioni su escort e festini che ultimamente occupavano quotidianamente molti quotidiani, davvero, nella dovizia di particolari, rispondevano solo a un dovere di cronaca? Oppure soddisfare tutte le curiosità dei lettori rende – o da questa illusione – in termini di tiratura? Ma di nuovo, parlando di sistema mediatico, finiamo col parlare anche di chi giustifica e alimenta certe logiche. Perché ad Amanda i titoli di apertura e per quattro donne morte lavorando e per la giovanissima Maria un titoletto basso o anche niente? Forse perché l’omicidio di Perugia, già assurdo e strabiliante nei suoi dati, tanto è stato sezionato e romanzato da diventare agli occhi di chi legge un feuilletton nero, più estremo di ogni immaginazione, e dunque in fondo percepito come irreale. Come Avetrana, con quel Michele Misseri che ora in tv chiamano amabilmente "zio", come uno di casa; come se anche Sarah Scazzi fosse fiction, e non fosse morta per davvero.

L’audience premia, dicono, le storie utili a portarci altrove, lontano da noi – almeno per un po’. Mentre quel crollo di Barletta, dove donne "oscure" lavoravano disagiatamente in uno scantinato, per quattro soldi e senza garanzie, mentre la casa si crepava e i controlli tardavano, ecco, questa storia non va assolutamente bene per distrarsi, per evadere, per non pensare. E dunque niente o titolo basso, "di piede", come si dice in gergo giornalistico.

Non è che vogliamo fare moralismi. È che ci preoccupa, e quasi ci spaventa, un Paese in cui un delitto con una bella imputata diventa fiction e titolo cubitale, e un’amara sciagura di case mal costruite e burocrazia polverosa e cinque morti non interessa, o interessa molto meno. Ci preoccupa, come preoccuperebbe un amico che si isolasse davanti alla tv, ignorando che in casa il lavoro manca, l’affitto è in arretrato e i figli fanno tutte le notti le tre. E la realtà? E la volontà, e la fatica per cambiarla? A volte, sgradevole e insistente, ci afferra il pensiero che quella crisi morale che sempre addebitiamo solo alla politica, alla finanza, alle varie "gerarchie", in realtà tocchi anche, nel profondo, noi.

4.10.11

Il tifo della platea americana

Vittorio Zucconi (La Repubblica)

Amanda è innocente. Dunque l´America è innocente. Le campane a festa dei televisori americani si sono sciolte alle 9 e 50 della sera, nel finale di un dramma che ha assolto due innocenti e sembra aver lavato l´onore della nazione che l´aveva seguita come un´eroina.

«Drammatico! Drammatico!» esclamava agitato Wolf Blitzer della Cnn nel Te Deum collettivo di un´America che si era identificata con quella ragazza diventata legalmente e ingiustamente assassina, in terra straniera, come se le parole dovessero sottolineare quello che da quattro anni era stato costruito in un crescendo rossiniano. L´America che pretende il diritto di processare, giudicare a volte giustiziare anche cittadini stranieri come è accaduto in passato, aveva trovato in Amanda Knox il segno di un´offesa nazionalistica, ancor prima che giudiziario, vista la evidente precarietà degli indizi contro di lei e contro Raffaele Sollecito. E persino il Dipartimento di Stato ieri sera ha ritenuto di dover esprimere la propria soddisfazione per "l´attenta considerazione della vicenda nell´ambito del sistema giudiziario italiano".
L´America processa, ma non tollera di essere processata. Quella che nella narrazione dell´accusa era stata descritta come una diavolessa affamata di sesso e di orge, era cresciuta, in proporzione inversa nella opinione pubblica Usa, come una casta diva caduta in una ragnatela di uomini inetti e malvagi.
La veglia di una nazione eccitata da una giornata di «slow news», di scarse e banali notizie - un incendio in Texas, le udienze del processo per la morte di Michael Jackson e l´immancabile «prima neve» caduta sulla Pennsylvania - era cominciata con l´orazione autodifensiva della «Fanciulla del West», tradotta in simultanea su tutte le reti di notizie 24/7, a tutte le ore tutti i giorni.
Nella fame insaziabile delle reti televisive «all news», di notiziari continui come Cnn, Fox News, Msnbc, casi come questo processo al processo, dove la vera imputata era la Giustizia italiana e i suoi misteriosi riti, sono nutrimento perfetto per quella che i giornalisti delle tv chiamano «the beast», la belva che va continuamente alimentata. Casi come questo della studentessa impigliata nel fermaglio di un reggiseno e nel mondo crepuscolare di una città straniera sono stati perfetto melodramma, con prologo, coro, balletti, luci di riflettori accesi nella notte contro la facciata del Tribunale di Perugia, gabbioni, poliziotti e carabinieri in uniforme come in un film dell´orrore. Un film verità, con quinte, scenari, comparse, protagonisti, sangue, sesso e la perfetta «ingenue», la vittima travolta dal destino e salvata in extremis. «Dobbiamo capire che siamo di fronte a un sistema giudiziario completamente diverso dal nostro» spiegava James Tubin, l´esperto legale della Cnn ed ex magistrato lui stesso, illustrando i misteri del processo d´Appello italiano. L´elemento dell´esotico, la forza della penombra di un´antica, bellissima e innocente città umbra, sono stati scenari essenziali nella sceneggiatura di un dramma profondo e autentico nella sostanza di una vita stroncata, quella della vittime e di due vite appese a una sentenza, quella di Sollecito e della Knox.
Ed era curioso che nel tribunale dell´opinione pubblica americana, quello che ha processato e condannato la macchina delle indagini «approssimative», «contaminate nelle prove», «condotte con guanti sporchi» e «al di sotto degli standard minimi internazionali» secondo l´esperto dello Fbi e professore alla Boise State University, Greg Hampikian interpellato da ogni studo tv, non si accennasse mai alla sola vittima certa, Meredith Kercher. L´invocazione della vittima è uno dei mantra della giustizia americana, ma non per Meredith.
L´incubo di Amanda era diventato la delizia dei produttori di televisione, decisi a titillare e quindi tenersi stretto il pubblico con un conto alla rovescia durato le undici ore della Camera di Consiglio e rinfocolato dal sempre efficace trucco delle «breaking news». Quindici minuti, quattro minuti, annunciavano gli inviati e le inviate, narrando i dettagli delle ore in cella di Amanda «che recitava preghiere e intonava salmi e inni religiosi», elemento cruciale per il folto pubblico di devoti cristiani.
«Si terge le lacrime dal viso» mormorava l´anchor woman di Fox News, con il groppo lei stessa in gola, mentre la segretaria del gruppo di sostegno e di ascolto a Seattle, «Friends of Amanda» raccontava che nella città sul Pacifico gli amici e i sostenitori innocentisti «si erano raccolti alle quattro e mezza del mattino», a nove fusi orari da Perugia, «per fare colazione insieme, farsi coraggio e ascoltare le parole di Amanda». Alla fine, un processo a una cultura diversa, uno scontro di culture, prima che un caso giudiziario. Se un sonoro resterà per sempre nella memoria dei telespettatori americani che hanno seguito il lancio dell´assoluzione alla una del pomeriggio di Seattle sarà il coro di «buuuu» e di «vergogna» udito all´uscita dall´aula, mescolato alle grida di «vittoria, vittoria», secondo lo schema del tifo calcistico e delle curve. Amanda, appena avrà il proprio passaporto convalidato, volerà verso le isole, le foreste e gli istmi del Nord Ovest. «Ma perchè gli italiani non vogliono credere che questa ragazza sia innocente?» si domandava Wolf Blitzer. Dimenticando che sono stati giudici e giurati italiani a scrivere il lieto fino del melodramma.