24.6.13

La democrazia va rifondata

Intervista con Gianroberto Casaleggio
Serena Danna (corriere.it)

«Un nuovo contratto tra cittadini ed eletti: referendum per sfiduciare
i parlamentari. Oggi temo guerre per l’acqua o il petrolio»

Casaleggio, l’enciclopedia online Wikipedia definisce democrazia digitale «la forma di democrazia diretta in cui vengono utilizzate le moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione nelle consultazioni popolari». Si ritrova in questa definizione?
«No, la democrazia diretta, resa possibile dalla Rete, non è relativa soltanto alle consultazioni popolari, ma a una nuova centralità del cittadino nella società. Le organizzazioni politiche e sociali attuali saranno destrutturate, alcune scompariranno. La democrazia rappresentativa, per delega, perderà significato. È una rivoluzione prima culturale che tecnologica, per questo, spesso, non viene capita o viene banalizzata».
La democrazia diretta sostituisce il Parlamento?
«È più corretto dire che ne muta la natura, gli eletti devono comportarsi da portavoce, il loro compito è sviluppare il programma elettorale e mantenere gli impegni presi con chi li ha votati. Ogni collegio elettorale dovrebbe essere in grado di sfiduciare e quindi di far dimettere il parlamentare che si sottrae ai suoi obblighi in ognimomento attraverso referendum locali».
Lei ha sostenuto che la politica del futuro sarà fatta dai cittadini senza intermediazione dei partiti. Un sistema di democrazia diretta implica modifiche sostanziali della Costituzione, quali?
«Le più immediate sono il referendum propositivo senza quorum, l’obbligatorietà della discussione parlamentare delle leggi di iniziativa popolare, l’elezione diretta del candidato che deve essere residente nel collegio dove si presenta, l’abolizione del voto segreto, l’introduzione del vincolo di mandato. È necessario rivedere l’architettura costituzionale nel suo complesso in funzione della democrazia diretta».
In Italia un terzo della popolazione non è connesso a Internet. Tra i 40milioni che si connettono almeno una volta al giorno, tanti ne fanno un utilizzo non funzionale alla partecipazione politica e al dibattito costruttivo. Come si coniuga il divario digitale con una politicamediata attraverso il web?
«Il digital divide in Italia è evidentemente voluto, se gran parte dei cittadini non può ancora connettersi alla Rete o non dispone della banda larga. Il MoVimento 5 Stelle ha ovviato a questo con incontri nelle piazze, attraverso banchetti presenti sul territorio e con il volantinaggio porta a porta. Si tratta in ogni caso di un periodo transitorio, nel tempo la maggioranza assoluta degli italiani sarà collegata in Rete. Internet diventerà come l’aria, come profetizzò Nicholas Negroponte».
In un sistema di democrazia digitale come avviene la selezione della leadership e della classe dirigente?
«La selezione deve essere fatta “dal basso”, dai cittadini, che propongono le persone più adatte e di cui conoscono la storia e le competenze. Va considerato che il concetto di leadership è estraneo alla democrazia diretta. I movimenti di democrazia diretta rifiutano il concetto di leader. Occupy Wall Street, per esempio, ha coniato per sé stesso il neologismo leaderless, senza leader».
Una politica fondata sul non-luogo del web che rapporto ha con il territorio fisico?
«Il web non sostituisce il luogo fisico, ma lo integra e lo completa. Da anni si sta diffondendo la cosiddetta “realtà aumentata” che attraverso gli smartphone, i tablet e ora Google glass, consente di avere in tempo reale, mentre ci si sposta, informazioni su tutto ciò che ci circonda. In futuro sarà normale interagire con gli oggetti che ci circondano collegati in Rete. Lo stesso Mo- Vimento 5 Stelle è nato dai cosidetti Meetup, attraverso un’applicazione di Rete di una società di New York che permette di incontrarsi in luoghi fisici sul territorio in ogni luogo del mondo e, allo stesso tempo, di condividere pensieri, documenti, filmati nel mondo digitale. Web e realtà sono destinati a fondersi».
Uno dei più grandi progetti di politica partecipativa di Obama, il portale aperto ai cittadini di petizioni online «We the People», ha raccolto in 3 anni solo 36 petizioni e la più votata può contare su 101 mila voti. Probabilmente la maggior parte degli elettori non ha e non vuole avere un’opinione su tutto: i cittadini non hanno né il tempo né le risorse cognitive per occuparsi delle politiche pubbliche e per questo delegano a esperti. Cosa ne pensa?
«In Rete, come nella realtà, è impossibile essere competenti su tutto. Però la Rete consente a gruppi con conoscenze e interessi simili dislocati nel mondo di mettersi in contatto e di formare una conoscenza superiore su qualunque aspetto in tempi molto brevi, condividendo esperienze e fatti».
Si dice che il conflitto — il confronto tra posizioni divergenti — sia il sale della democrazia. Vale anche per la democrazia digitale?
«Le discussioni e i confronti in Rete sono continui attraverso i forum, le chat, i social media in una dimensione inimmaginabile prima nel mondo reale, e ciò avviene tra persone che vivono in ogni parte del pianeta. La domanda andrebbe rovesciata: “Il livello di confronto presente su Internet esiste nel mondo reale?”».
Segretezza (nelle trattative) e leaderismo sono due caratteristiche della politica. Crede che il web possa eliminarle? Perché è giusto farlo?
«La trasparenza è uno dei princìpi di Internet e credo diventerà in futuro obbligatoria per qualunque governo o organizzazione. Non è corretto che qualcuno decida per i cittadini in base a logiche imperscrutabili e senza renderne conto. Il parlamentare o il presidente del Consiglio è un dipendente dei cittadini, non può sottrarsi al loro controllo, in caso contrario non si può parlare di democrazia diretta e forse neppure di democrazia».
Nel video del 2009 «Gaia» viene annunciata la nascita di un nuovo ordine mondiale, dove vige un sistema di democrazia diretta basata sulla Rete. Il nuovo governo mondiale nasce il 14 agosto 2054. Lei è nato il 14 agosto 1954. C’è una relazione tra le date?
«Un gioco, come è stato un gioco la creazione del video, come è avvenuto per il video Prometeus che ipotizza il futuro dei media. Comunque che in futuro sia possibile una guerra mondiale — che non auspico — per le risorse come il gas, l’acqua e il petrolio, non sono certo l’unico a dirlo, e un governo mondiale con forti autonomie nazionali può essere nell’ordine delle cose».
Crede ancora — come si vede in «Gaia» — che nel 2020 ci sarà una terza guerra mondiale tra il blocco occidentale delle democrazie dirette (via web) e il blocco composto dalle «dittature orwelliane» di Cina, Russia e Medio Oriente?
«La Rete rende possibili due estremi: la democrazia diretta con la partecipazione collettiva e l’accesso a un’informazione non mediata, oppure una neo-dittatura orwelliana in cui si crede di conoscere la verità e di essere liberi, mentre si ubbidisce inconsapevolmente a regole dettate da un’organizzazione superiore. Può essere che si affermino entrambi. Certo, è molto più probabile che il controllo totale dell’informazione e l’utilizzo dei profili personali dei cittadini relativi a qualunque aspetto della loro vita avvenga nei Paesi dittatoriali o semi dittatoriali e che la democrazia diretta si sviluppi nelle democrazie occidentali e che queste aree in futuro confliggano».
L’idea di «intelligenza collettiva» descritta in «Gaia» implica un futuro (ipotizzato nel 2050) in cui i cittadini possano risolvere problemi complessi attraverso la condivisione di informazioni e dati online. Si ritrova ancora in quella visione?
«L’idea non è nuova e risale almeno all’inizio degli anni Ottanta, prima di internet. Nel 1983 partecipai a Stoccolma a una conferenza sui “sistemi esperti”, applicazioni che condividevano i dati a livello mondiale per migliorare l’analisi su aspetti specifici, ad esempio sulle patologie del corpo umano. Con la Rete l’aggregazione di intelligenze a livello planetario potrà aiutarci a risolvere problemi considerati senza soluzione».
Lei è convinto che Internet e, in generale, le nuove tecnologie possano solo migliorare il rapporto dei cittadini con politica, economia, finanza. Gli ultimi anni hanno, in parte, smentito il tecno-ottimismo: attraverso il web si rafforzano anche gli estremismi; l’utilizzo massiccio del trading ad alta frequenza è stato tra le cause della crisi finanziaria del 2007-2008. Si sente ancora un «evangelista di Internet»?
«Non sono un evangelista di Internet, ma qualcuno che cerca di prevederne gli effetti sulla società, che possono essere positivi, ma anche negativi. In complesso, comunque, credo che internet apra all’umanità per la prima volta l’era della partecipazione e della conoscenza. Se questa porta verrà aperta o meno e come non posso dirlo, ma sono fiducioso».
Che idea ha di Julian Assange e dell’operazione Wikileaks?
«Ho un’ottima opinione di Assange. Ha rischiato e si è posto contro poteri enormi. La trasparenza in Rete è un’arma assoluta e lui l’ha usata. Spero di incontrarlo a Londra nei prossimi mesi».
Potrebbe indicarci dei punti di riferimento teorici per capire la rivoluzione digitale?
«La letteratura è molto ampia e multidisciplinare. Per avere un’idea della Rete e del suo impatto, è necessario rivolgersi ad autori provenienti da discipline differenti tra loro, come la matematica, la fisica, l’informatica, la sociologia, la statistica, le scienze politiche e della comunicazione, la linguistica. È necessario un approccio trasversale. Tra i testi che considero di riferimento vi sono Emergence di Steven Johnson, Six Degrees di Duncan Watts, Smart Mobs di Howard Rheingold, The Tipping Point di Malcom Gladwell, Free Culture di Lawrence Lessig e Linked di Albert-Laszlo Barabasi».
Nei lavori della Casaleggio Associati viene spesso messo in risalto il ruolo dei colossi del web (da Google ad Amazon) come intermediari della nuova produzione informativa e culturale. Non teme che la concentrazione di tecnica e sapere nelle mani di un oligopolio economico — come quello rappresentato dalle aziende in questione — sia una minaccia per il libero mercato e per una equa distribuzione di risorse?
«Il rischio è reale. Facebook e Google e altri colossi del web conoscono di noi più dei nostri amici e in futuro sapranno ancora di più. Queste informazioni possono essere utilizzate per vari scopi, non solo per proporci dei prodotti o dei servizi, come è stato evidenziato dal cosiddetto “Datagate”. È opportuno un controllo più stretto sulla gestione dei dati personali da parte dei governi, un nuovo sistema di regole. I dati personali, a mio avviso, appartengono alla persona, non alla piattaforma che li usa o ai motori che li catturano attraverso le nostre ricerche, e dovrebbero essere sempre esterni alle applicazioni di Rete».
Lei scrive che la Rete è «anti-capitalista e francescana», eppure i colossi che la dominano sembrano essere i prodotti più avanzati del capitalismo neoliberista. Cosa ne pensa?
«Il capitalismo non è morto con internet ed è ovvio che lo sfrutti per ottenere il massimo di profitto, ma non credo che questa sia la tendenza nel lungo termine. In Rete le idee hanno un valore superiore al denaro. Il MoVimento 5 Stelle ne è una prova. Ha ottenuto un grande risultato politico senza soldi, grazie alla partecipazione diretta dei cittadini e alla condivisione delle proposte. Altri esempi sono il software libero, che permette a chiunque di scaricare dalla Rete gratuitamente decine di migliaia di applicazioni, o il copyleft (il contrario del copyright) su opere letterarie, video, immagini, brani musicali che ne consente l’uso senza alcun costo».
Il progetto Narvalo del team tecnologico della campagna presidenziale per la rielezione di Barack Obama ha fatto un massiccio uso delle tecniche di «data-mining » (estrazione e raccolta di dati) per convincere gli elettori prima a finanziare la campagna e poi a votare per il presidente. Tanti hanno descritto l’operazione come un esempio di innovazione politica, altri come una minaccia per la privacy dei cittadini. Lei cosa ne pensa?
«Con la Rete il vecchio concetto di privacy non è più realistico e lo sperimentiamo ogni giorno su noi stessi. Se i dati sono pubblici non ci sono violazioni, bisogna considerare che esistono decine di dati pubblici accessibili su di noi e che la loro aggregazione consente di ottenere un profilo molto dettagliato. Aggregatori come il sito americano Spokeo consultano in tempo reale decine di social network e di fonti pubbliche fornendo informazioni accurate in tempo reale sul profilo delle persone».
Il Partito Pirata tedesco, il primo in Europa a utilizzare la Rete come simbolo e strumento della propria battaglia politica, sta registrando nei sondaggi un fortissimo calo dei consensi. Molti attribuiscono il calo di popolarità del partito al focus su temi specifici. Ciò che è stato decisamente un punto di forza all’inizio, si sarebbe rivelato una debolezza: l’incapacità di dare risposte al cittadino su diversi temi cruciali della sua quotidianità avrebbe creato disaffezione. Qual è il suo punto di vista?
«Io credo che siano necessari, oltre al cambiamento legato a obiettivi specifici come il copyright, una forte capacità organizzativa, delle persone di riferimento e un progetto complessivo. Un progetto politico di Rete deve avere un respiro più ampio che non la sola soluzione di problemi contingenti, vanno ripensate le istituzioni e la società nel medio termine. Tutto cambierà. Il cittadino deve diventare istituzione. Le regole del gioco stanno cambiando».
La comunicazione via web del Movimento 5 Stelle sembra replicare un modello «broadcasting»: un blog-testata che comunica il messaggio dall’alto al basso, da uno a molti, per arrivare — effetto cassa di risonanza — su altri media: tv, radio, giornali. La presenza sui social media del M5S appare poco «social»: Beppe Grillo segue e ritwitta solo affiliati del movimento e non risponde mai su Twitter…
«La presenza di Beppe Grillo e del M5S è ovunque in Rete, non solo nel blog, ma in tutti i principali social media, nella piattaforma Meetup. La comunicazione, più che da uno amolti, avviene tra coloro che li frequentano. I post di Grillo sono l’avvio di una conversazione collettiva. Le domande più frequenti poste a Grillo in Rete spesso diventano materia di nuovi post che sono una forma di risposta altrimenti impossibile per i milioni di contatti».
È caduto il «divieto» per gli esponenti del Movimento di andare in televisione. Perché?
«Il divieto non è mai esistito nei confronti della televisione, ma verso i talk show, contesti nei quali non è possibile esporre le proprie idee in modo puntuale e che vivono di contrapposizioni suscitate ad arte per motivi di share. Il M5S ora è in Parlamento e la sua visibilità sarà necessariamente maggiore anche nelle televisioni che vanno considerate, comunque, un media in via di estinzione, anche per motivi economici legati alla diminuzione del gettito pubblicitario. Nel 2012 le sette principali emittenti nazionali hanno perso mezzo miliardo di euro e il 2013 è tutt’altro che incoraggiante».
Può dirci in che fase è la piattaforma di partecipazione politica del Movimento 5 Stelle e in cosa somiglierà e divergerà dal software LiquidFeedback utilizzato dal Partito Pirata tedesco?
«Il termine esatto è applicazione, più che piattaforma. Il software utilizzato consentirà ai parlamentari di presentare in anteprima le loro proposte di legge agli iscritti che potranno integrarle, commentarle, “complementarle” entro un periodo determinato; inoltre in futuro gli iscritti avranno anche la possibilità di suggerire nuove proposte di legge ai parlamentari. Già ora i parlamentari possono porre delle domande agli iscritti al MoVimento 5 Stelle in Rete e ottenere delle risposte. L’elezione dei candidati al Parlamento è stata fatta in Rete, così come i nomi proposti alla presidenza della Repubblica e l’elezione dei capigruppo e lo stesso è avvenuto per alcune votazioni comunali e regionali».
Distinguere il vero dal falso è una delle sfide più importanti per vincere la partita del web. Lei come si orienta e che bussola di orientamento propone?
«Per ogni informazione è necessario risalire alla fonte primaria e per le pubblicazioni in Rete purtroppo questo non sempre è vero. Anche per Wikipedia, che considera fonti attendibili i giornali e le riviste. Nel mio caso è stato pubblicato prima su una rivista e poi su Wikipedia che mio padre era un autista, ma, pur non avendo assolutamente nulla contro gli autisti, mio padre era un interprete di lingua russa».
L’esperienza maturata in questi primi mesi in Parlamento ha modificato la sua idea di Rete? Che cosa è cambiato da quando il Movimento è entrato nel «Palazzo»?
«Tutto quello che è successo, compresa la chiusura a riccio del Sistema per mantenere lo status quo e l’inesperienza dei neoparlamentari, era prevedibile, tranne l’attacco mediatico senza precedenti per l’Italia repubblicana, spaventoso, verso un nuovo movimento politico da parte dei giornali e delle televisioni. Nel medio-lungo termine sono comunque convinto che imovimenti prevarranno sui partiti, questo vale per il M5S ma anche per nuove formazioni che oggi non sono ancora visibili in Italia».
Qual è il più grande errore che ha commesso?
«La mia vita è piena di errori, scegliere è molto difficile».
E qual è il progetto di cui è più orgoglioso?
«In generale tutte le volte che attraverso il blog o il M5S siamo riusciti ad aiutare a dare voce agli emarginati o a chi era in difficoltà, come nel caso di Federico Aldrovandi (il diciottenne ucciso a Ferrara da poliziotti nel 2009, ndr). L’ultimo libro con Fo e Grillo, Il Grillo canta sempre al tramonto in cui si discute del senso del M5S, ne è un piccolo esempio attraverso la cessione dei diritti dei tre autori a un’associazione di bambini ciechi e a una di bambini sordomuti che versavano in gravi difficoltà».
Che cosa l’ha spinta a interessarsi di politica e del bene comune dei cittadini?
«L’indignazione per lo stato del Paese e la convinzione che un cambiamento era possibile grazie alla Rete».

18.6.13

L'anello mancante

 Alberto Asor Rosa  (il manifesto)

L'organizzazione democratica e partecipativa, la difesa degli interessi, la rappresentanza del lavoro, il rapporto centro-periferia, un nuovo europeismo. Vademecum del partito che non c'è
E ora? Ora mi pare che le cose siano andate esattamente nel senso enunciato e previsto dal "piano". Non parlo neanche, almeno non prevalentemente, del "governo delle larghe intese". Mi limito da questo punto di vista a esprimere l'opinione, di carattere generalissimo, secondo cui non esiste, non è mai esistito, un governo al di sopra delle parti: un governo è sempre di parte; è per qualcuno, contro qualcuno.
Da questo punto di vista è di solare evidenza che questo governo si muove prevalentemente nel solco di parole d'ordine enunciate in passato, e oggi ripetute e rivendicate con strafottenza sempre maggiore, dal cosiddetto centro-destra (italiano, s'intende): e questo sia dal punto di vista politico-istituzionale sia dal punto di vista delle misure economiche.
All'interno di questo quadro è lampante, per fare un solo esempio, la preminenza della deriva presidenzialista (o semipresidenzialista: la differenza non è chiara nemmeno a tutti quelli che disinvoltamente ne cianciano; in un libro di qualche anno fa, La quinta repubblica da De Gaulle a Sarkozy, 2009, Umberto Coldagelli ha messo in luce con rara efficacia gli innumerevoli equivoci su cui si fonda l'idoleggiamento del presunto modello francese). L'abbandono dell'ipotesi, enunciata nel programma elettorale del centro-sinistra e del Pd, dell'eventuale miglioramento e perfezionamento del sistema politico-istituzionale in favore, invece, di una sua radicale riforma (o stravolgimento), fa del "governo delle larghe intese", se va avanti così, un punto di non ritorno nella dinamica politica italiana.
O non doveva anch'esso, come il "governo tecnico", essere un governo di breve durata, inteso ad affrontare i nodi più critici, soprattutto economici, dell'emergenza? Si delinea invece come il governo più importante e più decisivo per le nostre sorti dal 1946 a oggi.
La natura cogente del "governo delle larghe intese", - quella predisposizione a cambiare in profondità il sistema della rappresentanza in Italia, predisposizione che, ad esempio, non era né poteva essere di "governo tecnico", - risulta dal fatto che, sempre più chiaramente, si va formando al centro, fra governo e partiti, una nuova e inedita articolazione, più visibile e percepibile da un punto di vista ideologico e culturale che strettamente politico, la quale vede uomini del centro-sinistra e uomini del centro-destra solidamente affiancati allo scopo di procedere a lungo (ripeto: a lungo) verso questa medesima, comune direzione. Il "governo delle larghe intese" potrebbe diventare, a quel che si sente e si vede, l'incubatore, se non di una nuova formazione politica, di una comune cultura politica, destinata a determinare anche in futuro l'orientamento di ambedue le formazioni.
Potrebbe cioè orientare il centro-destra a liberarsi progressivamente dell'ossessiva subalternità al Padre Padrone? Può darsi (e questo potrebbe essere uno degli obiettivi reconditi del "piano"). Quel che è certo è che lo sviluppo di tale tendenza renderebbe ancor più irreversibile lo svuotamento politico e sociale del centro-sinistra e del Pd, cui il "grande piano", messo in opera pazientemente e intelligentemente nella fase di costruzione del "governo delle larghe intese", aveva dato l'avvio.
Ma non è questo il punto, per lo meno non quello decisivo. Il punto decisivo è se e come il Pd riuscirà a uscire dalla morsa in cui è stato gettato e si è gettato. Dico subito che non condivido le danze macabre che qualcuno, molto sollecitamente, ha iniziato, e con grande entusiasmo, intorno al suo presunto cadavere. Se il Pd è perduto, dovremo lavorare, qualcun altro dovrà lavorare per decenni perché un nuovo processo abbia inizio. Dunque, finché non è perduto, bisognerà sforzarsi di evitare che lo diventi.
Certo, detto questo, il quadro è desolante. Il risultato soddisfacente delle elezioni amministrative dimostra soltanto che, risalendo talvolta a fatica lo tsunami dell'astensionismo, il Pd gode ancora, nonostante tutto, e il centro-sinistra con lui, di un elettorato di appartenenza, che ne cede anch'esso qualcosa all'astensionismo, ma meno, talvolta molto meno, di altri. Ma il dato impressionante è l'incremento esponenziale dell'astensionismo, frutto di una crisi di sfiducia nei confronti di tutto il sistema, a cui sarebbe vano pensare che il risultato elettorale amministrativo del centro-sinistra come il frutto della politica delle "larghe intese". Questo risultato va letto invece, esattamente come una smentita alla linea della "normalizzazione", che è stata dominante nei mesi passati. Da qui, se mai, deve ripartire una nuova riflessione su natura e destino del Pd e conseguentemente del centro-sinistra (inteso come motore dell'intero processo).
Il documento Barca enuncia una serie di procedure utilissime a invertire la tendenza: va seguito con attenzione questo tentativo. Da parte mia enuncerei una serie di punti e di modi, - non temo smentite, nel senso più assoluto del termine, - nessuno parla dentro questo partito; e pochi fuori.
1) Do per scontato che debba esserci un "partito", organizzato democraticamente, e non grillinamente (o berlusconiamente) liquido. Ma: chi rappresenta questo partito? Quali interessi difende e tutela (al di là o al di sopra di quell'"interesse nazionale", che è da sempre il simulacro appariscente di un qualche "interesse particolare")?
Come si fa a non tentare neanche di rispondere a questa domanda? Ciò che non avviene più da anni, forse da decenni (Una ricostruzione storica dovrebbe risalire a l'89, o giù di lì). E in tempo di crisi, oggi, l'assenza di questa risposta tende a diventare drammatica. L'antipolitica non è il frutto di una generica condanna di comportamenti politici genericamente intesi: è il frutto della totale assenza di corrispondenza fra interessi e rappresentanza. Se questa corrispondenza esistesse e fosse praticata con assoluta chiarezza, deputati e senatori potrebbero persino aumentarsi gli stipendi, e nessuno troverebbe qualcosa da ridire.
2) È sempre più tollerabile l'assoluta autoreferenzialità di questo partito com'è e delle sue interne discussioni. Mai uno sguardo che si volga all'esterno delle stanze segrete del potere. L'Italia è piena di movimenti, comitati, centri di azione e di elaborazione, critica e proposta. Nulla che assomigli neanche da lontano agli scambi estremamente vitali di una volta: si pensi ad esempio, a Enrico Berlinguer e alle sue iniziative di consultazione di massa fuori dal partito. Altri tempi? Sì, ma dov'è allora oggi la diversità? Forse nel fatto che il partito si è supinamente adeguato alla civiltà dello spettacolo e della finzione? Le battaglie per il carattere pubblico dell'acqua, per i beni comuni, per nuove forme di partecipazione popolare, si arrestano, ignorate, alle soglie della macchina partitica. L'osmosi si è disastrosamente interrotta. Altro che "Italia bene comune"! Parola d'ordine vuota, se non riempita da diecimila contenuti.
3) E il lavoro? Possibile che nessuno noti, e faccia notare, che fra le tante anomalie italiane c'è anche l'assenza di un Partito socialista (salvo alcuni residui arginali)? Ora lasciamo stare, per amore di brevità e di chiarezza, la vecchia diatriba sulle etichette. Ma com'è possibile che la rinuncia all'etichetta abbia portato a questa colossale rinuncia alla rappresentanza dei ceti sociali legati alla produzione e del lavoro, e più necessariamente soggetti alla loro crisi, la quale in questo momento è il fattore discriminante per il destino del paese Italia? Se il Pd non assumerà di nuovo con chiarezza tale rappresentanza, non compirà il passaggio che può garantire non la stentata sopravvivenza ma una ripresa in grande nel sociale, e dunque (dico io) nel paese.
4) Esiste o no una "questione morale" in questo paese? Una "questione morale", che riguarda singoli soggetti, gruppi organizzati e pezzi interi del sistema, e invade sempre più spesso le istituzioni, la politica e persino il senso comune? C'è un silenzio impressionante su tutta questa sfera dell'agire pubblico, che fa da sgabello alle operazioni più spregiudicate. Dalla risposta a questa domanda dipende una parte importante, anzi decisiva, dell'essere organizzazione politica di un certo tipo e non di un altro. Può un partito come il Pd non disseppellire la "questione morale" e farne la propria bandiera?
5) Il Pd vive meglio, è meglio, in periferia che al centro. Non penso agli scout toscani: penso alle scelte amministrative, spesso fuori del controllo degli apparati, di città come Milano, Genova, Cagliari, oggi Roma, e con Roma la Regione Lazio. Metodologie di scelta degli apparati e dei candidati di tale natura andrebbero adottate anche a livello nazionale. Primarie generalizzate? Non solo, e non tanto: ma la verifica delle scelte, ogni qualvolta se ne fa una importante, in un quadro di trasformazione permanente. Un partito perpetuamente trasformativo, non fossilizzato.
6) Non c'è nuova politica in Italia se non c'è una nuova Europa in Europa: tutto quello che ho detto finora va proiettato su questo sfondo. Finora l'Europa è un insieme di vincoli elaborati e gestiti dall'oligarchia di Bruxelles. O si esce da questo ambito, recuperando capacità e possibilità di sviluppo diverse rispetto al presente, oppure dobbiamo rassegnarci a un futuro e a un ruolo di quarto o quinto grado. Qui si vede bene come l'interesse particolare (il lavoro, la partecipazione, la cittadinanza) è condizione, non remora o impedimento, dell'interesse generale (il bene del paese).
Ora, la domanda con cui concludere il discorso è: serve ancora in epoca post-moderna riflettere sulle coordinate generali dell'azione politica oppure no? Se si risponde no, l'azione politica sarà ridotta, come sempre più lo è, a gesto, improvvisazioni, spettacolo, battuta, gioco di potere, gutturale richiamo della foresta e, soprattutto, agli interessi personali e di carriera da difendere: in tal caso non ci interessa più, la lasciamo volentieri agli altri, a tutti coloro cui Mitridate ha insegnato bene la lezione. Se sì, bisogna rimboccarsi le maniche e lavorare. Infatti, mettere insieme tutte queste cose (e altre, naturalmente) - l'organizzazione democratica e partecipativa, la difesa degli interessi e del sociale, la rappresentanza del lavoro, l'osmosi fuori-dentro, il rapporto centro-periferia, un nuovo europeismo, - significa costruire un "progetto". Ce l'ha un "progetto" il Pd? No, non ce l'ha; o se ce l'ha, nessuno finora se n'è accorto.
Bene, il "progetto" è l'anello mancante, che serve a tenere insieme critica e moralità, azione politica e partecipazione, consenso e dissenso, proposte concrete e futuro lontano possibile. Daremo fiducia a quel gruppo dirigente che ci metterà sotto gli occhi l'anello mancante. Se nessuno farà vedere l'anello mancante, non daremo fiducia.

8.6.13

Emmanuel Carrère: lotte di carta

di
 
A forza di raccontare le vite degli altri Emmanuel Carrère è diventato protagonista della scena letteraria degli ultimi tempi, non solo in Francia. A dire il vero il suo viso incredibile – un po’ caratterista del cinema francese, un po’ mafioso russo – spunta sempre tra le pagine dei suoi libri che oscillano tra la biografia e autobiografia, romanzo e saggio. Un territorio narrativo nuovo e personalissimo. Prendiamo Vite che non sono la mia, appena ristampato da Einaudi, come ultimo giro di tango con un autore ormai passato ad Adelphi. Carrère racconta la storia di una giovane madre morta di tumore e quella di una bambina uccisa dallo tsunami. Tutte e due si chiamano Juliette. Una faceva il giudice ed era la cognata di Carrère. L’altra stava passando le vacanze di Natale in Sri Lanka dove si trovava lo scrittore. In Italia il libro non ha venduto molto, in Francia sì. È stato con Limonov, edito da Adelphi, che Carrère ha fatto il botto anche qui. Einaudi si è lasciata scappare l’autore dopo avere creduto in lui a lungo pubblicando cinque titoli a partire dal 1996. Come mollare il marito prima che vinca al Superenalotto. Capita. Il libro è l’imponderabile per definizione. Ecco: anche in Limonov, dietro alla biografia dello scrittore e politico russo mix tra il Che, Henry Miller e Casaleggio – c’è sempre Carrère e il suo impagabile sguardo. Ci si potrebbe vedere una beffa: costruendo una meravigliosa struttura narrativa a partire dai romanzi autobiografici di Limonov, Carrère ha raccontato Limonov meglio di lui stesso. E con più successo.
Figlio di una sovietologa che ha previsto il crollo dell’Urss – seppure per dinamiche diverse da quelle che si sono verificate – nipote di un esule georgiano ucciso nel ‘44 in Francia perché aveva fatto da interprete ai tedeschi, Carrère ha un’attrazione fatale per quel mondo. Ma non rinuncia a guardarlo con gli occhi impietosi oltre che incantati che riserva a ogni soggetto. Mi chiedo se in Italia, dove gli editori sono terrorizzati dalle querele e gli scrittori piegati al politicamente corretto, i suoi esperimenti narrativi sarebbero passati. In Vite che non sono la mia un collega di Juliette, Étienne, giudice militante per la causa delle famiglie indebitate, racconta la sera prima di subire un’amputazione alla gamba. Aveva vent’anni e prima di vedere la fidanzatina è andato in una sauna gay e non ricorda più quel che ha fatto. Con Ena Marchi, editor di riferimento in Adelphi per Carrère, si concorda su un pregio di questo scrittore inclassificabile. Pur essendo sperimentale ha una grande semplicità e fluidità: “I suoi libri sono dei page-turner”. Insomma: non rompe mai i coglioni al lettore. Adelphi ha appena dato alle stampe uno dei titoli più belli di Carrère: L’Avversario. È la storia vera di Jean-Claude Romand che ha sterminato la famiglia – i genitori, la moglie e due figli – quando stava per essere smascherato: diceva di essere ricercatore a Ginevra ma non era neanche laureato e sottraeva soldi a parenti e conoscenti promettendo di portarli in Svizzera. Cosa faceva quando “andava a lavorare”? Passeggiava nei boschi, leggeva i giornali. Un pazzo vero che non mentiva per scopi criminali ma per mantenere una facciata borghese.
Nel momento di gloria Carrère che sta combinando? Ha comprato casa a Patmos, in Grecia, e lì lavora al prossimo romanzo. Su cosa? Dove va a parare quando inizia un libro, questo scrittore così disinvolto da far sembrare facili le più ardite operazioni narrative, forse non lo sa manco lui.

Incontro con Rossana Rossanda. "Io, eterna madre della sinistra uccisa dai figli"

L'allontanamento dal "Manifesto". Il conflitto fra generazioni. Le nuove disuguaglianze. Colloquio con la "ragazza del Novecento"

di Simonetta Fiori repubblica.it

"No, non ci capiamo più. Li ho ascoltati per tanti anni, un lungo miagolio sulle mie spalle. Venivano dalla madre a raccontare le delusioni esistenziali. Gli amori, le speranze, le difficoltà. Ma ora davvero non ci capiamo più". Lo sguardo è severo e insieme sorridente, l'incarnato candido come le camelie che fioriscono nel giardino qui intorno. Da qualche mese Rossana Rossanda vive a Brissago, un angolo del Canton Ticino dove si fermerà fino alla fine di agosto. "Sì, è un bel posto. Dall'ospedale di Parigi vedevo solo la periferia, qui c'è il lago per fortuna increspato dal vento. Per chi non la conosce, la Svizzera può essere incantevole. Ma pare che chi ci vive la trovi insopportabile".

Azzurro ovunque, le vele bianche, anche i monti innevati, una bellezza quasi sfacciata e intollerabile allo sguardo ferito di chi abita nella grande casa di vetro affacciata sul lago Maggiore. "La prego", si rivolge con famigliarità all'infermiere, "può dare un po' d'aria alle rose?". La stanza è luminosa, sul comodino la bottiglia di colonia e la biografia di Furet, un po' più in là l'ultimo libro di Asor Rosa, I racconti dell'errore. "È un bellissimo libro sulla vecchiaia e sulla morte. Ma noi vogliamo parlare d'altro, vero? I necrologi lasciamoli da parte".

Per i più vecchi, nella famiglia del Manifesto, è stata l'eterna sorella maggiore, la quercia sotto
cui ripararsi nella tregenda. Per i "giovani" - così li chiama, anche se giovani non sono più da tempo - è la madre temuta e ingombrante. "Sì, una madre castratrice. Mi hanno sempre visto così, anche se io non mi sono mai sentita tale. Ho sempre cercato di capire, di dar loro spazio, ma forse è una legge generazionale. I figli per crescere hanno bisogno di uccidere i padri e le madri. E ora è toccato anche a me".

Nel settembre scorso ha lasciato il giornale da lei fondato con un articolo molto polemico: è mancata una riflessione su chi siamo, su cos'è diventato il quotidiano, sul rapporto con le origini e con il presente. Su cos'è oggi la sinistra. Insieme a Rossanda, se ne sono andati anche Valentino Parlato e diverse altre firme. "Non siamo noi ad essercene andati. È il Manifesto ad averci cacciato. L'abbiamo perso. Non voleva più saperne di noi, e noi ci siamo ritirati. Anche stupidamente, perché dovevamo essere noi a far tacere i più giovani. C'è stata una grandissima cesura, tra la nostra generazione e quella successiva. Mossi da una sorta di risentimento, non fanno che dirci: soltanto un mucchio di macerie, ecco quello che ci avete lasciato. Voi, con le vostre certezze e le vostre idee granitiche. È la frase più stupida che abbia mai sentito".

Macerie, certezze, noi e loro. Nessun errore, nessun ripensamento? "Il mio errore è stato non tenere unito il gruppo. E anche non capire che, se per la nostra generazione è stata dura, per quelli nati negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso lo è ancor di più. Ma non dovevamo farci portare via il giornale. Come in un refrain, ci ripetono: è cambiato tutto, niente è più uguale a prima. Ma cosa vogliono dire? Cos'è questo tutto che è cambiato?".

Il mondo le appare più ingiusto che mai, tra privilegio e povertà, sfruttatori e sfruttati, management superpagato e lavoratori affamati. "Non c'è mai stata tanta ineguaglianza nella storia. Però si passa sopra tutto questo, non importa. È stato assorbito anche dai giovani il bisogno di abolire il conflitto, come se lo scontro sociale fosse una roba del secolo scorso. Anche il Manifesto ci ha rinunciato da tempo, mescolando confusamente beni comuni ed ecologismo. Sì, certo, di queste cose non me ne importa niente anche per miei limiti. Ma sento il bisogno di chiedere un ritorno al conflitto di classe. E non penso a un estremista assetato di sangue, ma alle analisi di Luciano Gallino, che io ricordo all'epoca di Adriano Olivetti".

Le fa orrore una società pacificata, "l'assurda intesa benedetta da Napolitano tra Berlusconi e quel po' di sinistra che resta". E non ha grande fiducia nei movimenti, generosi e vitali ma impotenti. "Prevale ovunque l'antipartito, che mi sembra profondamente sbagliato. I partiti hanno avuto molti difetti, ma ciascuno da solo non combina niente. L'alternativa rischia di essere Grillo, il quale è riuscito a condensare i peggiori vizi dei partiti - l'autorità del Capo - senza esercitarne la funzione più nobile, ossia tenere insieme le persone, impegnarle in un progetto comune. Poi lo stile: quello che ha fatto con Rodotà è al di sotto di ogni decenza".

No, ora non le interessa più tornare al Manifesto, confondersi "in quel chiacchiericcio insensato". Preferisce scrivere "su un sito di economisti intelligenti come Sbilanciamoci". Ma non è una rottura personale, solo politica. Lo ripete più volte, come se ci volesse credere. "Almeno per me è così. Non mi pesa aver litigato con qualcuno, umanamente faccio la pace subito. Io non faccio pace con le idee, che è cosa molto diversa. Ma i giovani ragionano in altro modo. E forse io voglio più bene a loro di quanto loro ne vogliano a me".

Ora che è finita, quella storia può essere raccontata, cominciando dall'inizio. Là dove chiude Una ragazza del secolo scorso, con la nascita del Manifesto e il tentativo di far da ponte tra il Sessantotto e la vecchia sinistra. "Non funzionò e vorrei tentare di capire cosa è successo. Il libro l'ho già in testa, si tratta di scriverlo. Più che l'attuale divisione da Norma Rangeri, mi pulsano gli antichi contrasti con Pintor, Magri e Natoli". Bisogna capire tante altre cose, anche perché il paese s'è ridotto in questo stato. "Lucio è stato quello che dal fallimento politico ha tratto le conclusioni più pesanti, scegliendo di morire. La perdita della moglie amata ha coinciso con una perdita di senso più generale. E ha preferito andarsene". Perché volle accompagnarlo nell'ultimo viaggio? "Era il minimo che potessi fare. Nel nostro gruppo, ero la persona che l'aveva più ferito. All'epoca del Pdup, gli portai via il giornale, sottraendogli la carta più forte nella discussione con Berlinguer. Naturalmente lo rifarei da capo, ma è sicuro che gli feci male. E avendogli voluto molto bene, mi è parso il minimo stargli vicino nel momento della fine. Stava male da anni, non era una malinconia passeggera. Abbiamo fatto di tutto per dissuaderlo, ma non ci siamo riusciti. Allora gli ho chiesto: "Lucio, vuoi che ti accompagni?". Speravo mi dicesse no. Invece lui mi ha detto sì. E io l'ho fatto".

Aveva immaginato una morte serena, "come accadeva nell'antichità". E invece no, non è andata così. "Un'esperienza terribile. Però è una scelta che rispetto, e capisco. Vivere per vivere non ha molto senso. Se non ci fosse Karol (ndr il marito malato che l'aspetta a Parigi) non avrei alcun interesse a vivere". Accompagnare qualcuno verso la morte - disse una volta in un dialogo con Manuela Fraire - vuol dire addomesticare il pensiero della propria fine. "Il dolore ti fa capire molte cose, ossia il dolore stesso. Noi rifuggiamo dall'esperienza negativa, dall'annullamento, mentre il dolore ti sbatte sul muso questa roba, e allora lo capisci. Non credo invece che tu possa uscirne migliorato, perché è un'esperienza pesante, che può schiacciarti. Così come non penso che il lutto si possa elaborare, ma rimane parte di te, incancellabile".

Tutte le persone perdute se le trascina dietro, anche qui, davanti allo strano lago che assomiglia al mare. Il lago nero della sua gioventù partigiana, quello dove i tedeschi buttarono i corpi martoriati. "Oggi vivo nel presente, ma non è più il mio, essendone venuti a mancare gli elementi costitutivi. Un presente che si restringe nel tempo e nella frequentabilità. Prima potevo dire domani vado a Berlino o salgo in montagna. Ora non lo posso dire più". Prevede l'obiezione, gli occhi s'accendono d'ironia. "No, non mi piace invecchiare. Sono entrata nel novantesimo anno, ma non ne faccio motivo di vanto. Norberto Bobbio ci scrisse sopra uno splendido libro, De Senectute. Ma io non appartengo a questa categoria. Sono rimasta esterrefatta quando mi sono trovata un ictus addosso, e vorrei liberarmene. Cosa che non avverrà. Noi del corpo non sappiamo nulla. Le mie amiche femministe dicono che le donne siano più vicine all'organismo, ma non è vero. Ora provo cosa vuol dire avere mezzo corpo, ed è terribile. Il corpo o è integro, o non è. Non si è un po' paralizzati, un po' malati. Lo si è completamente".

Ma la mente è lucida e affilata come prima dell'imboscata. "Un'aggravante. Non ti puoi distrarre da quel che sei. Non mi sono accorta di niente, quando mi è venuto l'ictus. Non ho provato dolore, non sono caduta. Guardavo la tv, nella mia casa di Parigi. E all'improvviso sono diventata una medusa, una creatura gelatinosa e impotente. Ha presente un grosso medusone?". Ti guarda e scoppia a ridere, come se l'improbabile mostro marino appena evocato potesse portarsi via le paure. "Davvero, è così. Allora bisogna avere un carattere energico, e dirsi: io vado avanti. Ma non ho questo temperamento eroico".

Doriana, l'amica che non l'ha mai lasciata, le porta il tablet per leggere. Rossanda è divertita e perplessa, "chissà se mi ci abituo". Eterna sorella maggiore, quella che ne sa sempre di più, e s'addolora se gli altri non la seguono, forse è lei oggi a desiderare una sorella più grande. "No, sono prepotente. E non potrei sopportarla". Le "ragazze del secolo scorso" sono fatte un po' così. "Sì, certo appartengo al Novecento. Anche al giornale mi hanno guardato come una donna di un tempo lontano. Ma è stato un grande secolo, cosa che l'attuale non ha l'aria di essere. Abbiamo vissuto una storia terribile, ma una grande storia. Ora siamo nelle storielle".