22.2.12

Un esame di noi stessi

di Rossana Rossanda (Il Manifesto)

Che al governo una voce come la nostra non interessi è comprensibile, ma perché non interessa più ai nostri lettori? La difficoltà di fotografare la nuova topografia del sociale, le difficili condizioni di lavoro interne. Eppure è un giornale in cui, ogni giorno, si può trovare qualcosa di interessante.
Della libertà di stampa al governo Monti non potrebbe importar di meno. Da buon liberista è convinto che un giornale è una merce come un'altra; se vende abbastanza ai lettori e agli inserzionisti di pubblicità, viva, se no muoia.

Lo strangolamento è stato bene illustrato l'altro ieri da Valentino Parlato. Ed era visibile dai nostri bilanci. La nostra asfissia è della stessa natura di quella che si tenta di applicare ai beni comuni non meno urgenti. A noi sembra importante anche la presenza di una voce fuori dal coro come la nostra, perché in un paese che ha mandato tre volte Silvio Berlusconi al governo, qualcosa non funziona.

Né funziona che tanti amici si rallegrino che al posto d'un faccendiere impresentabile sia venuto un onesto e distinto liberista. Onesto personalmente, s'intende. L'onestà sociale non si sa più bene che cosa sia, e non importa più alla stampa salvo che a noi. Che siamo non solo un pezzo della sinistra, ma addirittura comunisti. Anzi, più che comunisti, nel senso che il comunismo dei "socialismi reali" non ci andava né su né giù. Per questo fummo esclusi dal Pci, ma per non essersi posti le nostre domande sui socialismi reali i partiti comunisti non esistono praticamente più.

Che al governo una voce come la nostra non interessi è comprensibile: del manifesto è rimasta l'immagine di un quotidiano di sinistra, anzi di estrema sinistra. Ora è facile giurare sulla libertà di stampa finché questa non è dalla parte di chi ti attacca. E in Italia chi attacca il governo? E noi dove siamo? Come Parlato ricorda, il manifesto vende sempre meno da otto anni a questa parte.

Il calo si è accelerato negli ultimi due. La media in cui ci eravamo tenuti nei nostri primi trenta anni è stata, poco più su poco più giù, di trentamila copie, non molto alta, eravamo un giornale di nicchia. Ma solida e rispettata nicchia. Ora si è circa la metà.

Dovremmo chiederci perché. Era nostra abitudine fare un punto almeno un paio di volte all'anno. Ma negli ultimi tempi la direzione non ha più convocato un'assemblea che faccia il punto sullo stato del mondo e dell'Italia e sul nostro orientamento in esso. Né la redazione, che può esigerlo, sembra averne sentito il bisogno. Neanche un attimo prima di arrivare a quella forma di liquidazione, non proprio un fallimento ma quasi, cui siamo costretti.

Non è stata una buona scelta. Non è infatti per nulla ovvio che cosa sia oggi un giornale di sinistra, tanto meno uno che, sempre secondo Parlato, dovrebbe ancora definirsi comunista. Nel senso che dicevamo sopra, un comunismo che poco ha a che vedere con i "socialismi reali", ma che realizzi un cambiamento del vivere e del produrre e che facendolo realizzi un più di libertà politica. Lo abbiamo detto in questi anni ancora? Si poteva dirlo? Si poteva crederlo? Questa è la domanda cui abbiamo smesso di rispondere cessando fra noi persino di farcela.

Io tendo a credere che da questa reticenza venga il dimezzamento dei nostri lettori. Ma è una domanda cui non è semplice rispondere. Non è facile essere comunisti oggi, a più di trenta anni dal 1989. E appunto sarebbe nostro compito chiarire che cosa intenderemmo nel dirci comunisti ancora, o perché non si possa dirlo più.

Io credo che, almeno nei tempi brevi, non si possa dirlo più. E non perché il sistema mondializzato sia diventato più umano, condiviso e condivisibile, meno feroce, più pacifico perché libero e un po' meno inegualitario, cosa che non vuol dire conformizzato. Non abbiamo mancato di scrivere che dal 1971 non sono soltanto passati molti anni, ma sono cambiate molte cose. Quasi tutte. Ma non ne abbiamo tratto ed esplicitato le conseguenze. In questo la crisi della sinistra non è diversa dalla nostra, almeno - sinistra essendo ormai parola assai vaga - di quella parte della sinistra che si proponeva un cambiamento del modo di produzione. Si può essere anticapitalisti oggi?

Il manifesto è nato quando una parte del mondo, sotto l'egemonia degli Stati Uniti, era capitalista e imperialista, e una parte che aveva già abolito la proprietà privata del capitale si diceva socialista ed era sotto l'egemonia dell'Urss. Il mondo si ridefiniva fra due campi e mezzo: perché restava una parte sospesa in un "postcolonialismo", vago come tutti i post, che chiamavamo paesi terzi. Oggi non è più così; gli Stati Uniti non sono più la indiscussa prima potenza capitalista, e non è sicuro che il loro fine si possa definire, come prima, imperialista. L'Unione Sovietica non esiste più. La Cina ha un governo che si dice comunista ma un sistema produttivo capitalista spinto. Cuba non sembra più affatto socialista. Il terzo mondo ha percorso, tra stati e sotto l'infuenza di potenze diverse, un itinerario mai visto prima.

Allo stesso tempo l'Europa ha formato una grande area a moneta unica e a direzione liberista che da anni è traversata da una crisi, economica e politica, più acerba di quella degli Stati Uniti da cui aveva preso radice. Insoma, è cambiato tutto. È cambiato il capitalismo? Possiamo dire di sì, nel senso che ha articolato le sue forme e non ha più uno stato che ne sia indiscutibilmente la leadership. Dobbiamo dire di no, nel senso che ha mondializzato, appunto articolandolo, il suo modo di produzione. Possiamo, davanti a questo mutamento di scena, conservare gli strumenti di analisi e di proposta che avevamo nel 1971? Non credo. Andrebbero almeno verificati.

Anche l'Italia è cambiata. Nel senso che forse nel paese dove il movimento del '68 è stato più lungo e più esteso a vari strati sociali, non solo operai e studenti, ha anche - ha ragione Mario Tronti - più destrutturato le forme classiche del socialismo e della democrazia di quante forme nuove abbia prodotto. Ha investito nuove figure sociali e anche qualcosa di assai più che una forma sociale, le donne e i femminismi. Questa molteplicità di oggetti ha avuto in comune il rigetto delle forme di potere cui era, visibilmente o invisibilmente, sottomessa, nello stesso tempo dividendosi acerbamente. Risultato, all'ampiezza del rigetto ha risposto una reazione opposta, un individualismo piatto, un rifiuto di ogni cambiamento di società, di ogni collettività che non sia locale o comunitaria. La incomunicabilità delle differenze ha prodotto una crisi della politica, il cui esito è stato il berlusconismo e il crescere del populismo.

Ma di questo neanche noi abbiamo dato una mappa e una topografia approfondita e comune. Abbiamo denunciato i limiti del keynesismo postbellico con l'intento di andare oltre, ma di fatto abbiamo lasciato spazio a spinte liberiste. Meno stato più mercato, è uno slogan che piaceva anche a sinistra. Per un paio di decenni abbiamo messo da parte il rapporto di lavoro, analizzando le nuove soggettività e le molte contraddizioni che ne erano fuori, finendo col dichiarare lo sbiadimento se non addirittura l'irrilevanza della contraddizione fra lavoro e capitale. Fino allo scoppio della crisi e dell'offensiva padronale alla Fiat abbiamo dato poca attenzione alla struttura sociale, come se fosse un problema puramente sindacale.

Non siamo stati convinti, e quindi non siamo stati capaci di convincere, che - come ci ricorda il segretario della Fiom - il modo di produzione non investe soltanto la fabbrica ma tutta la società. Il lavoro? Roba del secolo scorso. L'operaio? Non c'è più. Il sindacato? Vecchiume. Del resto non gorgheggiavano ogni giorno i padroni che il lavoro costituiva orami una parte minima del processo di produzione?

Oggi i padroni dicono tutto il contrario, strillano che per essere competitivi nella mondializzazione bisogna ridurre i salari italiani a quelli dell'Indonesia o della Cina, un terzo, un quarto del livello che i lavoratori erano riusciti a spuntare da noi. Così siamo arrivati, come il resto del mondo occidentale, a una stretta in cui i redditi si sono divaricati al massimo, il dieci per cento della popolazione guadagna quanto il novanta per cento, e di questo dieci, l'un per centro guadagna più di tutti gli altri. Nella stretta si dibattono anche le nuove soggettività.

In questo ribollire di bisogni e nella loro incapacità di trovare un dialogo, il manifesto non è riuscito a suscitare più interesse ma meno. Eppure non c'è giorno che esso non proponga un pezzo interessante e che sarebbe impossibile trovare altrove, un'interpretazione di una notizia che l'altra stampa offusca. Forse che quel che scriviamo non si capisce, non è detto bene? Non è chiaro? Non è rapido e divertente? Qualcosa non ha funzionato neanche da noi. Siamo stanchi, perché - per favore non lo si dimentichi - coloro che ogni giorno hanno confezionato questo foglio e lo hanno spedito in giro non ne possono più di un successo che lentamente viene meno e perdipiù di essere pagati meno che in qualsiasi altro giornale, e a singhiozzo, a volte aspettando il salario per mesi. Affidarsi per anni agli introiti del marito, della moglie, dei genitori, a un altro lavoretto è facile da dire, non facile da vivere.

Io insisto perché nel chiedere solidarietà facciamo anche un esame di noi stessi. O pensiamo che la storia sia finita e che "io speriamo che me la cavo" sia divenato il solo slogan veramente popolare?

1.2.12

Melandri: vitalizi, tagli sbagliati io lasciai il lavoro per la politica

Monica Guerzoni (Corriere)

«È dal 1994 che siedo in Parlamento e non ho mai preso il doppio stipendio. Non ho fatto, come invece tanti miei colleghi, il deputato e al tempo stesso l’ avvocato, il notaio, il commercialista... E quel che mi dispiace è che in futuro non ci potrà essere un’ altra Giovanna Melandri, una ragazza come me che a 35 anni lascia un lavoro da economista in Montedison e decide di servire il suo Paese». Melandri, ovvero l’ orgoglio del politico di professione. Ora che è «fuori dalla sala macchine del Pd» l’ ex ministro non ha paura di dire cose che potrebbero non piacere all’ opinione pubblica, o almeno a quella parte dell’ opinione pubblica che vede i parlamentari come il simbolo di vizi e privilegi italiani. Lei, che di certo è fortunata e non lo nega, contesta la «logica» con cui Fini e Schifani stanno riformando gli emolumenti di deputati e senatori: «Berlinguer e Fanfani erano d’ accordo sulla nozione di vitalizio e anche io penso che quel concetto non sia sbagliato. Non ho da recriminare nulla, ma ho paura di quel che resterà sotto le macerie del populismo. Mettere insieme una rappresentatività di giovani sarà sempre più difficile». Oggi l’ Ufficio di presidenza di Montecitorio e Palazzo Madama darà il via libera alla riforma dei vitalizi e ad altri tagli che alleggeriranno le buste paga dei parlamentari. E la Melandri non è d’ accordo: «In futuro potrà candidarsi solo chi ha un notabilato sociale alle spalle, oppure ha un altro mestiere e continuerà a esercitarlo durante il mandato di deputato o senatore». Ministro della Cultura con D’ Alema e Amato, responsabile dello Sport con Prodi e poi, nel 2008, ministro (ombra) della Comunicazione nel governo (ombra) di Veltroni, la Melandri è nata a New York il 28 gennaio del 1962. Due giorni fa ha compiuto 50 anni, il che vuol dire che con le vecchie regole avrebbe già maturato il diritto a una sostanziosa pensione. Mentre ora? «La prenderò fra dieci anni, nel 2022». Una ventina di deputati hanno presentato ricorso e giovedì il presidente del Consiglio di giurisdizione della Camera, Giuseppe Consolo, aprirà la cassaforte con i nomi. Ce ne sono di noti, onorevoli ancora in carica ed ex deputati di un certo calibro. E a Montecitorio molti sospettano che ci sia anche il suo. È così, onorevole? «No, io non ho fatto ricorso, anche perché una delibera formale ancora non c’ è. Quando ci sarà, eventualmente...». Allora è vero, ci sta pensando? «Gli estremi ci sarebbero e non solo per i contributi già versati. Non mi piace l’ idea del forcone contro i politici e la logica in cui stiamo entrando». Farà ricorso o no? «Non lo farò perché non si tratta di un caso personale, ma di una questione politica - e qui la voce tradisce una nota di rimpianto -. Devono essere i partiti, a cominciare dal mio, a capire che entreranno in Parlamento solo i ricchi e i professionisti con 740 cospicui, oppure persone che durante il mandato dovranno occuparsi di quel che faranno dopo». Ce l’ ha con chi approfitta dello scranno per piazzarsi in qualche azienda pubblica? «Non voglio dire che dovranno per forza essere corrotti, ma c’ è il rischio che mentre si sta in Parlamento si pensi solo alla rielezione o a come ricollocarsi dopo». Viva i politici di professione? «Non dico che bisogna esserlo per forza, ma ritengo grave che un deputato vada a lavorare nel suo studio di avvocato o notaio. Se uno fa il parlamentare, non dovrebbe esercitare nessun’ altra professione. Arriverà il momento, tra qualche anno, in cui bisognerà ripensare le scelte di questi giorni». Tra qualche anno, quando il vento dell’ antipolitica avrà smesso di soffiare così forte? «Il populismo nasce dall’ inefficienza del processo parlamentare, ma io penso che ci siano tante forme per rendere più efficace il processo legislativo e ridurre i costi, ad esempio tagliando il numero dei parlamentari». Perché non si può cominciare dai vostri stipendi e vitalizi, visti i sacrifici chiesti ai cittadini? «Va bene, invece di darci 5000 euro di pensione a cinquant’ anni potrebbero darcene la metà, ma eliminare i vitalizi no. Io non sono d’ accordo».] Melandri: vitalizi, tagli sbagliati io lasciai il lavoro per la politica

ROMA - «È dal 1994 che siedo in Parlamento e non ho mai preso il doppio stipendio. Non ho fatto, come invece tanti miei colleghi, il deputato e al tempo stesso l' avvocato, il notaio, il commercialista... E quel che mi dispiace è che in futuro non ci potrà essere un' altra Giovanna Melandri, una ragazza come me che a 35 anni lascia un lavoro da economista in Montedison e decide di servire il suo Paese». Melandri, ovvero l' orgoglio del politico di professione. Ora che è «fuori dalla sala macchine del Pd» l' ex ministro non ha paura di dire cose che potrebbero non piacere all' opinione pubblica, o almeno a quella parte dell' opinione pubblica che vede i parlamentari come il simbolo di vizi e privilegi italiani. Lei, che di certo è fortunata e non lo nega, contesta la «logica» con cui Fini e Schifani stanno riformando gli emolumenti di deputati e senatori: «Berlinguer e Fanfani erano d' accordo sulla nozione di vitalizio e anche io penso che quel concetto non sia sbagliato. Non ho da recriminare nulla, ma ho paura di quel che resterà sotto le macerie del populismo. Mettere insieme una rappresentatività di giovani sarà sempre più difficile». Oggi l' Ufficio di presidenza di Montecitorio e Palazzo Madama darà il via libera alla riforma dei vitalizi e ad altri tagli che alleggeriranno le buste paga dei parlamentari. E la Melandri non è d' accordo: «In futuro potrà candidarsi solo chi ha un notabilato sociale alle spalle, oppure ha un altro mestiere e continuerà a esercitarlo durante il mandato di deputato o senatore». Ministro della Cultura con D' Alema e Amato, responsabile dello Sport con Prodi e poi, nel 2008, ministro (ombra) della Comunicazione nel governo (ombra) di Veltroni, la Melandri è nata a New York il 28 gennaio del 1962. Due giorni fa ha compiuto 50 anni, il che vuol dire che con le vecchie regole avrebbe già maturato il diritto a una sostanziosa pensione. Mentre ora? «La prenderò fra dieci anni, nel 2022». Una ventina di deputati hanno presentato ricorso e giovedì il presidente del Consiglio di giurisdizione della Camera, Giuseppe Consolo, aprirà la cassaforte con i nomi. Ce ne sono di noti, onorevoli ancora in carica ed ex deputati di un certo calibro. E a Montecitorio molti sospettano che ci sia anche il suo. È così, onorevole? «No, io non ho fatto ricorso, anche perché una delibera formale ancora non c' è. Quando ci sarà, eventualmente...». Allora è vero, ci sta pensando? «Gli estremi ci sarebbero e non solo per i contributi già versati. Non mi piace l' idea del forcone contro i politici e la logica in cui stiamo entrando». Farà ricorso o no? «Non lo farò perché non si tratta di un caso personale, ma di una questione politica - e qui la voce tradisce una nota di rimpianto -. Devono essere i partiti, a cominciare dal mio, a capire che entreranno in Parlamento solo i ricchi e i professionisti con 740 cospicui, oppure persone che durante il mandato dovranno occuparsi di quel che faranno dopo». Ce l' ha con chi approfitta dello scranno per piazzarsi in qualche azienda pubblica? «Non voglio dire che dovranno per forza essere corrotti, ma c' è il rischio che mentre si sta in Parlamento si pensi solo alla rielezione o a come ricollocarsi dopo». Viva i politici di professione? «Non dico che bisogna esserlo per forza, ma ritengo grave che un deputato vada a lavorare nel suo studio di avvocato o notaio. Se uno fa il parlamentare, non dovrebbe esercitare nessun' altra professione. Arriverà il momento, tra qualche anno, in cui bisognerà ripensare le scelte di questi giorni». Tra qualche anno, quando il vento dell' antipolitica avrà smesso di soffiare così forte? «Il populismo nasce dall' inefficienza del processo parlamentare, ma io penso che ci siano tante forme per rendere più efficace il processo legislativo e ridurre i costi, ad esempio tagliando il numero dei parlamentari». Perché non si può cominciare dai vostri stipendi e vitalizi, visti i sacrifici chiesti ai cittadini? «Va bene, invece di darci 5000 euro di pensione a cinquant' anni potrebbero darcene la metà, ma eliminare i vitalizi no. Io non sono d' accordo».