28.2.13

Se non sono chiacchiere, è una buona occasione

di Margherita Hack

Mi sembra che se ci fosse un po' di buon senso e di buona volontà, da queste elezioni potrebbe uscire il governo più forte che ci sia mai stato negli ultimi anni.
Per dire questo, parto da una constatazione: Grillo e i grillini in fondo vogliono molte cose che vuole anche la coalizione di centro sinistra. Almeno su quelle cose, quindi, le due forze potrebbero trovare un accordo. Così l’Italia ingovernabile potrebbe essere governata per fare quello che c’è da fare in tempi brevi.
E cioè:
1) Intervenire sul conflitto d’interessi.
2) Una nuova legge elettorale che ridia al cittadino la possibilità di scegliere i propri rappresentanti.
3) Una drastica riduzione dei costi della politica, con riduzione del numero dei parlamentari, eliminazione dei vantaggi e dei privilegi di cui godono.
4) Una riduzione delle spese militari che renda subito disponibili fondi da investire in modo prioritario per la scuola e la ricerca.
5) L’eliminazione delle province. E non il loro accorpamento che solleverebbe infinite diatribe e avrebbe come risultato un raddoppiamento degli uffici e quindi delle spese.
6) Una politica del lavoro. Su questo, non ho ricette perché non sono un’economista e non so come si faccia a creare lavoro in un’Europa in crisi. Però credo che ci siano alcuni settori pubblici di risanamento e di rispetto dell’ambiente che potrebbero creare posti di lavoro e andrebbero privilegiati.
7) I diritti civili. C’è da mettere mano al testamento biologico, ai matrimoni di fatto, alla revisione della legge 40. Su alcune di queste cose si può pensare di mettere d’accordo anche i grillini.
8) Infine, ci sarebbe da facilitare il processo di integrazione degli immigrati, abolendo le leggi indegne fatte dalla Lega.
Almeno su alcuni di questi punti si potrebbe trovare un accordo e andare avanti fino alla fine della legislatura, senza perdersi nei distinguo sulle cose meno importanti. In questo quadro anche Monti con i suoi potrebbe fare un’opposizione intelligente, da economista che ha a cuore la riduzione del debito pubblico e le condizioni economiche del Paese.
Del resto, non c’è altra possibilità: la grande coalizione col Pdl non è possibile. Basta che quello che dice Grillo non siano chiacchiere.

26.2.13

La rivoluzione M5S e il masochismo del Pd

Don Paolo Farinella  (Micromega)

Chiedo scusa ai miei due lettori e mezzo, me che scrivo compreso, se sono costretto a citarmi da solo e per ben due volte. Ciò che conta sono le carte e la carta canta:
1.      Nel «Pacchetto del mercoledì» N. 29 del 03 ottobre 2012, scrivevo:
Occorre una rivoluzione radicale, profonda, senza misericordia. I partiti, «questi» partiti non possono autoriformarsi. Bisogna mandarli tutti a casa, tagliando loro il maltolto che devono restituire. Allo stato attuale delle cose, sul mercato esistente, il Movimento 5 Stelle nonostante le difficoltà, in parte vere, in parte costruite dai suoi moltissimi avversari, «è inevitabile», cioè un male necessario … Dico che «è inevitabile» perché potrebbe essere, nell’arco di una stagione, la ruspa che fa piazza pulita e spiana il terreno dalle sterpaglie e dai rovi che indisturbati hanno cresciuto per colpa di coloro che avrebbero dovuto fare pulizia. Ora non basta più la ramazza, occorre la ruspa e il lanciafiamme.
2.      A distanza di un mese è mezzo, nel «Pacchetto del mercoledì» N. 36 del 18 novembre 2012, scrivevo:
Grillo è una meteora inevitabile e il suo impatto sarà deflagrante. Egli al 90% è frutto dei partiti che oggi offrono ricette salvifiche, è figlio di Monti, è nipote di Bersani, è cugino di Di Pietro e tutti costoro gli stanno spianando una autostrada senza fargli pagare nemmeno dazio. Avremo Grillo al parlamento. Sarà un bene? Non lo so. So che peggio di così non può andare. So che non si può fare una legge per non fare eleggere Grillo e i suoi. Se volevano scongiurarne l’elezione, dovevano operare bene, fare buona politica, non rubare, non candidare delinquenti e prostitute, venduti e comprati, ignobili e debosciati. Non dovevano mangiare a quattro palmenti, affamando un paese intero. Ora è troppo tardi. Che Dio li perdoni e illumini Grillo che si trova sulle spalle una responsabilità enorme.
Monti di fatto è caduto il 7 dicembre 2012, quando il maggiordomo, Angelino Alfano, ha ritirato la fiducia del postribolo di Berlusconi al governo. Di conseguenza scrivevo quelle parole e quelle valutazioni due mesi prima che si dimettesse il governo e quando non si parlava ancora di elezioni e tutto faceva supporre che si sarebbe arrivati alla fine della legislatura. Il Movimento 5 Stelle aveva vinto le elezioni regionali e aveva sconvolto la Regione siciliana, ma ancora veniva dato intorno al 10% e tutto pensavano che fosse un bluff.
«Inevitabile»
Molti miei amici, superficiali e poco attenti alle parole, quando leggono, mi hanno accusato di «qualunquismo», mettendomi in guardia dal cavalcare «tigri di carta». Nessuno ha capito e io non mi sono speso in spiegazioni inutili che tanto non sarebbero servite a nulla.
Ho scritto e detto tante volte che «Grillo è inevitabile». Se le parole, con le quali vivo ogni giorno per lavoro, hanno un senso, «inevitabile», significa che «non si può evitare», qualunque provvedimento si voglia prendere. Secondo il dizionario Sabatini-Coletti si tratta di un aggettivo sostantivato che indica qualcosa «che accade senza che possa essere impedito». Sono sinonimi: ineluttabile, fatale. Il sostantivo si usa solo al singolare e significa: «Ciò che non si può evitare». Il termine è attestato dal sec. XIV. Una frana è inevitabile perché se il terreno è dissestato o è stato manomesso da incompetenti, «deve» cadere e, cadendo, travolge tutto. Non si può stare davanti a pararla con le mani.
La frana Movimento5Stelle, preparata da chi ha dissestato il terreno, minando la consistenza della terra e disboscando all’impazzata, è caduta come conseguenza logica e necessaria. Essa inoltre avverte che è solo l’anticipo perché il bello deve ancora venire e il botto sarà devastante per chi si è gingillato, credendo che bastassero battute sceme come «smacchiare il giaguaro» o «pettinare le bambole» per esorcizzare una valanga che si abbatteva sul sistema consunto e corrotto.
Ho vissuto sulla mia pelle questa demenza che ha colpito il Pd, ormai da anni: qualcuno mi ha detto che non mi hanno mai voluto invitare alle feste del loro partito a Genova con la motivazione che «lui ci critica». Imbecilli! Se invitano chi li loda, ecco i risultati. Avrebbero dovuto invitare solo quelli che li criticavano perché li mettevano in guardia e gli portavano il polso della strada, della gente e della vita, quella che essi avevano smarrito come hanno dimostrato le primarie e formazione delle liste. Hanno difeso la casta e le loro rendite.
Le primarie dovevano servire per scegliere i candidati, che però sono stati catapultati dall’alto per mettere al sicuro i funzionari di partito, sfruttando le possibilità della legge «porcata» contro la quale sbraitavano in pubblico. Avrebbero dovuto, almeno al loro interno, contestare quella legge e rispettare al millesimo i risultati delle primarie, senza sconti per alcuno. Chi è causa del suo mal pianga se stesso.
Alla Camera ho votato Movimento5 Stelle e non sono pentito. Ci mancherebbe altro. O si cambia o si muore. Non si può «cambicchiare». Qualsiasi altro voto sarebbe stato una rassegnazione all’inciucio, all’imbecillità e al vuoto. Costoro non hanno capito che il re è nudo, anzi era nuda da anni e ora non è morto di freddo.
La fine del PD
Agli amici del Pd dico: ma veramente voi pensavate di vincere le elezioni con «questa» campagna elettorale, dopo vent’anni di virus berlusconista iniettato nel sangue della Nazione? Davvero pensavate che bastava un Bersani che ne ha fatte una più di Bertoldo per perdere le elezioni? Davvero pensavate che potevate vincere con la gente che avete presentato e senza uno straccio di programma, ma solo con confusioni del tipo «vedremo … faremo … questa roba qui … quella roba là …»? Quando la vittoria si profilava sicura, ecco che il partito tira fuori il Monte dei Paschi per garantirsi la sconfitta. Non bastava ancora, perché, rovina delle rovina, avete preso l’impegno di andare al governo con Monti, anche se aveste avuto la maggioranza assoluta. Non vi siete accorti che Monti ha strangolato l’Italia e voi gli andavate dietro, anzi lo rincorrevate; più quello, patetico, vi dava botte e più voi dicevate: «ancora, ancora, che mi piace tanto»? Questo non è masochismo, ma è sadismo masochistico patologico.
Vendola ha iniziato a scomparire anche nella sua Puglia, da quando ha cominciato a garantire che non avrebbe creato problemi con un eventuale, anzi certo, governo Monti, che significava anche Casini e Fini. Possibile che non vi siete accorti che vi stavate impiccando da soli, senza aiuto esterno? Berlusconi non c’entra nella vostra perdita, perché Berlusconi non ha vinto e non ha perso. La vostra colpa è solo vostra.
Avete salvato Berlusconi almeno tre volte e anche quando era col rantolo in gola gli avete praticato la respirazione bocca a bocca per farlo risorgere, riuscendoci egregiamente. Avete voluto governare con Monti che ammazzava il vostro popolo e volevate continuare a governare con lui che nulla ha da spartire col l’odore stesso di sinistra. Oggi mi chiedo se anche voi avete qualcosa di sinistra. Per questo vi dico: andate al diavolo, perché quando potevate non avete voluto governare. Quando potevate non avete cambiato la legge elettorale né avete fatto una legge per l’ineleggibilità di Berlusconi, predatore del bene comune e nemico della legalità.
Costui ha promesso la cancellazione dell’Imu e voi avete parlato di «rimodulazione», senza andare a vedere che la gente stava annegando e annaspava perché disperata. Quella legge l’avete votata voi in parlamento. Berlusconi se l’è scrollata di dosso subito, voi no e avete cincischiato. Quando Monti ha messo l’Imu avreste dovuto fare saltare il banco ed essere voi a pretendere di andare alle elezioni. Avete ammazzato il cavallo e pretendevate anche di andarci in groppa. L’ignobile di Arcore ha scaricato su di voi ogni responsabilità di quella indegna tassa. Siete fuori della Storia. Non avete diritto di parola, perché l’avete persa definitivamente.
Invece hanno tenuto in piedi le due anime, assolutamente divise, espresse da Letta e da Bersani, restando bloccati e a mezz’aria. Un po’ con Monti e un po’ con Vendola. Letta vuole Monti e Casini e Fini ad ogni costo; Bersani lo deve subire, pena lo squartamento del partito. Ora Casini e Fini sono scomparsi, Monti è azzoppato, ma «contento» e il PD è alla frutta «ora e nell’ora della morte». Molto centro e poca sinistra, anzi niente. Immobilismo totale, senza programma. Lo stesso giorno della disfatta, Letta, nipote del Letta (il «Nobil Uomo») in tv è andato a parlare contro Grillo e a rimpiangere l’Europa. Non si è reso conto che gli elettori hanno votato contro un’Europa finanziaria che aveva affamato i poveri, ucciso la Grecia e in Italia aveva creato quattro milioni di disoccupati, ma aveva salvato la finanza e gli interessi delle lobby. Questo Letta, perché non lo mandano da suo zio con Berlusconi perché il suo posto è solo lì?
Felice di non aver vinto
Berlusconi è felice di non avere vinto. Il suo scopo non era vincere, perché in questo caso avrebbe dovuto mantenere le promesse fatte, anche solo per finta, e non è in grado. Egli voleva sparigliare e sedersi al tavolo per condizionare sulla giustizia e salvare il suo patrimonio con le frequenze tv. C’è riuscito. Ora alzerà la posta: farà la proposta che governi il PD (l’uomo è pazzo, ma non è scemo) che così deve prendere contatto con Grillo e fargli alcune proposte. Ogni fallimento andrà a carico del PD e non di Berlusconi. Per sé pretenderà la presidenza della repubblica, che non potranno dargli, è ovvio!, ma servirà per avere in cambio il massimo.
L’uomo è esperto in ricatti e lo dimostrerà. Se il PD avesse un minimo di lungimiranza, direbbe al Capo dello Stato attuale: non c’è una maggioranza, noi ci ritiriamo. Non facciamo governi con nessuno. Non possiamo fare inciuci: abbiamo promesso che non avremmo governato mai con Berlusconi e quindi non siamo disponibili, ma non  credo che lo faranno. Hanno paura di governare e quindi tenteranno di fare un governo solo per narcisismo personalistico, credendo di potere stare a galla e per accontentare la nomenclatura. Si autodistruggeranno entro pochi mesi. Premete il tasto «Esc».
Movimento5Stelle
Non ha alcuna intenzione di andare al governo e non smania, anche perché non è pronto per uno tsunami del genere. Nemmeno Grillo si aspettava un successo così enorme: è diventato il primo partito alla Camera e il terzo al Senato, ma solo perché c’è una legge fatta su misura di Berlusconi e della Lega. Altrimenti Grillo sarebbe stato primo anche al Senato. Grillo non ha fretta, ma sta seduto sulla riva ad aspettare i cadaveri dei suoi avversari. Nell’attesa non spenderà un centesimo, non cercherà rendite, ma si godrà il meritato silenzio dell’Aventino e osserverà dall’alto quello che succede tra i folli che Dio ha fatto impazzire.
Il suo risultato grande è questo: avere portato un esercito di oltre 100 deputate e deputati giovani, freschi, appassionati, forse inesperti (impareranno), puliti (almeno per ora) e decisi a scalzare le cariatidi abbarbicate alla poltrona. Nessuno più in Camera e Senato potrà fare quello che vuole, perché ora vi sono i cani da guardia che diranno tutto, sveleranno tutto, impediranno tutto e costringeranno ad abolire la casta che ha resistito contro ogni decenza. Diminuiranno gli stipendi così che molti daranno le dimissioni perché c’erano andati solo per quello.
Si aprono le danze
Cosa succederà ora? Secondo la logica, i passaggi sono obbligati per tutti. A mio parere, avverrà questo:
1.       Il Pd riceverà l’incarico di fare un governo. Lo sventurato accetterà. Berlusconi sarà magnanimo e lascerà fare in attesa di dare la zampata o di scaricare ogni responsabilità, pretendendo per sé il Quirinale. Offrirà la presidenza di una camera a Grillo. Il PD, condizionato, non potrà gestire nulla, assumendosi ogni colpa.
2.       Il PD rifiuta di fare il governo (se fosse furbo, ma non lo è!). L’incarico viene dato al PDL che non accetta (non è scemo). S’incarica una figura terza, da fuori del Parlamento: non può essere Monti che è il grande sconfitto di queste elezioni, così impara a improvvisarsi politicante. Una figura esterna gradita a PDL e PD che traghetti a nuove elezioni, previa riforma elettorale con elezione diretta del capo dello Stato e collegi uninominale a doppio turno (si accontenta la destra e la ex sinistra). In questa ipotesi, Grillo porrà sul piatto la spada di Attila e pretenderà di votare solo queste riforme: riduzione dei parlamentari, abolizione di ogni benefit e grassaggio, fuori dal parlamento chi è inquisito anche in primo grado, fuori tutti dopo due legislature, riduzione dello stipendio. Solo a queste condizioni, egli voterà «una tantum» con questi partiti.
3.       Al momento della fiducia, al Senato, il Movimento5Stelle, esce dall’aula; alla Camera si astiene o esce per dare fisicamente l’immagine plastica di non appartenere alla casta. Voterà solo quelle leggi che vanno nella direzione del suo programma e della distruzione di questa inetta classe dirigente che ha spolpato il paese, riducendolo in macerie. Il Movimento5Stelle farà da becchino ad una legislatura di mezzo, di passaggio di transizione; non voterà quelle leggi e proposte che sono frutto di «compromesso». Sarebbe suicida.
4.       Tra due mesi si voterà per il capo dello Stato. Berlusconi che «concede» il governo a Bersani, pretenderà per sé il Quirinale, sapendo che non potrà riceverlo, ma questo gli serve per alzare la posta e il ricatto. La situazione di stallo dovrà per forza portare all’elezione di una figura «extra», che deve essere gradita a Berlusconi che non transigerà e vorrà garanzie «scritte» sui processi e sulle sue imprese. Il suo scopo è raggiunto. Grillo si asterrà perché non vorrà partecipare alla spartizione. Il PD non potrà proporre un nome proprio. Forse dal cilindro delle impossibilità, salterà fuori Emma Bonino, così sarà contento il card. Ruini e Bertone che non l’hanno voluta alla presidenza del Lazio e ora se la ritroveranno al Quirinale, nel palazzo che fu dei papi. Con la Bonino, Berlusconi tratterà, perché Emma non gli è avversaria, ma spesso gli è attigua come cultura. In questo caso avremmo la Papessa Emma I e ci sarà da ridere.
5.       Grillo si asterrà perché non vorrà partecipare alla spartizione. Grillo ha tutto l’interesse di starsene alla larga da destra e da sinistra, e non farà un governò con alcuno, anche se Bersani gli prometterà metà del suo non-regno. Pur di governare, Bersani offrirà a Grillo anche la pompa di benzina di suo padre (manco più sua), ma senza risultato. Se Grillo accettasse di governare con PD e PDL perderebbe in un solo colpo il consenso che ha raggiunto. E’ suo interesse, e anche interesse del Paese, che non accetti, in attesa che
6.       Fra un anno si vada a votare con una nuova legge, diminuzione di parlamentari, riduzione degli stipendi azzeramento della casta e allora Grillo prenderà il 99%.
Onestà cercasi con rivoluzione
A urne ancora scottanti, infatti, Grillo ha mandato un messaggio chiaro via internet: «Ora l’onestà diventerà normalità». Questa è la vera novità di queste elezioni. Non è detto che sia proprio così male. Senza legalità e moralità non può esserci riforma della società e della politica. Aspettiamo con Speranza e fiducia.
L’Europa stia attenta e i mercati, o meglio, gli speculatori ricordino che in democrazia le elezioni vanno rispettate, chiunque le vinca, se siamo ancora in una parvenza democratica, cosa di cui dubito.
I vescovi italiani meditino e riflettano: il loro impegno e le loro manovre hanno fallito su tutta la linea, come ha fallito il pontificato che finisce in concomitanza. Fallimento totale, irreversibile. Sarebbe ora che dessero tutti le dimissioni per incompetenza profetica e inadeguatezza pastorale.
Una mia cara amica, O. di Padova, mi manda un link che analizza l’origine dei voti di Grillo in Veneto: la Lega ha travasato nel Movimento5Stelle, anche nella Verona di Tosi, e solo in minima parte è rimasta con Berlusconi, segno che hanno stomaco di ghisa. Questo mi preoccupa, perché non sono d’accordo con Grillo che non esiste più «destra» e «sinistra». Purtroppo non abbiamo più né l’una né l’altra e per questo si fa tutto un amalgama indifferente per cui si può cambiare vestito come capita. Bisogna avere una idea di società e di giustizia, di Stato e di mercato che non sono indifferenti. Le proposte di togliere i privilegi ai politici e il pensiero di un assegno di esistenza ai disoccupati  e precari fanno paura alle lobby. I mercati hanno reagito male e lo spread è salito. Proprio per questo bisogna andare a fondo e fare sul serio per dimostrare che tutti hanno diritto di mangiare, bere, dormire e a volte anche divertirsi. Lo spread deve rassegnarsi. In Belgio, manca il governo da anni e l’economia va a gonfie vele.
Alla mia amica faccio notare che questa situazione l’hanno voluta chi come il PD ha espulso i suoi aderenti che erano con le popolazioni della NO-TAV, cioè contro gli sprechi per oggi e per le future generazioni sulle opere inutili e dannose. Chi ha basato la propria politica sullo spreco e sulla iattanza, compreso Vendola che ultimamente parlava come un libro stampato, forbito, ma annaspando senza appigli, ora deve o andarsene o cambiare, ma sarà difficile fare notare il cambiamento perché la gente è imbestialita e nessuno la ferma più. Al Senato ho votato SEL, nello spirito di Salomone, ma vedo che non è servito a niente perché alle prossime elezioni SEL scomparirà del tutto.
Mi limito a fare una lettura della situazione e poiché la storia si scrive con i fatti, i fatti sono questi. Ora bisogna lavorare perché la RIVOLUZIONE vada fino in fondo, eliminando ogni SPRECO, e riportando la POLITICA a vero SERVIZIO e non a strumento di potere per il proprio tornaconto. In questo senso, buon lavoro Movimento5Stelle: nessun accordo con alcuno, specialmente con Berlusconi, non siate teneri, non siate accomodanti, siate il maglio del rinnovamento e poi andiamo di nuovo a votare per eleggere non più di 120 deputati e 70 senatori, compresi i rappresentanti delle Regioni. Togliamo la biada ai mangiapane a tradimento e poi … «vamos a la playa».
Spero e prego che possa avverarsi e io possa vedere questo cambiamento frutto di una rivoluzione senza spargimento di sangue. Senza Grillo, avremmo avuto l’assalto al palazzo d’inverno con le conseguenze che tutti possono immaginare. O no?

Elezioni, Cacciari commenta i risultati: “Sono teste di cazzo, era meglio Renzi”

di Alessandro Ferrucci (Il Fatto Quotidiano)

L'ex sindaco di Venezia, da sempre critico all'interno del Partito democratico, è arrabbiato per l'esito delle urne: "Un disastro, dovevamo puntare su un rinnovamento radicale, invece siamo rimasti a metà". E la colpa è del "gruppo dirigente che circonda Bersani"

Se fossimo stati in televisione sarebbe stato un continuo “bip” “bip” per eliminare parolacce e improperi dalle parole di Massimo Cacciari. Ex sindaco di Venezia, filosofo, da sempre una voce critica all’interno del Partito democratico. È avvelenato. Ci parla con un tono tra l’avvilito di chi lo aveva detto da tempo, e l’arrabbiato di chi non vuole smettere di dirlo. “Senta, è un disastro. Un vero disastro”. Ancora non è definitivo (sono le sei del pomeriggio). “Eccome se lo è. Peggio di così…”
Partiamo dai motivi.
Sono gli stessi da vent’anni, da sempre, da quando perdiamo.
Va bene, mi indichi i principali.
Questa volta dovevamo puntare su un rinnovamento radicale. Dovevamo scegliere dove stare e cosa fare! Non restare a metà.
Nel contesto.
Le cito Kant, quando parlava della somma dell’inerzia…
Nel pratico.
Il Pd è rimasto a metà tra il voler interpretare le spinte arrivate dalla parte di Grillo e quella di strizzare l’occhio al gruppo di Monti e alla sua visione dello Stato e dell’Europa.
Figure politiche antropomorfe.
Come al solito siamo gente affetta da snobismo e da puzza sotto il naso. Come sempre!
Sarebbe stato meglio avere Renzi?
Aspetti. Prima di dire certe cose, legga i risultati locali.
A quali si riferisce, in particolare?
(Qui il tono della voce si alza) Al nord è una catastrofe sia per Pdl che per la Lega! Eppure il centrosinistra non ha fatto un cazzo. Non è cresciuto.
Hanno sottovalutato l’avversario?
Di più, peggio! (il tono cresce ancora, notevolmente) Sono delle teste di cazzo! Loro sanno tutto, loro capiscono tutto. Loro possono insegnare tutto a tutti. Mentre gli altri sono dei cretini.
Quindi?
Le faccio un esempio: è impossibile spiegargli che c’è una questione settentrionale. Eppure continuano a sbatterci la faccia. La loro vita si sviluppa solo tra Botteghe Oscure, il Nazareno e Montecitorio. Del resto non sanno nulla. Gli basta quel triangolo.
Colpa di Bersani?
No. Ma di quel gruppo dirigente che continua a circondarlo. Gente completamente fallita.
A chi si riferisce, in particolare?
Tutti quelli che stanno da sempre lì e che non abbiamo ancora cacciato. Sì, abbiamo sbagliato a non appoggiare Matteo Renzi. È stato un grande errore.
Ora i democratici cosa devono fare?
(Qui cala i toni, diventa quasi più riflessivo) L’unica strategia è mantenere i nervi saldi. E cerchiamo di dialogare in Parlamento con gli eletti nelle liste di Grillo. Se ci riusciamo.

22.2.13

I sondaggi fanno tremare i partiti. Lo scenario di una valanga grillina

 Il Pd teme il calo di Monti: in Senato potrebbe essere ininfluente  (corriere.it)

Si fanno ma non si dicono. E si sfornano in continuazione. Tre alla settimana, almeno per quanto riguarda il centrosinistra. E raccontano tutti - punto in percentuale in più, punto in percentuale in meno - la stessa storia. Grillo è in salita, costante e, apparentemente, inarrestabile. Il Movimento 5 Stelle si è piazzato al secondo posto, giusto dietro il Partito democratico. La forbice tra le due forze politiche è ampia. E non colmabile, ma i dati rivelano che mentre il trend del Pd tende al ribasso, quello dei grillini, al contrario, è in rialzo.
Però non è solo questa la ragione del cruccio del centrosinistra. Non è solo questo il motivo dei pensieri bui dei dirigenti del Partito democratico. A preoccupare i vertici del Pd sono anche i sondaggi che riguardano Monti. Che aprono una prospettiva inquietante. Non è affatto detto, dati alla mano, che il listone del premier riesca a guadagnare al Senato un numero adeguato di seggi. Già, perché se Bersani non riuscirà a ottenere una vittoria piena pure a Palazzo Madama, avrà bisogno come il pane di un gruppo di sostegno montiano. Tradotto in cifre: Scelta civica dovrà ottenere almeno 15, 20 senatori. Tanti ne serviranno, in caso di pareggio, per consentire al Partito democratico di mettere in piedi un governo di centrosinistra.

Peccato che questi numeri non siano, almeno al momento, una sicurezza. I sondaggi infatti raccontano che nelle regioni chiave i montiani arrancano e non riescono a sottrarre voti consistenti al centrodestra. I dirigenti del Pd si sono guardati in faccia con un certo sconcerto, l'altro giorno, quando hanno esaminato i dati segretissimi forniti loro dai sondaggisti. Per forza. Quelle cifre hanno confermato tutti i loro timori: lì dove il Partito democratico va bene, il listone del premier è in affanno. Ergo: non è al centrodestra che il premier toglie i voti. Perciò, detto in parole povere, un Monti che non riesce a fare argine nei confronti delle truppe berlusconiane rischia di servire poco o niente al centrosinistra.

Di più, e di peggio: nelle regioni chiave, quelle in cui centrosinistra e centrodestra combattono la battaglia campale per il Senato, i montiani rischiano di essere ininfluenti. In Lombardia è testa a testa. In Sicilia pure. In Veneto Bersani e i suoi alleati perdono senza possibilità di sorprese dell'ultima ora, mentre in Campania la vittoria è saldamente nelle loro mani e di lì non si sposterà. Ebbene, in queste regioni Monti rischia di non fare comunque la differenza. Il che significa che tutti i calcoli che sono stati fatti finora al Partito democratico vanno rivisti.

«Non avremo mai il mito dell'autosufficienza: i problemi del Paese sono gravi e non si può pensare di risolverli governando con il 51 per cento»: erano queste, fino a qualche settimana fa, le parole che Bersani amava ripetere in tutti i suoi conversari con amici, collaboratori e compagni di partito. Il segretario pensava al Professore, ovviamente. E al suo movimento. E nel Pd si ragionava sulle poltrone da affidare ai cosiddetti centristi. Quella della presidenza del Senato in primis, che un giorno spettava a Monti e quello dopo a Casini. Ma soprattutto quella del Quirinale. Ora è «tutto da rifare», come avrebbe detto Gino Bartali. Per questo Bersani ha lanciato l'occhio sui grillini.

«Nessuna apertura - spiega il segretario, pragmatico come sempre - ma, comunque andranno le elezioni, loro saranno in Parlamento. Perciò, come sta già accadendo in altre regioni dove governiamo, ci rivolgeremo a tutti, e quindi anche a loro. Porteremo i nostri provvedimenti in Parlamento e in quella sede ci confronteremo con le altre forze politiche, grillini inclusi». È un ragionamento, quello di Bersani, che non fa una piega, stando alle dichiarazioni di D'Alema e Renzi. Solo gli ex ppi frenano. Rosy Bindi continua a sparare a palle incatenate contro il comico genovese e Beppe Fioroni spiega: «Grillo è di destra, quella è la sua cultura, quella è la sua deriva e noi con lui non c'entriamo proprio nulla». Un segnale all'indirizzo di Bersani? Già, ma anche di quel Romano Prodi che, stando alle voci dei palazzi della politica, punterebbe sull'apporto dei grillini per arrivare al Quirinale.

Benni: Grillo? altro che fascista lui odia il militarismo

Il vecchio amico: e pensare che gli dissi “sei disimpegnato...”
di Andrea Malaguti (La Stampa)

Stefano Benni, chi è Beppe Grillo per lei?
«Un amico un po’ ingombrante».
Quando vi siete conosciuti?
«Tanti anni fa, tramite Cencio Marangoni il suo impresario, ci trovammo a un ristorante e mi chiese se volevo collaborare con lui».
Come è cambiato da allora?
«Ha trent’anni e trenta chili di più».
Con che criterio scriveva i testi per lui?
«Non ho mai scritto testi per lui nel senso tecnico del termine. Parlavamo, ci scambiavamo qualche idea, oppure lui leggeva un mio pezzo su qualche giornale e prendeva la battute. Non sembrava quasi lavoro, ci divertivamo. Infatti per lo più non mi pagava... ».
Che cosa ha pensato quando è entrato in politica?
«Quando ho visto che da comico un po’ qualunquista stava diventando un comico di contenuti, che aveva voglia di parlare del mondo, sono stato contento, abbiamo fatto un pezzo di strada insieme. Ad esempio Beppe è stato uno dei primi a parlare in scena della catastrofe climatica, dello strapotere delle banche e della finanza, del problema delle carceri. Allora era controinformazione, non ricerca di voti. Poi un po’ alla volta ha scoperto il web e ha voluto entrare nel mondo del consenso politico. Ho rispettato la sua scelta, ma lì le nostre strade si sono allontanate».
Qual è stato il ruolo della televisione nella sua carriera?
«Penso gli abbia dato molto in fretta un’immensa notorietà. Ma la sua vocazione è teatrale, a contatto col pubblico, lì diventa un animale, gode».
Perché adesso rifiuta la tv?
«E’ l’unica cosa in cui mi ha dato retta in tanti anni ».
Con Sky prima ha accettato l’intervista, poi ha detto no.
«Non ho capito bene cos’è successo, certose aveva detto di sì doveva andarci. Penso che abbia deciso che, a questo punto, era meglio la piazza. Mi sembra che tutti i politici improvvisamente abbiano capito che la televisione non è più il centro di tutto».
Grillo è un dittatore, un rivoluzionario o un uomo qualunque molto arrabbiato?
«Non sta in nessuna di queste definizioni. E’ molto sicuro e aggressivo col pubblico, in privato è pieno di dubbi e ha bisogno di amici, come tutti. Non vive solo di politica, anche se sembra».
Non è un fascista?
«No. In tanti anni lo ho sentito parlare con orrore della militarismo, della propaganda, della violenza contro i deboli. Non può essere cambiato in pochi mesi. Si ripresenta Berlusconi e abbiamo il coraggio di dire che il pericolo per la democrazia è Grillo? ».
Fascista no, sfascista?
«Beppe ha capito che se spara cannonate prende voti. Non ha inventato lui questo metodo, lui lo sfrutta a volte con abilità, a volte meccanicamente e con superficialità. E’ un difetto che accomuna satira e politica: pensiamo che più gridiamo, più diciamo la verità. Non è così: la vera indignazione è calma e dolorosa, non esibita. Dopo le elezioni, Beppe dovrà avere il coraggio di cambiare, di lasciare da parte gli effetti speciali. Il difficile per lui e per il suo Movimento comincia adesso. Ma credo che se ne rendano benissimo conto.
Grillo è di destra o di sinistra? E la distinzione ha ancora senso?
«Per me sì, per lui molto meno, e su questo abbiamo litigato spesso».
A chi porterà via voti?
«Non capisco la parola “portare via”, in un paese dove la gente cambia idea e dimentica ogni dieci minuti. L’ elettorato di Beppe è molto vario. Chiedete lumi ai diecimila sondaggisti italiani».
Come se lo immagina tra cinque anni?
«Sarà L’imperatore di Tutte le Galassie. naturalmente. E io avrò il granducato di Sardegna e la presidenza della Finmeccanica, me lo ha promesso».
C’è qualcosa che unisce Grillo e Berlusconi?
«Non vedo affinità. Come modello di oratoria Silvio si ispira a Mussolini, Beppe a Jack Nicholson in Shining. E Beppe ha una moglie dolcissima che non gli fa pagare dei miliardi di alimenti».
Il MoVimento 5 Stelle esisterebbe senza di lui?
«Credo di sì. Anzi, dovrà esistere anche senza di lui».
La rete è democratica?
«Schizodemocratica. Ha dentro la democrazia e il potere, l’accesso alle informazioni e lo sfruttamento commerciale, la critica e l’esibizionismo. Ci vorrà tempo per capire dove andrà. Sarà una battaglia tra libertà e controllo. Ho molta paura delle multinazionali dei dati. Mi piace come lavorano certi hacker, è un nuovo tipo di intelligenza critica che io non ho».
Che battuta scriverebbe oggi per Grillo?
«Accidenti al giorno che ti ho detto: sei un comico troppo disimpegnato».
Ultima cosa. Lei lo vota ?
«Non dico mai per chi voto. L’unica volta che l’ho fatto, con Cofferati, ho preso una gran fregatura».

21.2.13

Con le battute non si governa

Beppe Severgnini (Corriere)

Comunque vada e chiunque vinca, saranno ricordate come le elezioni di Beppe Grillo. Citarne gli alleati non significa sminuirne l'abilità. Perché non c'è dubbio: la campagna elettorale del Movimento 5 Stelle è stata condotta, con metodo e determinazione, dagli avversari. Ogni volta che un'amministrazione affogava nei debiti e negli scandali, ogni volta che una banca si copriva di vergogna, ogni volta che un partito sperperava denaro pubblico, cosa facevano gli elettori? Registravano mentalmente la casa politica dei responsabili. E concludevano: basta, di questa gente non se ne può più. Tutti i leader dei movimenti di protesta sognano d'essere scelti e votati per il programma: ma non è così. O è vero solo in parte. Il sostegno al Movimento 5 Stelle somiglia a quello che ha portato in alto la Lega, vent'anni fa. Molti elettori di Umberto Bossi erano disposti a sorvolare sulle sue fanfaronate; e sapevano poco di federalismo. Capivano però che la Lega era nuova, ed era invisa al potere politico del tempo. Qualcosa del genere è accaduto di nuovo nel 1994: un voto a Forza Italia, a qualcuno, è sembrato un voto contro il sistema dei partiti che aveva prodotto Tangentopoli.

Questo è un merito di Beppe Grillo: aver sottratto voti all'astensione. Il Movimento 5 Stelle - piaccia o non piaccia - sta fornendo un canale di sfogo alla rabbia e alla frustrazione. I partiti tradizionali non sono stati capaci di indicarne un altro. Non solo. Se abbiamo evitato sassi e bastoni in campagna elettorale è anche grazie a Grillo. A questo siamo ridotti: a dover lodare il confuso populismo.

Perché di questo si tratta. Il guru - che non è candidato - rifiuta le interviste perché non sarebbe facile, da solo e senza suggeritori, difendere certe affermazioni, o spiegare il proprio generico programma. «Uscire dall'euro». E come, di grazia? «Introdurre un sussidio di disoccupazione garantito». Con che soldi? «Investimenti nella ricerca universitaria». Bene, ma non è il caso di essere precisi? Un conto è adattare un copione, di piazza in piazza; un altro offrire piani realistici e rispondere a ragionevoli obiezioni. Ci sono poi gli eletti del Movimento 5 Stelle, che saranno numerosi, e con cui dovremo fare i conti. È vero, far peggio di alcuni parlamentari uscenti appare impossibile. Ma il dubbio rimane. Le «Parlamentarie», con cui sono stati scelti, hanno coinvolto 32 mila persone: un numero irrisorio. Prendiamo l'Umbria, dove sono passato nel mio viaggio politico e ferroviario da Trieste a Trapani. Tiziana Ciprini, con 84 preferenze è stata la più votata tra gli 81 candidati, ed è capolista alla Camera. Ha 37 anni, una laurea in Psicologia ed è dipendente della Regione. Tra le sue proposte, al primo posto: «Rivoluzione culturale: abbandono del sistema della delega e del menefreghismo civico e promozione di sistemi, metodi e stili di vita basati sulla partecipazione». Mah.

C'è un aspetto scenografico e narcisistico, nella dirigenza politica italiana: c'è sempre stato. L'opinione pubblica non solo lo accetta, ma lo invoca, rinunciando alle precauzioni elementari in una democrazia. Pretendiamo invece dettagli, assicurazioni, spiegazioni. Chi non risponde in campagna elettorale - ai potenziali elettori, ai giornalisti, alle critiche - non risponderà mai più. Vladimir Ilyich Lenin, nel 1923, poteva emettere il «comunicato politico numero cinquantatré»; non Beppe Grillo nel 2013. I leader carismatici devono essere controllati, per il nostro e per il loro bene. Se rinunciamo a farlo, aspettiamoci amare sorprese.

11.2.13

Le ansie dei piccoli imprenditori in quelle piazze piene di rabbia

Dario Di Vico (corriere.it)

Le piazze piene di Vicenza e Treviso dei giorni scorsi sono il segno inequivocabile che sta prendendo corpo un'Opa di Beppe Grillo sul mondo dei Piccoli. I primissimi segnali di uno sganciamento degli artigiani dal Pdl e di un'attenzione verso il Movimento 5 Stelle risalgono a una ricerca sugli orientamenti politici e valoriali del ceto medio produttivo realizzata nel novembre 2011 da Roberto Weber e commissionatagli dal responsabile economico del Pd, Stefano Fassina. Da allora il feeling tra il mondo dei piccoli produttori e Grillo è stato una sorta di fiume carsico e il movimento non si è dato particolarmente da fare per aggiornare la propria piattaforma programmatica.
Tuttavia il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, al momento di formare la giunta comunale pensò bene di affidare l'assessorato alle Attività Produttive a Cristiano Casa, presidente di CentopercentoPmi, una piccola organizzazione di rappresentanza degli artigiani. Ora però in prossimità dell'apertura delle urne siamo davanti a un'accelerazione e non a caso per parlare con gli artigiani in un albergo del Trevigiano si è scomodato sabato scorso persino Gianroberto Casaleggio, che in fondo è un piccolo imprenditore. Grillo da solo evidentemente non se l'è sentita e ha voluto che ci fosse vicino a sé qualcuno del mestiere.
Come che sia, sta accadendo che una parte del consenso forza-leghista dei Piccoli si va dirigendo verso il Movimento 5 Stelle, che in questo momento sembra il contenitore più credibile per ospitare transitoriamente l'individualismo anti-statalista e un po' anarchico del popolo del Nord Est. Forse più di un vero feeling politico-culturale possiamo parlare di una continuità antropologica tra il celodurismo leghista e il Vaffa del comico genovese. Secondo un sondaggio effettuato dalla Confartigianato di Treviso tra i piccoli imprenditori locali Grillo vale il 22,5% e la coalizione di centrodestra 38%. Per capire la vastità dello smottamento occorre ricordare che solo qualche anno fa tra gli artigiani il forza-leghismo portava a casa l'80% dei consensi. C'è un mondo nordestino, quindi, che è particolarmente veloce nel captare i mutamenti e assecondarli, è stato così nel contrastato passaggio di consegne tra Giancarlo Galan (Pdl) e Luca Zaia (Lega Nord) e appare con gli stessi termini oggi che Beppe Grillo riempie le piazze venete. Guai però a catalogare il tutto sotto il segno di un trasformismo localistico e trattarlo con la puzza sotto il naso. Dietro gli spostamenti elettorali c'è un mondo che si sente schiacciato verso il basso, che avversa la Ue e la globalizzazione, si fida solo del suo commercialista e combina lo «stress da competizione» con un perdurante senso di inadeguatezza personale. A determinare o meno il successo di Grillo poco importa che i candidati del movimento siano relativamente in sintonia con i Piccoli, le loro parole d'ordine testimoniano di una cultura minimalista, alternativa per definizione ed ecologista, che si ibrida con il mondo dei Piccoli solo quando professa le virtù di un localismo a kilometro zero. Non certo quando celebra le virtù della decrescita o si oppone agli inceneritori. Una dimostrazione se vogliamo viene da Parma (anche se il contesto sociale è molto differente da Treviso) dove l'elettorato borghese di centrodestra aveva scelto alle Comunali del 2012 Pizzarotti e oggi assiste sbigottito alle sue piroette da dilettante allo sbaraglio.
Se poi vogliamo c'è da sottolineare un altro paradosso in questa storia. Il Pd capisce (via Weber) prima degli altri cosa sta succedendo nel mondo artigiano ma non riesce a giovarsene quasi per nulla. Il forza-leghismo cede nei suoi legami popolari e un centrosinistra che fosse veramente laburista dovrebbe approfittarne a piene mani. E invece no. Scegliendo l'abbinamento con Nichi Vendola e Susanna Camusso il laburismo alla Fassina scinde il lavoro dall'impresa e questo segnale basta all'ex-elettorato del centrodestra per decidere di schivare il Pd e rivolgersi a Grillo. La retorica del «bene comune» non abita qui e tantomeno suscita emozione l'idea di rilanciare l'Iri così in voga tra gli intellettuali vicini a Pierluigi Bersani. Non siamo più al tempo (2008) in cui il giornalista Marco Alfieri, con il suo libro, ammoniva i dirigenti del Pd che «il Nord era terra ostile» ma ancora in questa campagna elettorale si vede a occhio nudo che al partito-lepre mancano i Chiamparino e i Cacciari, personaggi capaci di interpretare la questione settentrionale di prima mano e non per sentito dire. Certo, nel camper ci sarebbe Matteo Renzi ma, se continua a parlare sempre di Firenze e delle sue magnifiche tradizioni, sopra il Po finirà per non servir a niente anche lui.

Quel voto di scambio che uccide la democrazia

Riparte il mercato delle preferenze, ecco come si controlla. Schede ballerine e voti a 50 euro. Così mafia e 'ndrangheta fanno eleggere i loro candidati
di ROBERTO SAVIANO

UNA parte consistente di Italia vota politici che poi disprezza. Una fetta consistente di voti viene direttamente controllata con un meccanismo scientifico e illegale. Il più importante e probabilmente il più difficile da analizzare, quello con cui i partiti evitano sistematicamente di fare i conti: il voto di scambio. A noi sembra di vivere in attesa di un perenne punto di svolta e in questo clima di incertezza siamo portati a pensare che il disagio creato dalla crisi economica, dalla corruzione politica, dalla cattiva gestione delle istituzioni, da venti anni di presenza di Berlusconi non potrà continuare ancora a lungo. Gli osservatori internazionali continuano ad augurarsi che gli italiani prenderanno finalmente coscienza di ciò che gli è accaduto, di tutto quello che hanno vissuto. E prenderanno le dovute misure. Che ne trarranno le giuste conseguenze. Che non cadranno negli stessi errori, nelle stesse semplificazioni. Ci si convince sempre di più di essere a un passo dal cambiamento perché le persone ovunque - in privato e negli spazi pubblici: dai bus ai treni, dai tram ai bar, dai ristoranti a chi viene intervistato in strada - appaiono stanche, disgustate. Vorrebbero fare piazza pulita, ma si trovano al cospetto di un sistema che ha tutti gli anticorpi per rimanere immutabile. Per restare sempre uguale a se stesso. Per autoconservarsi.

Esistono due tipi di voto di scambio. Un voto di scambio criminale ed un voto di scambio che definirei "acceleratore di diritti". In un paese dai meccanismi istituzionali compromessi, la politica diventa una sorta di "acceleratore di diritti", un modo - a volte l'unico - per ottenere ciò che altrimenti sarebbe difficile, se non impossibile raggiungere. Per intenderci: ci si rivolge alla politica per chiedere, talvolta elemosinare favori. Per pietire ciò che bisognerebbe avere per diritto. Mentre altrove nel mondo si vota un politico piuttosto che il suo avversario per una visione, un progetto, perché si condividono i suoi orientamenti politici, perché si crede al suo piano di innovazione o conservazione, qui da noi - e questo è evidente soprattutto sul piano locale - non è così. In un contesto come il nostro, programmi e dibattiti, spesso servono a molto poco servono alle elite, alle avanguardie, ai militanti. A vincere, qui da noi, è piuttosto il voto utile a se stessi.

IL DISPREZZO PER LA POLITICA
In breve, una grossa fetta di Italia che nei sondaggi e nelle interviste si esprime contro vecchi e nuovi rappresentanti politici, spesso vota persone che disprezza, perché unici demiurghi tra loro e il diritto, tra loro e un favore. Li disprezza, ma alla fine li vota. Questo meccanismo falsa completamente la consultazione elettorale. Perché a causa della sfiducia nella politica, pur di ottenere almeno le briciole di un banchetto che si immagina lauto e al quale non si è invitati, si è pronti a dare il proprio voto a chi promette qualcosa o a chi ha già fatto a sé o alla propria famiglia un favore. I vecchi potentati politici anche se screditati oggi possono contare su centinaia di assunzioni pubbliche o private fatte grazie alla loro mediazione e da questi lavoratori avranno sempre un flusso di voti di scambio garantito. In questo senso è fondamentale votare politici di navigata presenza perché sono garanzia che quel diritto o quel favore promesso verrà dato. In questa campagna elettorale, come nelle scorse, non si è parlato davvero di come "funziona" il voto di scambio, di come l'Italia ne sia completamente permeata. La legge recentemente approvata in materia di contrasto alla corruzione, sul punto, è assolutamente insufficiente. L'elettore, promettendo il proprio voto, ha la sensazione di ricavare almeno qualcosa: cinquanta euro, cento euro, un cellulare. Poca roba, pochissima: in realtà perde tutto il resto. La politica dovrebbe garantire ben altro. La capacità effettiva di ripensare un territorio, non certo l'apertura di un circolo per anziani o un posto auto. In cambio di una sola cosa, il politico che voti ti toglie ciò che sarebbe tuo diritto avere.

Ma è ormai difficile far passare questo messaggio, anche tra gli elettori più giovani. Sembra tutto molto semplice, ma è difficile far comprendere a chi si sente depauperato e privato di ogni cosa che il modo migliore per recuperare brandelli di diritti non è svendere il proprio voto per un favore. È tanto più difficile perché spessissimo ciò che l'elettore si trova costretto a chiedere come fosse un favore, sarebbe invece un suo diritto, il cui adempimento non è impedito, ma è fortemente (e a volte artificiosamente) rallentato dal mal funzionamento delle Istituzioni. Qui non si sta parlando di persone che truffano o di comportamenti sleali, ma di chi ha difficoltà a vedersi riconosciuta una pensione di invalidità necessaria a sopravvivere, o l'assegnazione di un alloggio popolare piuttosto che un posto in ospedale cui avrebbe diritto. Il disincanto si impossessa delle vittime delle lentezze burocratiche, che presto comprendono che per velocizzare il riconoscimento di un diritto sacrosanto devono ricorrere al padrino politico, cui sottostare poi per un tempo lunghissimo, a volte per generazioni, come accadeva con i vecchi capi democristiani in Campania e nel Sud in generale. Lo stesso accade talvolta per l'ottenimento di una licenza commerciale o per poter ottenere i premessi necessari alla apertura di un cantiere. Diritti riconosciuti dalla legge il cui esercizio, da parte del cittadino, necessita di una previa mediazione politica. E la politica di questo si è nutrita. Di questo ricatto. Ribadisco: non sto parlando di chi non merita, di chi non ha i requisiti, di chi sta forzando il meccanismo legale per ottenere un vantaggio, ma di chi avrebbe un diritto e non è messo in condizione di goderne.

Questo muro di gomma ostacola qualunque volontà di rinnovamento, poiché a giovarne nell'urna sarà sempre e soltanto il vecchio politico e la vecchia politica, non il nuovo. Il vecchio che ha rapporti. Per comprendere i meccanismi di voto di scambio, la Campania è una regione fondamentale, insieme alla Sicilia e alla Calabria. Da sempre, dai tempi delle leggendarie campagne elettorali di Achille Lauro, che dava la scarpa sinistra prima del voto e quella destra dopo. Ma nel resto d'Italia non si può dire che le cose vadano diversamente. Insomma, il meccanismo è rodato, perfettamente rodato e si interrompe solo quando il proprio voto viene percepito come prezioso, come importante per il cambiamento, tanto che non te la senti di svenderlo anche per ottenere ciò che per diritto ti sarebbe dovuto. E ancora una volta, questa campagna elettorale, in pochissimi ambiti si sta declinando sulle idee, quanto piuttosto su un generico rinnovamento a cui il Paese non crede. Più spesso si risponde con rabbia: tutti a casa, siete tutti uguali. L'allarme consistente sul voto di scambio in queste ore è in Lombardia.

A SPESE DEGLI ELETTORI
Ma su chi accede alla politica distrattamente, fa leva il politico di vecchio corso, pronto a riceverti nella sua segreteria e a mantenere la promessa fatta a carica ottenuta. Il politico che non dimentica perché ha un apparato che vive a spese degli elettori, un apparato che è un orologio svizzero: unica cosa perfettamente funzionante in una democrazia claudicante. Ecco perché è sbagliato sottovalutare la capacità berlusconiana non di convincere, ma di riattivare e di rendere nuovamente legittima questa capacità clientelare. Berlusconi non va in tv convinto di poter di nuovo persuadere, ma ci va con la volontà di rinfrescare la memoria a quanti hanno dimenticato la sua capacità di ricatto. Ci va per procacciarsi i numeri sufficienti a garantire, ancora una volta, la totale ingovernabilità del Paese. Ci va perché sa che ingovernabilità significa poter di nuovo contrattare. Quindi ecco le solite promesse: elargirà pensioni, toglierà tasse e, se anche non ci riuscisse, chiuderà un occhio, strizzandolo, a chi non ne può più. Berlusconi va a ribadire che gli altri non promettono nulla di buono. A lui non serve convincere di essere la persona giusta. A lui basta convincere i telespettatori che gli altri sono l'eterno vecchio e lui l'eterno nuovo. Nel momento in cui, quindi, non esiste un'idea di voto che cambi il paese, riparte il meccanismo della clientela. Dall'altra parte, la sensazione è che si preferisca campare di rendita. I "buoni" votano a sinistra. E su questi buoni si sta facendo troppo affidamento. Della pazienza di questi buoni si sta forse abusando. Se, intercettando un diffuso malcontento, Berlusconi promette la restituzione dell'Imu e un condono tombale, dall'altra parte non si fanno i conti con una tassazione ai limiti della sopportazione. Da un lato menzogne, dall'altro nessuna speranza, silenzio. E i sondaggi rispecchiano questa situazione. Rispecchiano quella quantità abnorme di delusi che solo all'ultimo momento deciderà per chi votare e deciderà l'esito. E su molti delusi il voto di scambio inciderà negli ultimi giorni.

Ogni partito in queste elezioni, come nelle precedenti, ci ha tenuto a conservare i suoi rapporti clientelari. Ecco perché gli amministratori locali sono così importanti: sono loro quelli che possono distribuire immediatamente lavoro. È nel sottobosco che si decidono le partite vere, che si fanno largo i politici disinvolti, quelli che risolvono i problemi spinosi, permettendo a chi siede in Parlamento di evitare di sporcarsi. E qui si arriva al voto di scambio mafioso che segue però logiche diverse. Le organizzazioni, nel corso degli anni, hanno cambiato profondamente il meccanismo dello scambio elettorale. Il voto mafioso degli anni '70 e '80 era in chiave manifestamente anticomunista, tendeva a considerare il Pci come un rischio per l'attenzione che dava al contrasto alle mafie sul piano locale, ma soprattutto perché toglieva voti al partito di riferimento, che è a lungo stato la Dc. Lo scopo era cercare di convogliare la maggior parte dei voti sulla Democrazia cristiana, voti che il partito avrebbe ottenuto ugualmente - è importante sottolinearlo - ma il ruolo delle organizzazioni era fondamentale per il voto individuale. Diventavano dei mediatori imprescindibili. Carmine Alfieri e Pasquale Galasso, boss della Nuova Famiglia, raccontano di come negli anni '90 non c'era politico che non andasse da loro a chiedere sostegno perché quel determinato candidato potesse ottenere una quantità enorme di voti. La camorra anticipava i soldi della costosa campagna elettorale per manifesti, per acquistare elettori, soldi che il partito al candidato non dava. In cambio i clan sarebbero stato ripagati in appalti.

Mister 100 MILA VOTI
La storia di Alfredo Vito "Mister centomila voti", impiegato doroteo dell'Enel che prende negli anni '90 più voti di ministri come Cirino Pomicino e Scotti, applica una teoria che fa scuola al suo successo. "Do una mano a chi la chiede": ecco la sintesi della logica che condiziona la campagna elettorale. I veri mattatori delle elezioni non erano - e non sono - quasi mai nomi conosciuti sul piano nazionale, ma leader indiscussi sul piano locale. Questo dà esattamente la cifra di cosa poteva accadere, della capacità che le organizzazioni avevano di poter convogliare su un determinato candidato enormi quantità di voti. E non è la legge elettorale in sé a poter ostacolare gli esiti nefasti del voto di scambio, che è frutto evidentemente di arretratezza economica e quindi culturale. La dimostrazione di questa sostanziale ininfluenza è data dal fatto che, se da un lato la selezione operata dai partiti non consente al cittadino di poter scegliere i propri rappresentanti, favorendo viceversa il "riconoscimento di un premio" per chi si è sobbarcato il gioco sporco dello scambio elettorale a livello locale, dall'altro, la scelta diretta del candidato - in un sistema che rifugge la trasparenza quasi si trattasse di indiscrezione - trasforma la competizione elettorale in una mera questione di budget, nella quale la capacità di acquisto dei voti diviene determinante.

Oggi, la maggior parte delle organizzazioni criminali sostengono anche candidati non utili ai loro affari, semplici candidati che hanno difficoltà a essere eletti. Vendono un servizio. Vai da loro, paghi e mettono a tua disposizioni un certo numero di voti (emblematico il caso di Domenico Zambetti, che avrebbe pagato 200 mila euro per ottenere 4 mila voti alle elezioni del 2010). Questo significa che puoi anche non essere eletto le organizzazioni ti garantiscono solo un pacchetto di voti non tutto il loro impegno elettorale di cui sarebbero capaci. In alcuni casi candidano direttamente dei loro uomini in questo caso in cambio avranno accesso alle informazioni sugli appalti, avranno capacità di condizionare piani regolatori, spostare finanziamenti in settori a loro sensibili, far aprire cantieri, entrare nel circuito dei rifuti dalla raccolta alle bonifiche delle terre contaminate (da loro).

Con un pacco da cento di smartphone si ottengono 200 voti in genere. Quello della persona a cui va lo smartphone e quello di fidanzati o familiare.
Spese pagate ai supermercati per un due settimane/un mese. Sconti sulla benzina (fatti soprattutto dalle pompe di benzina bianche). Bollette luce, gas, telefono pagate. Ricariche telefonini. Migliaia di voti saranno raccolti con uno scambio di questo tipo.

Difficilissimo da dimostrare siccome chi promette è raramente in contatto con il politico. Quindi anche se il mediatore è scoperto questi dirà che era sua iniziativa personale per meglio comparire agli occhi del politico aiutato escludendolo quindi da ogni responsabilità nel voto di scambio. Nel periodo delle elezioni regionali 2010, la Direzione distrettuale antimafia di Napoli ha aperto un'indagine sulla compravendita di voti. In Campania i prezzi oscillerebbero da 20 a 50 euro, 25 subito e 25 al saldo, cioè dopo il voto. In alcuni casi i voti vengono venduti a pacchetti di mille. Praticamente c'è una specie di organizzatore che promette al politico 1000 voti in cambio di 20.000 o 50.000 euro. Questa persona poi ripartisce i soldi tra le persone che vanno a votare: pensionati, giovani disoccupati. In Campania un seggio in Regione può arrivare a costare fino a 60.000 euro. In Calabria te la cavi con 15.000. Con 1000 euro in genere un capo-palazzo campano procura 50 voti. Il capo-palazzo è un personaggio non criminale che riesce a convincere le persone che solitamente non vanno a votare a votare per un tal politico. E come prova del voto dato bisogna mostrare la foto della scheda fatta col telefonino. In Puglia un voto può arrivare a valere 50 euro, lo stesso prezzo a cui può arrivare anche in Sicilia. A Gela proposto pacchetti di 500 voti a 400 euro. 400 euro per 500 voti: 80 centesimi a voto!

IL MECCANISMO PRINCIPE
E poi c'è il il meccanismo principe con cui si controllano i voti e si paga ogni singolo voto lo si ottiene con il metodo della "scheda ballerina". L'elettore che vuole vendere il proprio voto va dal personaggio che paga i voti riceve la scheda elettorale già compilata (regolare fatta uscire dal seggio) se la mette in tasca poi va al seggio, presenta il proprio documento di riconoscimento e riceve la scheda regolare. In cabina sostituisce la scheda data già compilata con la scheda che ha ricevuto al seggio, che si mette in tasca. Esce dalla cabina elettorale e vota al seggio la scheda precompilata. Poi va via. Torna dà la scheda non votata e riceve i soldi. La scheda non votata e consegnata viene compilata, votata, e data all'elettore successivo, che la prende e torna con una pulita. E avrà il suo obolo. 50 euro, 100 euro, 150 o un cellulare. O una piccola assunzione se è fortunato. Così si controlla il voto. Nessuno ha parlato di questo meccanismo, la scheda ballerina non ha interessato il dibattito elettorale. Eppure è più determinante di una tassa, più incisiva di una riforma promessa, più necessaria di una manovra economica.
In questa campagna elettorale, come in tutte le precedenti, non si è fatto alcun riferimento al voto di scambio sia come "acceleratore di diritti" sia quello criminale. Avrebbero dovuto esserci spot continui, articoli diffusi, che sensibilizzassero gli elettori a non vendere il proprio voto, a non cedere alle promesse di scambio. Si sarebbero dovuti sensibilizzare gli elettori a non decidere gli ultimi giorni di voto in cambio di qualche favore. Ma se non lo si è fatto significa che in gioco ci sono interessi enormi che andrebbero analizzati caso per caso. Nel 2010 provocando da queste queste stesse pagine invocammo l'OSCE (l'organizzazione per la sicurezza in Europa, ndr) a controllo del voto regionale mostrando come il voto di scambio fosse tritolo sotto la democrazia. L'OSCE non recepì l'appello come una provocazione ma come un serio allarme e rispose di essere disponibile ad intervenire e controllare il voto. Ma doveva essere invitata a farlo dal governo. Cosa che non fu fatta.

Con queste premesse, chi può dire cosa accadrà tra qualche giorno? Il monitoraggio sarà come sempre blando, affidato a singole persone o a gruppi isolati che denunceranno irregolarità. Ma dove nessuno vorrà farsi garante di trasparenza, chi verrà a dirci come si saranno svolte le elezioni? E ad oggi nessuno schieramento ha affrontato il tema del voto di scambio. Terribile nemico o fenomenale alleato?

6.2.13

Se pure Keynes è un estremista

BARBARA SPINELLI - la Repubblica

I principi che ci governano, il Fondo Monetario, i capi europei che domani si riuniranno per discutere le future spese comuni dell’Unione, dovrebbero fermarsi qualche minuto davanti alla scritta apparsa giorni fa sui muri di Atene: «Non salvateci più!», e meditare sul terribile monito, che suggella un rigetto diffuso e al tempo stesso uno scacco dell’Europa intera. Si fa presto a bollare come populista la rabbia di parte della sinistra, oltre che di certe destre, e a non vedere in essa che arcaismo anti-moderno.
A differenza del Syriza greco le sinistre radicali non si sono unite (sono presenti nel Sel di Vendola, nella lista Ingroia, in parte del Pd, nello stesso Movimento 5 Stelle), ma un presagio pare accomunarle: la questione sociale, sorta nell’800 dall’industrializzazione, rinasce in tempi di disindustrializzazione e non trova stavolta né dighe né ascolto. Berlusconi sfrutta il malessere per offrire il suo orizzonte: più disuguaglianze, più condoni ai ricchi, e in Europa un futile isolamento.
Sul Messaggero del 30 gennaio, il matematico Giorgio Israel denuncia l’astrattezza di chi immagina «che un paese possa riprendersi mentre i suoi cittadini vegetano depressi e senza prospettive, affidati passivamente alle cure di chi ne sa». Non diversa l’accusa di Paul Krugman: i governanti, soprattutto se dottrinari del neoliberismo, hanno dimenticato che «l’economia è un sistema sociale creato dalle persone per le persone». Questo dice il graffito greco: se è per impoverirci, per usarci come cavie di politiche ritenute deleterie nello stesso Fmi, di grazia non salvateci. Non è demagogia, non è il comunismo che constata di nuovo il destino di fatale pauperizzazione del capitalismo. È una rivolta contro le incorporee certezze di chi in nome del futuro sacrifica le generazioni presenti, ed è stato accecato dall’esito della guerra fredda.
Da quella guerra il comunismo uscì polverizzato, ma la vittoria delle economie di mercato fu breve, e ingannevole. Specie in Europa, la sfida dell’avversario aveva plasmato e trasformato il capitalismo profondamente: lo Stato sociale, il piano Marshall del dopoguerra, il peso di sindacati e socialdemocrazie potenti, l’Unione infine tra Europei negli anni ’50, furono la risposta escogitata per evitare che i popoli venissero tentati dalle malie comuniste. Dopo la caduta del Muro quella molla s’allentò, fino a svanire, e disinvoltamente si disse che la questione sociale era tramontata, bastava ritoccarla appena un po’.
È la sorte che tocca ai vincitori, in ogni guerra: il successo li rende ebbri, immemori. Facilmente degenera in maledizione. Le forze accumulate nella battaglia scemano: distruggendo il consenso creatosi attorno a esse (in particolare il consenso keynesiano, durato fino agli anni ’70) e riducendo la propensione a inventare il nuovo. Forse questo intendeva Georgij Arbatov, consigliere di politica estera di molti capi sovietici, quando disse alla fine degli anni ’80: «Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico”. Quando nel 2007-2008 cominciò la grande crisi, e nel 2010 lambì l’Europa, economisti e governanti si ritrovarono del tutto impreparati, sorpassati, non diversamente dal comunismo reale travolto dai movimenti nell’89.
È il dramma che fa da sfondo alle tante invettive che prorompono nella campagna elettorale: gli attacchi dei centristi a Niki Vendola e alla Cgil in primis, ma anche al radicalismo della lista Ingroia, a certe collere sociali del Movimento 5 stelle, non sono una novità nell’Italia dell’ultimo quarto di secolo. Sono la versione meno rozza della retorica anticomunista che favorì l’irresistibile ascesa di Berlusconi, poco dopo la fine del-l’Urss, e ancora lo favorisce. Il nemico andava artificiosamente tenuto in vita, o rimodellato, affinché il malaugurio di Arbatov non s’inverasse. Se la crisi economica è una guerra, perché privarsi di avversari così comodi, e provvidenzialmente disuniti? Quando Vendola dice a Monti che occorrerà accordarsi sul programma, nel caso in cui la sinistra governasse col centro, il presidente del Consiglio alza stupefatto gli occhi e replica: «Ma stiamo scherzando?», quasi un impudente eretico avesse cercato di piazzare il suo Vangelo gnostico nel canone biblico. Anche i difensori di Keynes sono additati al disprezzo: non sanno, costoro, che la guerra l’hanno persa anch’essi, nelle accademie e dappertutto?
In realtà non è affatto vero che l’hanno persa, e che lo spettro combattuto da Keynes sia finito in chiusi cassetti. Quando in Europa riaffiora la questione sociale – la povertà, la disoccupazione di massa – non puoi liquidarla come fosse una teoria defunta. È una questione terribilmente moderna, purtroppo. La ricetta comunista è fallita, ma il capitalismo sta messo abbastanza male (non quello della guerra fredda: quello decerebrato e svuotato dalla fine della guerra fredda). Non è rovinato come il comunismo sovietico, ma di scacco si tratta pur sempre.
È un fallimento non riuscire ad ascoltare e integrare le sinistre che in tantissime forme (anche limitandosi a combattere illegalità e corruzione politica) segnalano il ritorno non di una dottrina ma di un ben tangibile impoverimento. Prodi aveva visto giusto quando scommise sulla loro responsabilizzazione, e li immise nel governo. Fu abbattuto dalla propaganda televisiva di Berlusconi, ma la sua domanda non perde valore: come fronteggiare le crisi se non si coinvolge il malcontento, compreso quello morale? Ancor più oggi, nella recessione europea che perdura: difficile sormontarla senza il rispetto, e se possibile il consenso, dei nuovi dannati della terra.
Forse abbiamo un’idea falsa delle modernità. Moderno non è chi sbandiera un’idead’avanguardia. È, molto semplicemente, la storia che ci è contemporanea: che succede nei modi del tempo presente. Se la questione sociale ricompare, questa è modernità e moderni tornano a essere il sindacalismo, la socialdemocrazia, che per antico mestiere tentano di drizzare le storture capitaliste – con il welfare, la protezione dei più deboli. Sono correzioni, queste sì riformatrici, che non hanno distrutto, ma vivificato e potenziato il capitalismo. È la più moderna delle risposte, oggi come nel dopoguerra quando le democrazie del continente si unirono. Non a caso viene dal più forte sindacato d’Europa, il Dgb tedesco, una delle più innovative proposte anti-crisi: un piano Marshall per l’Europa, gestito dall’Unione, simile al New Deal di Roosevelt negli anni ’30.
Dicono che i vecchi rimedi keynesiani – welfare, cura del bene pubblico – accrescono l’irresponsabilità individuale e degli Stati, assuefacendoli all’assistenza. Paventato è l’azzardo morale: bestia nera per chi oggi esige duro rigore. L’economista Albert Hirschman ha spiegato come le retoriche reazionarie abbiano tentato, dal ’700-800, di bloccare ogni progresso civile o sociale (Retoriche dell’intransigenza, Il Mulino). Fra gli argomenti prediletti ve ne sono due, che nonostante le smentite restano attualissimi: la tesi della perversità, e della messa a repentaglio.
Ogni passo avanti (suffragio universale, welfare, diritti individuali) perfidamente produce regresso, o mette a rischio conquiste precedenti. «Questo ucciderà quello», così Victor Hugo narra l’avvento del libro stampato che uccise le cattedrali. Oggi si direbbe: welfare o redditi minimi garantiti creano irresponsabilità. Quanto ai matrimoni gay, è la cattedrale dell’unione uomo-donna a soccombere, chissà perché.
Non è scritto da nessuna parte che la storia vada fatalmente in tale direzione. In astratto magari sì, ma se smettiamo di dissertare di «capitale umano» e parliamo di persone, forse l’azzardo morale diventa una scommessa vincente, come vincente dimostrò di essere nei secoli passati.