“E’ come se d’improvviso avvertissimo un sentimento oscuro di spaesamento, di smarrimento dei nostri punti cardinali, di perdita del peso specifico dei nostri alfabeti, di esodo dagli universi simbolici della nostra vita. E’ come se i nostri pensieri e il nostro fare abitassero sul ciglio di un crepaccio, dentro una frattura del senso delle cose, dentro uno smottamento in cui si schianta tutto lo spazio che abbiamo attraversato e in cui muore tutto il tempo – il tempo sociale, il tempo politico – che ha scandito le nostre storie. Vedevamo il futuro illuminato da una idea, da un sole, da una volontà corale. Oggi vediamo il presente illuminato da tanti roghi in cui bruciano le cose materiali e le cose simboliche: bruciano i nostri boschi insieme alla idea-chiave dei beni comuni e dell’interesse generale; brucia nella sua roulotte un bimbo rom e insieme a lui s’incenerisce una soglia della nostra civiltà e persino un ancestrale sentimento di pietà; brucia la carne giovane del nuovo proletariato della fabbrica planetaria e insieme brucia tutta una storia della coscienza operaia, tutto un mondo del lavoro che aveva, nel corso dell’intero novecento, guadagnato la sua trama di significato sociale, la sua rete di dignità e di diritto.
Ciascuno di questi roghi ha il potere di rivelare il vuoto della politica che si è barricata nel talk-show, la crisi di una discussione pubblica che si trascina stancamente in forma di guerra civile simulata, la perdita di autorevolezza di una sfera politico-istituzionale che appare una replica dell’isola dei famosi. Mentre fuori dalla politica, la società appare come certe spiagge quando c’è la bassa marea: con la battigia sporca di detriti, plastiche e alghe rinsecchite. Se togliamo l’audio al grande blob quotidiano sulla crisi di governo che appare e scompare come una lucina intermittente, sentiamo la voce degli esperti di banalità che danza sulla psiche dei nostri vicini-modello che hanno appena seviziato e straziato la vita di qualcuno, mentre il modello di padre e fratello e figlio perpetua il genio maschile della vitalistica onnipotenza dello stupro, mentre qualcuno dei nostri ragazzini videoregistra, col suo cellulare, un coetaneo che si toglie la vita. Eccoci qua. Sepolta senza elaborazione del lutto e senza rito funebre l’ideologia della speranza, avanza l’ideologia del tubo digerente, del consumo mordi e fuggi, dell’epica del mio ombelico. Sepolti, con una certa furia iconoclasta, i partiti di massa della democrazia novecentesca, avanzano i partiti di cassa organizzati tra le viscere della cronaca nera e l’apologia della televendita. E in questa post-modernità in cui domina la materia e il feticcio della merce, in cui i poteri si concentrano sempre più nello spazio trascendente del mercato mondiale, in cui la vita e la morte diventano accidenti fenomenici della biologia, cosa volete che sia la politica? Un frammento di casta, in un universo di frammenti e di poltiglia, di corporazioni e di lobbies e di residui solidi urbani.
C’è davvero una frattura multipla che racconta i perché del nostro perderci e anche delle nostre perdizioni. Frattura nella condizione di lavoro, appunto: cioè cesura tra il lavoratore e la sua condizione, solitudine tipica del suo contratto atipico, esternalizzazione della sua storia produttiva rispetto a qualunque codice della cittadinanza, precarietà come destino e come identità, il prestatore di braccia e di cervello a un ciclo economico che non intende più assumerlo come un interlocutore sociale ma come un ingrediente meccanico, o al massimo come solitaria risorsa umana o materiale rotabile, rottamabile, magari infiammabile. Del Welfare è questo il nuovo protocollo che non si può accettare: l’espulsione del lavoro dalla terra del diritto sociale e la sua regressione nella palude esistenziale della precarietà. E questo che oggi uccide, uccide metaforicamente quando ti toglie il senso delle cose, e ti uccide letteralmente, ogni giorno, quattro volte al giorno: una orribile morte proletaria che certo fa meno audience dei delitti di provincia consumati tra la noia adolescenziale e la paranoia televisiva.
C’è la frattura nella condizione del vivere urbano, in quella feroce distanza tra il lunapark del centro e l’inferno della periferia, in quella tracimazione del cemento che, alleando rendita fondiaria e speculazione edilizia, immaginò la crescita ipertrofica di città senza comunità, di luoghi senza qualità, di corpi edilizi incontinenti per corpi individuali spezzati e incomunicanti. E la periferia è diventata tutt’altro che un mondo residuale, ma la grammatica generale del vivere associato, anzi del vivere dissociato, il plastico urbano dell’ideologia totalitaria della precarietà.
C’è la frattura nella condizione della famiglia, disarticolata per fasce generazionali, con la fine della coabitazione delle tre generazioni che non mescolano più i loro saperi e le loro esperienze, con gli anziani esternalizzati in luoghi specializzati, gli adulti intenti sulle proprie carriere, l’infanzia affidata all’agenzia educativa del grande fratello o delle piccole chat.
In questa geografia dei nostri territori polverizzati e caotici, in questa antropologia orfana di polis e quindi disperatamente estranea alla politica, c’è un bisogno vitale, direi viscerale, di tornare a porci le domande giuste. Non le risposte giuste, quelle in cui ognuno diventa geloso della propria nostalgia e si presenta come il custode fallimentare della propria identità e della propria bandiera. Le domande giuste. Quelle sui poteri che ergono barriere architettoniche e sociali e culturali per dividere, per separare il genere umano, per dare nevrotiche appartenenze nei recinti angusti del proprio villaggio o della propria tribù o del proprio alfabeto. La precarietà e la nevrosi della sicurezza sono gli ingredienti decisivi dell’egemonia culturale della destra, e cioè del berlusconismo che trascende gli schieramenti politici e diviene lo spirito dei tempi: che celebre la religione della competitività e la liturgia della flessibilità; che è garantista con chi è garantito e giustizialista con chi è già stato giustiziato dal tribunale della globalizzazione; che mistifica le parole fino al punto di immaginare la pace economica in termini di guerra infinita; che vuole indurci nella tentazione della violenza affinché ogni idea di cambiamento (la rivoluzione) possa smarrire e mistificare se stessa.
E’ una società della paura, in cui l’ordine costituito delle corporation divora ogni ordine democratico e lo riduce a fiction televisiva.
Qui serve il coraggio di una nuova nascita. Non la sapienza di chi mette insieme tante piccole cose antiche. Serve che ciascuno e ciascuna lavori per questo cimento del futuro: un parto, un partire, non so se un partito.
Una costituente, non l’equilibrio precario di corpi costituiti. Un soggetto che sappia leggere nel cuore della nostra società, sappia sondarne i fondali melmosi, sappia coglierne il dolore sociale e le domande di senso. Una sinistra che non sia un riassunto, un bignami di ciò che fummo, ma una casa capace di ospitare quelle domande di libertà che chiedono di rompere la gabbia di tutte le precarietà e di tutte le solitudini socialmente programmate. Certo è doloroso uscire da se stessi, si ha paura di dissipare sentimenti e patrimoni messi assieme con tanti sacrifici. Ma è necessario farlo. C’è un verso di Pisolini che mi pare particolarmente adatto a indicare questa nostra condizione sentimentale e politica; dice così “Piange ciò che muta, anche per farsi migliore”. Appunto, compagni e compagne, è il dolore di un parto ma anche la curiosità e l’allegria di una nuova partenza”.
regione.puglia.it
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11.12.07
Nichi Vendola agli Stati generali della Sinistra Arcobaleno di Roma
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