Con l’Europa ci succede un po’ quello che succedeva a Sant’Agostino col tempo: se non gli chiedevano cos’era, credeva di saperlo, ma quando glielo chiedevano gli sembrava di non saperlo più. Il forte ma vago senso di appartenenza all’Europa — a una civiltà comune e ben distinta non solo da quelle di altri continenti, Asia o Africa, ma anche, sia pure in modo assai più sfumato, da quella americana sua discendente — non si lascia definire. Non certo soltanto, ma forse anche per questo il voto per il Parlamento Europeo, nonostante la campagna elettorale, è generalmente euroscettico. È un voto tiepido, perché si elegge un Parlamento che non è proprio veramente tale, nella pienezza dei suoi poteri; nel quale in linea generale non si varano le leggi da cui più dipende il nostro destino. Gli eletti non potranno decidere, almeno direttamente, se pagheremo più o meno tasse, se potremo fare il testamento biologico o no, se la nostra Costituzione sarà o no sfregiata.
In Italia ci si interessa alle prossime elezioni europee pensando non tanto all’Europa, quanto alle ripercussioni che esse avranno sulla politica interna del nostro Paese. Pochi pensano a ciò che, nonostante i limiti che purtroppo vincolano il Parlamento Europeo, gli eletti possono comunque fare in tanti settori, promuovendo o ostacolando misure di grande importanza, lavorando al compimento dell’Unione Europea, che prima o dopo — piuttosto dopo che prima, purtroppo — dovrà divenire la nostra più forte realtà e i cui poteri si spera saranno un bel giorno più importanti, per tutti, di quelli dei singoli governi nazionali, così come oggi il governo dell’Italia mi interessa più di quello della mia pur amata Regione Friuli-Venezia Giulia.
Ma pochi pensano realmente con passione all’Europa, come invece pensavano e sentivano i suoi padri fondatori. In un articolo uscito l’1.5.2009 sul «Piccolo », Ferdinando Camon riportava, ad esempio, alcune dichiarazioni che il ministro Brunetta avrebbe rilasciato a una Miss Veneto poi non ammessa fra le candidate al Parlamento: secondo tali dichiarazioni, il Parlamento Europeo «non conta niente». L’affermazione attribuita al ministro Brunetta è importante, perché sembra riflettere un atteggiamento diffuso, forse anche fra i candidati al Parlamento stesso. Si ha l’impressione che molti di essi conoscano molto meglio i problemi italiani di quelli europei che, se eletti, avranno la responsabilità di affrontare e cercare di risolvere.
Si ha l’impressione, nonostante tante nobili e vaghe dichiarazioni programmatiche, che numerosi candidati al Parlamento Europeo, prima di leggere ad esempio l’articolo di Ivo Caizzi sul «Corriere», non sapessero esattamente che cosa ha fatto la legislatura europea ora trascorsa, di che cosa si è occupata, quali problemi — tariffari, etici, sociali — ha trattato, con successo o meno, e quali problemi concreti attendono al varco la legislatura europea che inizierà tra poco.
È facile fare generiche dichiarazioni sulla cultura o sulla libertà, ma è ben più difficile occuparsi di quegli innumerevoli, ingarbugliati, apparentemente prosaici aspetti in cui la libertà e la cultura si incarnano concretamente.
È strano che, posto che la testimonianza della Miss Veneto riportata da Camon sia attendibile, il ministro Brunetta — dalla faccia feroce quando annuncia licenziamenti, ma dalla lacrima facile quando viene lodato — abbia fatto quelle dichiarazioni sull’irrilevanza del Parlamento Europeo quasi con soddisfazione anziché con tristezza, in quanto, se ciò che egli dice corrispondesse alla realtà, sarebbe la constatazione di un male, che dovrebbe invitare a correggerlo.
Se l’Europa non esiste ancora abbastanza, questa è una disgrazia o almeno una fase di stallo che va superata. Dovremmo sentirci, armoniosamente e con altrettanta intensità, europei ed italiani nello stesso modo in cui ci sentiamo — a parte qualche ringhioso botolo di provincia, incapace di guardare oltre la sua cuccia — italiani e lombardi o marchigiani.
Non occorre scomodare Mazzini, Croce o Curtius, che ci hanno insegnato l’unità spirituale, culturale dell’Europa. C’è una realtà materiale ancora più importante. Oggi i problemi che ci investono coinvolgono l’Europa intera, dalla crisi finanziaria alla pressione dell’immigrazione; così come l’economia di Milano non può crollare senza ripercuotersi su Bologna o su Bari, ogni singolo Stato trascina in parte con sé, nel bene e nel male, tutti gli altri e ne è trascinato. Sarebbe ridicolo che l’immigrazione fosse regolata a Taranto da leggi diverse da quelle in vigore a Genova ed è ormai ridicola una politica diversa a Parigi e a Berlino rispetto ai problemi che interessano tutti gli europei. Se la realtà materiale, per tutti, è europea, essa deve tradursi, prima o poi, in una realtà politica anche formale ben più forte e compatta di quella attuale, che riduca i singoli Stati a funzioni sostanzialmente regionali, peraltro assai importanti.
L’Europa fonda la sua civiltà, rispetto ad altre pure grandi, sul primato dell’individuo rispetto alla totalità e perciò è stata la madre del liberalismo e della democrazia. A differenza di alcuni cugini d’oltre Atlantico, la valorizzazione europea dell’individuo non è l’esaltazione del cowboy che basta a se stesso e si fa giustizia da sé, bensì dell’individuo quale «animale politico», come diceva Aristotele, che si pone in relazione con la società e si sente responsabile della sorte di tutti i componenti della Polis, perché sa che il suo benessere esige, per essere veramente vissuto e goduto, il benessere o almeno la decenza di chi gli vive intorno. In tal senso, il socialismo è profondamente europeo e le civiltà o gli Stati che non hanno conosciuto il socialismo (s’intende quello democratico) non sono europei. Sono, possono e debbono essere nostri buoni vicini, ma non sono noi.
L’esigenza di un futuro vero Stato europeo e la fiducia nel suo avvento non escludono lo scetticismo circa i tempi e le difficoltà della sua necessaria realizzazione. Ci saranno regressivi rigurgiti di egoismi nazionali, paure fondate e infondate che ostacoleranno le iniziative più preveggenti, meschinità, elefantiasi burocratiche, scontri fra particolarismi, difese di privilegi e anche di enti e istituzioni inutili e costose. Chi crede nell’Europa sarà contento se si farà ogni tanto un passo avanti e mezzo passo indietro. La democrazia, ha scritto Günter Grass lodandola per questo, ha il passo della lumaca.
Non invidiamo dunque gli eletti, nonostante la loro cospicua remunerazione, perché — a parte i cinici che si candidano magari solo per lucro e i narcisisti, peggiori di loro, per vanità — il lavoro degli eletti onesti sarà duro, prosaico e noioso. Lo è del resto ogni autentico lavoro politico. Ma anche quello della madre di famiglia (oggi lo fanno un po’ pure i giovani padri, ma non tanto) che si occupa dei figli e della casa è fatto di tante cose di per sé non esaltanti, lavare, asciugare, fare la spesa, stirare, eppure… Anche questa, in fondo, è politica, cura di ciò che concorre al bene della Polis; non per nulla Lenin diceva che una brava madre di famiglia poteva essere commissario del popolo. Forse anche parlamentare europea, meglio di altre più appariscenti categorie femminili.
Claudio Magris
corriere.it
Nessun commento:
Posta un commento