7.6.09

Il voto troppo tiepido per l’Europa

Con l’Europa ci suc­cede un po’ quel­lo che succedeva a Sant’Agostino col tempo: se non gli chie­devano cos’era, credeva di saperlo, ma quando glielo chiedevano gli sembrava di non saperlo più. Il forte ma vago senso di apparte­nenza all’Europa — a una civiltà comune e ben di­stinta non solo da quelle di altri continenti, Asia o Africa, ma anche, sia pure in modo assai più sfuma­to, da quella americana sua discendente — non si lascia definire. Non certo soltanto, ma forse anche per questo il voto per il Parlamento Europeo, no­nostante la campagna elet­torale, è generalmente eu­roscettico. È un voto tiepi­do, perché si elegge un Parlamento che non è pro­prio veramente tale, nella pienezza dei suoi poteri; nel quale in linea generale non si varano le leggi da cui più dipende il nostro destino. Gli eletti non po­tranno decidere, almeno direttamente, se paghere­mo più o meno tasse, se potremo fare il testamen­to biologico o no, se la no­stra Costituzione sarà o no sfregiata.

In Italia ci si interessa al­le prossime elezioni euro­pee pensando non tanto al­l’Europa, quanto alle riper­cussioni che esse avranno sulla politica interna del nostro Paese. Pochi pensa­no a ciò che, nonostante i limiti che purtroppo vinco­lano il Parlamento Euro­peo, gli eletti possono co­munque fare in tanti setto­ri, promuovendo o ostaco­lando misure di grande im­portanza, lavorando al compimento dell’Unione Europea, che prima o do­po — piuttosto dopo che prima, purtroppo — do­vrà divenire la nostra più forte realtà e i cui poteri si spera saranno un bel gior­no più importanti, per tut­ti, di quelli dei singoli go­verni nazionali, così come oggi il governo dell’Italia mi interessa più di quello della mia pur amata Regio­ne Friuli-Venezia Giulia.

Ma pochi pensano real­mente con passione all’Eu­ropa, come invece pensa­vano e sentivano i suoi pa­dri fondatori. In un artico­lo uscito l’1.5.2009 sul «Pic­colo », Ferdinando Camon riportava, ad esempio, al­cune dichiarazioni che il ministro Brunetta avrebbe rilasciato a una Miss Vene­to poi non ammessa fra le candidate al Parlamento: secondo tali dichiarazioni, il Parlamento Europeo «non conta niente». L’af­fermazione attribuita al ministro Brunetta è impor­tante, perché sembra riflet­tere un atteggiamento dif­fuso, forse anche fra i can­didati al Parlamento stes­so. Si ha l’impressione che molti di essi conoscano molto meglio i problemi italiani di quelli europei che, se eletti, avranno la re­sponsabilità di affrontare e cercare di risolvere.

Si ha l’impressione, no­nostante tante nobili e va­ghe dichiarazioni pro­grammatiche, che nume­rosi candidati al Parlamen­to Europeo, prima di legge­re ad esempio l’articolo di Ivo Caizzi sul «Corriere», non sapessero esattamen­te che cosa ha fatto la legi­slatura europea ora tra­scorsa, di che cosa si è oc­cupata, quali problemi — tariffari, etici, sociali — ha trattato, con successo o meno, e quali problemi concreti attendono al var­co la legislatura europea che inizierà tra poco.

È facile fare generiche dichiarazioni sulla cultura o sulla libertà, ma è ben più difficile occuparsi di quegli innumerevoli, ingarbu­gliati, apparentemente prosaici aspetti in cui la libertà e la cultura si incarnano concre­tamente.

È strano che, posto che la testimonianza della Miss Veneto riportata da Camon sia at­tendibile, il ministro Brunetta — dalla faccia feroce quando annuncia licenziamenti, ma dalla lacrima facile quando viene lodato — abbia fatto quelle dichiarazioni sull’irrilevan­za del Parlamento Europeo quasi con soddi­sfazione anziché con tristezza, in quanto, se ciò che egli dice corrispondesse alla realtà, sarebbe la constatazione di un male, che do­vrebbe invitare a correggerlo.

Se l’Europa non esiste ancora abbastanza, questa è una disgrazia o almeno una fase di stallo che va superata. Dovremmo sentirci, armoniosamente e con altrettanta intensità, europei ed italiani nello stesso modo in cui ci sentiamo — a parte qualche ringhioso bo­tolo di provincia, incapace di guardare oltre la sua cuccia — italiani e lombardi o marchi­giani.

Non occorre scomodare Mazzini, Croce o Curtius, che ci hanno insegnato l’unità spiri­tuale, culturale dell’Europa. C’è una realtà materiale ancora più importante. Oggi i pro­blemi che ci investono coinvolgono l’Europa intera, dalla crisi finanziaria alla pressione dell’immigrazione; così come l’economia di Milano non può crollare senza ripercuotersi su Bologna o su Bari, ogni singolo Stato tra­scina in parte con sé, nel bene e nel male, tutti gli altri e ne è trascinato. Sarebbe ridico­lo che l’immigrazione fosse regolata a Taran­to da leggi diverse da quelle in vigore a Geno­va ed è ormai ridicola una politica diversa a Parigi e a Berlino rispetto ai problemi che in­teressano tutti gli europei. Se la realtà mate­riale, per tutti, è europea, essa deve tradursi, prima o poi, in una realtà politica anche for­male ben più forte e compatta di quella at­tuale, che riduca i singoli Stati a funzioni so­stanzialmente regionali, peraltro assai im­portanti.

L’Europa fonda la sua civiltà, rispetto ad altre pure grandi, sul primato dell’individuo rispetto alla totalità e perciò è stata la madre del liberalismo e della democrazia. A diffe­renza di alcuni cugini d’oltre Atlantico, la va­lorizzazione europea dell’individuo non è l’esaltazione del cowboy che basta a se stes­so e si fa giustizia da sé, bensì dell’individuo quale «animale politico», come diceva Ari­stotele, che si pone in relazione con la socie­tà e si sente responsabile della sorte di tutti i componenti della Polis, perché sa che il suo benessere esige, per essere veramente vissu­to e goduto, il benessere o almeno la decen­za di chi gli vive intorno. In tal senso, il socia­lismo è profondamente europeo e le civiltà o gli Stati che non hanno conosciuto il socia­lismo (s’intende quello democratico) non so­no europei. Sono, possono e debbono esse­re nostri buoni vicini, ma non sono noi.

L’esigenza di un futuro vero Stato euro­peo e la fiducia nel suo avvento non escludo­no lo scetticismo circa i tempi e le difficoltà della sua necessaria realizzazione. Ci saran­no regressivi rigurgiti di egoismi nazionali, paure fondate e infondate che ostacoleran­no le iniziative più preveggenti, meschinità, elefantiasi burocratiche, scontri fra particola­rismi, difese di privilegi e anche di enti e isti­tuzioni inutili e costose. Chi crede nell’Euro­pa sarà contento se si farà ogni tanto un pas­so avanti e mezzo passo indietro. La demo­crazia, ha scritto Günter Grass lodandola per questo, ha il passo della lumaca.

Non invidiamo dunque gli eletti, nono­stante la loro cospicua remunerazione, per­ché — a parte i cinici che si candidano maga­ri solo per lucro e i narcisisti, peggiori di lo­ro, per vanità — il lavoro degli eletti onesti sarà duro, prosaico e noioso. Lo è del resto ogni autentico lavoro politico. Ma anche quello della madre di famiglia (oggi lo fanno un po’ pure i giovani padri, ma non tanto) che si occupa dei figli e della casa è fatto di tante cose di per sé non esaltanti, lavare, asciugare, fare la spesa, stirare, eppure… An­che questa, in fondo, è politica, cura di ciò che concorre al bene della Polis; non per nul­la Lenin diceva che una brava madre di fami­glia poteva essere commissario del popolo. Forse anche parlamentare europea, meglio di altre più appariscenti categorie femmini­li.


Claudio Magris
corriere.it

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