11.7.13

Biblioteche da sogno

Daniela Daniele (il manifesto)

In mostra a Roma la scultrice americana che inscatolò il mondo in grandi scaffali a parete

La signora dell’arte cubo-dadaista, Louise Nevel­son, sarà in mostra nella capi­tale, presso la Fon­da­zione Roma, ancora per una decina di giorni. Idea­trice di enormi strut­ture lignee pre­va­len­te­mente rea­liz­zate in bianco o nero, e in regale ver­nice dorata, Nevel­son dis­si­mula nel rigore della sua scelta mono­cro­ma­tica il calore della mate­ria in cui inta­glia le sue opere. Ad ecce­zione delle poche crea­zioni in legno natu­rale ispi­rate all’arte povera, nell’eleganza dei suoi assem­blaggi a pre­va­lere sono sem­pre gli estremi e, se il bianco è «festivo» come il sole, nella sua scul­tura è il nero a fare da padrone per­ché, come si legge in uno dei suoi fram­menti con­ser­vati negli archivi di arte ame­ri­cana dello Smi­th­so­nian Insti­tute, «la luce del giorno ha una forma, invece il buio è una cosa sola».
Vicina ai poeti del Black Moun­tain (da Cree­ley a Olson), Nevel­son usò anche la scrit­tura per rac­con­tare la sua vita da «Queen of the black black»: così si auto­de­finì in una poe­sia pub­bli­cata su Art News nel 1961.
Dama soli­ta­ria dalle lunga ciglia di zibel­lino che, come scrisse Edward Albee in occa­sione della retro­spet­tiva del 1980 al Whit­ney, nascon­de­vano grandi occhi «di pro­fondo non­sense», fu inclusa da Frank O’Hara tra le figure più rap­pre­sen­ta­tive della mostra del 1965 Modern Sculp­ture Usa. Ma, in realtà, gli altri scul­tori erano molto più gio­vani di lei che, amica di Bette Davis e Robert Rau­schen­berg, anti­cipò l’espressionismo astratto senza farne parte. Come dichiara nel libro-intervista curato dalla sua assi­stente Diana Mac­Kown (Dawns and Dusks, Scrib­ner, 1976) fu nell’Europa delle avan­guar­die che decise di «capire il cubo» quale «chiave di una sta­bi­lità» capace di tra­durre «natura in strut­tura» poi­ché «è nel pre­ciso istante in cui il cer­chio rien­tra in un qua­drato che si rag­giunge la piena con­sa­pe­vo­lezza».
Pro­prio a par­tire dalla lezione cubo-dadaista, Nevel­son diede vita a una ver­sione per­so­na­lis­sima delle
«sca­tole» magi­che: dalla boîte di Mar­cel Duchamp a
quelle ame­ri­cane di Joseph Cor­nell, rac­col­gono in cor­nici geo­me­tri­che l’estrema disar­ti­co­la­zione Dada e la crea­tiva ete­ro­ge­neità degli ambienti Merz­bau. Jean Arp pone Sch­wit­ters all’origine dell’asimmetria stu­diata delle sue archi­tet­ture, che si tra­sfor­mano nella more­sca Cat­te­drale cele­ste in cui lo scul­tore, in una lirica del ’60, vide «la fac­ciata d’America».

COL­LE­ZIONE A PROVA DI NUBIFRAGIO

Nata Ber­lia­w­sky da fami­glia ebrea venuta da una Kiev rus­si­fi­cata dagli zar, Nevel­son rag­giunse pic­co­lis­sima nel Maine il padre com­mer­ciante (ovvia­mente in legnami), e a nove anni, davanti a un gesso di Gio­vanna d’Arco, decise che sarebbe diven­tata una scul­trice («e non voglio che il colore mi aiuti», chiarì pro­gram­ma­ti­ca­mente di fronte a un’attonita biblio­te­ca­ria). Fu que­sta infles­si­bi­lità a sal­varla dall’impulso distrut­tivo a cam­biare di colpo vita e luo­ghi. Ancora gio­va­nis­sima sposò, senza quasi cono­scerlo, un agente di Wall Street russo-lettone di vent’anni più vec­chio di lei, che lasciò dopo un figlio e molte crisi esi­sten­ziali per dedi­carsi alla ricerca arti­stica prima in tea­tro, e poi a Monaco, dove stu­diò col pit­tore bava­rese Hans Hof­mann, poco prima che espa­triasse in Ame­rica, in fuga dal nazi­smo.
Nes­sun trauma appa­rente in quella sepa­ra­zione, per­ché la prio­rità dell’arte si coglie sem­pre nelle dichia­ra­zioni di Nevel­son, spesso cau­sti­che e auto­ce­le­bra­tive. È a Nar­cis­sus che dedica un’altra poe­sia: «Ho osato guardare/ E mi piace ciò che ho visto./Bene, io bene, io bene io, per me». E poi ancora, «guar­dare non signi­fica aver visto/Il vero fine è guar­dare senza esser visti…/Ho visto il luogo della libertà/Ho visto la terra dei liberi…ho guar­dato nel luogo/dell’inerzia/dentro il silen­zio».
Il senso di colpa e il biso­gno di risar­cire il figlio per la sua assenza la inse­guirà per tutta la vita, senza però riu­scire a fer­marla: «Figlio mio per­ché doveva suc­ce­dere che noi due diven­tas­simo un tale mistero per entrambi?…Quando cre­sci, non rim­pro­ve­rarmi per le con­di­zioni in cui sei cre­sciuto. Per­ché chissà che non rie­sca a volare più in alto… e forse mai in alto abba­stanza come avrei voluto fare…Sono ancora in mare aperto….l’umanità è così lenta… e non so in quale terra sal­pare, vedo solo che qui vene­riamo idoli cada­ve­rici, non realtà…Ho rag­giunto il senso della distanza…come può essere? Dove mi sta portando?…Sì temo proprio/di avere una distanza…Il grande oltre mi chiama».
Il rac­conto di viag­gio che informa le sue scul­ture è la fiaba nera di un per­corso acci­den­tato che, come si legge in una «sin­tesi» del 1955, le impone di andare, per­ché «un arti­sta crea­tivo non può restar­sene nel suo cor­tile». È del 1933 la prima mostra di que­sta Sposa della Luna Nera la quale, sul modello celibe ducham­piano, «si reca in molti continenti…/Le imma­gini sui muri sono le imma­gini che lei ricorda».
L’importante retro­spet­tiva alle­stita a Palazzo Sciarra da Bruno Corà (aperta al pub­blico fino al 21 luglio) ritrova la suc­ces­sione di «atmo­sfere e ambienti» rico­struiti al Whit­ney Museum nel 1980. Quello che Nevel­son con­si­de­rava «il museo ame­ri­cano per eccel­lenza» (sto­ri­ca­mente, anche sede della sua prima retro­spet­tiva nel 1967) pos­siede tut­tora il mag­gior numero delle sue opere, a prova di nubi­fra­gio gra­zie agli inter­venti di ristrut­tu­ra­zione con­tro gli effetti deva­stanti del cam­bio cli­ma­tico. Dall’allestimento del Whit­ney dell’80, Corà pare assu­mere il modello di per­corso mean­drico che dispone le opere in una tor­tuosa suc­ces­sione di stanze mono­cro­ma­ti­che, in base a un movi­mento che rimanda alle tor­sioni metal­li­che e alla fuga con­vessa delle crea­zioni meta­mor­fi­che e, solo di rado, antro­po­morfe della scul­trice. L’unico Per­so­nage in mostra ha una minac­ciosa schiena orlata di acu­lei, e appare gof­fa­mente assorto sulle parti dislo­cate di sé.

META­FI­SICI MURI


Così il suo viag­gio ogget­tuale si satura di ele­menti ete­ro­morfi tra i geo­me­tri­smi tor­men­tosi di un cer­vello in piena che rag­giunge, nell’accostamento dell’incongruo, armo­nie inspe­rate. I «ready-made» di Nevel­son, non meno assor­titi dei col­lage di Bra­que e di Jack­son Mac Low, tro­vano forme diai­re­ti­che e cir­co­lari e, nell’assorbire in forme incon­suete miste­riose let­tere e alfa­beti rove­sciati, tra­di­scono la cifra con­cet­tua­li­sta degli assem­blaggi di Mac Low e Bale­strini.
Ma ciò che li distin­gue dal modello gene­ra­tivo ducham­piano è la scelta ambi­ziosa della scul­trice di dare ad essi un’imponente dimen­sione archi­tet­to­nica, come aveva fatto Har­riet Hosmer nella prima metà dell’Ottocento, quando rein­ter­pretò le squi­si­tezze del neo­clas­si­ci­smo cano­viano nel gigan­ti­smo del suo omag­gio a Tho­mas Hart Ben­ton.
Pro­prio l’imponenza alle­go­rica di quelle colonne gre­che, total­mente eman­ci­pate da ogni fun­zio­na­lità, spinse Phi­lip John­son nel ’59 ad affian­carle ideal­mente alle sue archi­tet­ture post­mo­derne. Si pensi ai «muri» che rive­stono intere pareti in oro trans­lu­cido, debor­danti di coni meta­fi­sici e di nic­chie che accol­gono un’idea ipo­te­tica di vaso e di cas­setto, quasi a non voler tra­dire l’attesa di una fami­liare ogget­tua­lità.
È quanto avviene nell’Omag­gio all’universo (1968) che si offre al visi­ta­tore come cor­nice acco­gliente per ami­che­voli con­ver­sa­zioni a mezza voce, facendo con­vi­vere forme appa­ren­te­mente dome­sti­che con le crip­ti­che sim­bo­lo­gie che l’autrice annota pun­tual­mente nel suo bre­via­rio com­po­si­tivo. Per­ché è sem­pre nel suo «dia­rio dei sogni» che Nevel­son attri­bui­sce alla vera sacra­lità una qua­lità bizan­tina, alla bel­li­ge­ranza un tratto assiro, alla morte rituale una realtà atzeca, all’eternità una pre­ro­ga­tiva egi­zia, alla domi­na­zione sovie­tica la con­ti­nuità dello stato, all’inflazione una decli­na­zione fasci­sta, alla pro­crea­zione il carat­tere di un’ossessione nazi­sta, al potere un volto ame­ri­cano, allo stile greco la chiave di un movi­mento libe­rato dalla rigi­dità degli anti­chi, per farsi arte indi­vi­duale nel gotico che dis­solve il potere sull’universo dell’uomo rina­sci­men­tale.
Negli scritti e fram­menti di Nevel­son, ogni archi­tet­tura trova una matrice archeo­lo­gica, con la pre­senza inter­ro­ga­tiva di gigan­te­sche foto in bianco e nero intente «a guar­dare il mondo attra­verso qual­cosa di distil­lato e mai diretto», come nell’allestimento del 1965 di Tiny Alice di Edward Albee. Pro­prio il dram­ma­turgo ame­ri­cano, che accom­pa­gnava spesso la scul­trice a rac­cat­tare per le strade di Lit­tle Italy legna abban­do­nata da far rina­scere in una serie di pezzi unici (stele, colonne, mono­liti), sot­to­li­neò l’anima eco­lo­gica di quest’artista Wpa, figlia della Grande Depres­sione, che aveva impa­rato a non spre­care niente nella sua raf­fi­nata pra­tica di rici­clo archi­tet­to­nico.
Si pensi alle pesanti balau­stre pat­tu­mate da una scuola di quar­tiere, subito recu­pe­rate alla furia assem­bla­trice di Nevel­son, con il con­tri­buto musco­lare dei pazienti arti­giani armati di fiamma ossi­drica e attrezzi da fab­bro, che lei gui­dava con tono fermo e materno. Erano que­ste masse mono­co­lori la sua rispo­sta all’arguzia fili­forme di Alberto Gia­co­metti e alla minu­zia com­par­ti­men­ta­liz­zata dell’arte di Eduardo Pao­lozzi che le aveva inse­gnato a scom­porre ogni oggetto in minuti ele­menti mec­ca­nici da ripar­tire in un ordine astratto spinto ai con­fini dell’action pain­ting nelle gua­che di Ad Reinhardt.

LIBRE­RIE PER LABIRINTI

È il disor­dine del primo moder­ni­smo che Nevel­son rior­ga­nizza nelle sue fan­ta­sti­che «biblio­te­che ambu­lanti di ana­co­reta», come le defi­ni­sce acu­ta­mente Arp, tra gli incassi impos­si­bili di una visione insieme arcaica e labi­rin­tica, ludica e sel­vag­gia, che prende ora le forme ten­ta­co­lari di una fore­sta tro­pi­cale carica di sim­boli Maya, ora quella meta­fi­sica di «giar­dini lunari», tra i coni d’ombra e gli alberi d’alluminio che l’artista raduna nell’intrico di costru­zioni che Albee definì vere e pro­prie odis­see.
Come l’arte scritto-pittorica di altre sur­rea­li­ste espa­triate del suo tempo — da Kay Sage, Doro­thea Tan­ning, da Leo­nore Fini a Leo­nora Car­ring­ton — la scul­tura di Nevel­son è un’arte soli­ta­ria e fem­mi­nile. La sua serie di figure mulie­bri non alle­go­ri­che fini­sce tutta nelle chine figu­ra­tive a cui la mostra al Museo Sciarra dedica uno spa­zio pic­colo ma signi­fi­ca­tivo. La con­cava pla­sti­cità di que­sti gonfi nudi di donna ricor­dano certi levi­ga­tis­simi mono­vo­lumi di Jean Arp, in omag­gio a un mondo pen­so­sa­mente con­sa­pe­vole che «la linea di una cavi­glia può far girare il mondo», ma anche per­plesso come nel dise­gno cui Don DeLillo dedica nel 2003 il rac­conto Female Nude by Louise Nevel­son, scritto per il cin­quan­te­simo anni­ver­sa­rio della Paris Review.
Il rac­conto riprende uno schizzo del 1932, l’anno in cui Nevel­son incon­trò l’artista mes­si­cano Diego Rivera, e coglie la sor­presa di una modella che posa nuda per una pit­trice con un libro aperto sulle ginoc­chia. In base alle istru­zioni rice­vute, non dovrà per nes­suna ragione guar­dare. Ma la com­po­si­zione del qua­dro è lunga e la modella appro­fitta degli istanti in cui la pit­trice si ferma a cor­reg­gere un tratto sba­gliato per sbir­ciare il con­te­nuto del libro. E allora legge di una donna in posa in uno stu­dio d’artista sulla tre­di­ce­sima strada, e sbir­cia la china sot­tile che pro­prio lei sta ori­gi­nando, e raf­fi­gura una donna con lo sguardo nel vuoto, con un libro aperto sulle ginoc­chia sem­pli­ce­mente fir­mato «Nevel­son». La Klara Sax che in Under­world va incon­tro al suo futuro di assem­bla­trice di testate nucleari dimesse nel deserto dell’Arizona è molto pro­ba­bil­mente ispi­rata all’artista corag­giosa che nel 1972 installò pro­prio a Scott­sdale, in Ari­zona, il suo Atmo­sphere and Envi­ron­ment XIII (Win­dows to the West).

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