Un “tubo” a prova di denti di squalo.
Lo ha annunciato Google qualche tempo fa
,
descrivendo un suo recente investimento da 300 milioni di dollari in un
sistema di cavi sottomarini in fibra ottica che unirà
la West Coast americana col Giappone, facendo scorrere traffico Internet
e telefonico in una autostrada che può arrivare a una capacità di 60
Terabit per secondo, ovvero 10 milioni di volte più veloce di una
connessione casalinga. I “tubi” che trasporteranno tutti questi dati
saranno avvolti da un guscio simile al kevlar, la fibra ultraresistente
usata anche nei giubbotti antiproiettile o negli aeroplani. In questo
modo saranno al sicuro dai morsi degli squali, che sarebbero attratti
dal campo elettromagnetico prodotto dai cavi.
In realtà i pescecani sono l’ultimo dei problemi per simili superstrade del mare, senza la cui esistenza non sarebbe neppure concepibile l’attuale economia digitale e la sua apparente smaterializzazione. Il 70 per cento di tutti i danni subiti da questi “tubi” deriva infatti da “aggressioni esterne”, calcola il Comitato internazionale per la protezione dei cavi (ICPC), ma per la maggior parte si tratta di ancore di navi e pescherecci. Oppure di atti di sabotaggio più o meno consapevoli. Nel marzo 2013 le autorità egiziane arrestarono tre uomini sospettati di aver tagliato al largo di Alessandria il cavo Sea-Me-We 4, che collega il Nord Europa al Sud-Est asiatico passando per il Mediterraneo.
LA MAPPA NAVIGABILE A QUESTO LINK
L’incidente provocò forti rallentamenti nella connettività di molti Paesi in Africa, Medio Oriente e Asia. Mentre lo scorso luglio la Rete vietnamita è andata in tilt dopo il danneggiamento di un cavo che trasportava la maggior parte delle comunicazioni nazionali all’esterno e viceversa. A tutto ciò si aggiunga la continua domanda di banda a basso costo, la crescita esponenziale della quantità di dati e di servizi essenziali che circolano in Rete, la necessità di non avere “singoli punti di fallimento”, cioè di avere più alternative per far passare il traffico e, dulcis in fundo, le preoccupazioni per il terrorismo ma anche lo spionaggio e la sorveglianza su scala globale messi in piedi da Stati Uniti e alcuni suoi alleati. E si capirà perché oggi i collegamenti sottomarini attraggano tanto interesse e investimenti.
Attualmente si contano 263 cavi attivi, e altri 22 sono pianificati per i prossimi anni. Su queste arterie che scorrono sott’acqua passa tra il 95 e il 99 per cento di tutto il traffico internet mondiale. «Le ragioni dei nuovi investimenti sono diverse », spiega Jon Hjembo, Senior Analyst a TeleGeography, che produce le mappe più autorevoli sulle infrastrutture di internet. «In alcuni casi si tratta di trovare vie alternative per ridurre la dipendenza dalla rete di un certo luogo, come i nuovi collegamenti nati in America Latina e Africa. In altri casi si cercano proprio nuove rotte, come con i progetti sull’Artico. Infine c’è da tenere in considerazione l’età di alcuni dei sistemi esistenti».
Le considerazioni geopolitiche, e lo scandalo Datagate, hanno ad esempio messo le ali ai progetti brasiliani. L’80 per cento dei dati dell’America Latina sono instradati attraverso gli Stati Uniti, ma non ancora per molto. La presidente Dilma Rousseff ha annunciato il Brazil-Europe, un nuovo collegamento diretto tra il suo Paese e l’Europa, per un costo di circa 185 milioni di dollari. Ma ce ne sono anche altri, che uniranno il Brasile all’Africa.
Mentre si stanno tuffando nel settore i nuovi attori della Rete. Google, oltre al cavo col Giappone già citato, ha investito in altri due sistemi sottomarini: UNITY, che si stende sempre tra il Paese nipponico e la California; e SJC, che collega il Sudest asiatico. A oggi il colosso del Web è proprietario di oltre 100 mila miglia di “strade” in fibra ottica sparse per il mondo. Anche Facebook è parte di un consorzio che sta lavorando sull’Asia Pacific Gateway, che toccherà una serie di Stati nel Nord e Sudest asiatico.
«Sì, ci sono nuovi protagonisti nell’industria, come Google e Facebook, e diventeranno sempre più attivi», spiega Hjembo. «La ragione è che tutti questi fornitori di contenuti hanno bisogno di così tanta capacità su una rete che alla fine diventa più conveniente per loro possedere sempre più infrastrutture, specie sulle rotte principali».
Dal punto di vista geografico, geopolitico ed economico, c’è un luogo che rimane strategico e potrebbe diventarlo sempre di più: il Mediterraneo. «La rotta preferita per collegare l’Estremo Oriente agli Stati Uniti, perché in grado di intercettare un mercato aggiuntivo, rimane quella che passa per l’Europa, via canale di Suez, Sicilia, Marsiglia, e poi a terra fino ad Amsterdam o Londra dove ripartono i cavi transatlantici», dice spiega Simone Bonannini, amministratore delegato della filiale italiana di Interoute, fornitore globale di reti in fibra e di servizi per le tlc.
Non a caso uno dei più grossi collegamenti in cantiere - gestito da un consorzio internazionale che include Telecom Sparkle, del gruppo Telecom Italia - è proprio il SEA-ME-WE 5, una mega arteria da 20mila km, con una capacità di 24 Terabit per secondo, che unirà la Francia a Singapore, passando per Catania.
Già, la Sicilia. Basta guardare le mappe di TeleGeography per capire al volo la sua rilevanza. «Purtroppo però l’Italia non sta sfruttando un’occasione storica per fa ranedere al meglio questa sua posizione», dice Joy Marino, presidente del Milan Internet Exchange (MIX), il più importante punto di interscambio tra Internet service provider.
Il fatto è che il traffico in arrivo dal Medio o Estremo Oriente, pur facendo tappa in Sicilia, non attraversa la nostra penisola per la via di terra, come sarebbe logico e auspicabile, ma si ributta sott’acqua e prosegue fino a Marsiglia. «Perché lì è stato creato un centro di smistamento del traffico neutrale, aperto, e non sotto il controllo di un fornitore dominante o di un ex-monopolista». Ciò significa che gli operatori che vi si insediano possono affittare connettività da chi vogliono. Tanto è vero che proprio poche settimane fa sono stati annunciati nuovi investimenti e la costruzione di altri data center nella città francese. «Il forte hub di rete creato dall’aggregazione di multipli punti di approdo di cavi sottomarini e l’interconnessione con quelli terrestri ha reso Marsiglia molto attraente», è stato il commento della società investitrice, Interxion.
Non far passare il traffico per l’Italia significa perdere la possibilità di attrarre data center, aziende, uffici e posti di lavoro. Secondo Bonannin però non tutto è perduto. «Basta guardare all’esempio dell’Internet Exchange Point di Francoforte: malgrado fosse partito in svantaggio rispetto a quelli di Londra e Amsterdam, è riuscito a crescere aggregando il nuovo traffico proveniente dall’Est Europa». Di sicuro, non ci può essere ragionamento serio su agende digitali e sviluppo a prescindere dalle infrastrutture di rete.
In realtà i pescecani sono l’ultimo dei problemi per simili superstrade del mare, senza la cui esistenza non sarebbe neppure concepibile l’attuale economia digitale e la sua apparente smaterializzazione. Il 70 per cento di tutti i danni subiti da questi “tubi” deriva infatti da “aggressioni esterne”, calcola il Comitato internazionale per la protezione dei cavi (ICPC), ma per la maggior parte si tratta di ancore di navi e pescherecci. Oppure di atti di sabotaggio più o meno consapevoli. Nel marzo 2013 le autorità egiziane arrestarono tre uomini sospettati di aver tagliato al largo di Alessandria il cavo Sea-Me-We 4, che collega il Nord Europa al Sud-Est asiatico passando per il Mediterraneo.
LA MAPPA NAVIGABILE A QUESTO LINK
L’incidente provocò forti rallentamenti nella connettività di molti Paesi in Africa, Medio Oriente e Asia. Mentre lo scorso luglio la Rete vietnamita è andata in tilt dopo il danneggiamento di un cavo che trasportava la maggior parte delle comunicazioni nazionali all’esterno e viceversa. A tutto ciò si aggiunga la continua domanda di banda a basso costo, la crescita esponenziale della quantità di dati e di servizi essenziali che circolano in Rete, la necessità di non avere “singoli punti di fallimento”, cioè di avere più alternative per far passare il traffico e, dulcis in fundo, le preoccupazioni per il terrorismo ma anche lo spionaggio e la sorveglianza su scala globale messi in piedi da Stati Uniti e alcuni suoi alleati. E si capirà perché oggi i collegamenti sottomarini attraggano tanto interesse e investimenti.
Attualmente si contano 263 cavi attivi, e altri 22 sono pianificati per i prossimi anni. Su queste arterie che scorrono sott’acqua passa tra il 95 e il 99 per cento di tutto il traffico internet mondiale. «Le ragioni dei nuovi investimenti sono diverse », spiega Jon Hjembo, Senior Analyst a TeleGeography, che produce le mappe più autorevoli sulle infrastrutture di internet. «In alcuni casi si tratta di trovare vie alternative per ridurre la dipendenza dalla rete di un certo luogo, come i nuovi collegamenti nati in America Latina e Africa. In altri casi si cercano proprio nuove rotte, come con i progetti sull’Artico. Infine c’è da tenere in considerazione l’età di alcuni dei sistemi esistenti».
Le considerazioni geopolitiche, e lo scandalo Datagate, hanno ad esempio messo le ali ai progetti brasiliani. L’80 per cento dei dati dell’America Latina sono instradati attraverso gli Stati Uniti, ma non ancora per molto. La presidente Dilma Rousseff ha annunciato il Brazil-Europe, un nuovo collegamento diretto tra il suo Paese e l’Europa, per un costo di circa 185 milioni di dollari. Ma ce ne sono anche altri, che uniranno il Brasile all’Africa.
Mentre si stanno tuffando nel settore i nuovi attori della Rete. Google, oltre al cavo col Giappone già citato, ha investito in altri due sistemi sottomarini: UNITY, che si stende sempre tra il Paese nipponico e la California; e SJC, che collega il Sudest asiatico. A oggi il colosso del Web è proprietario di oltre 100 mila miglia di “strade” in fibra ottica sparse per il mondo. Anche Facebook è parte di un consorzio che sta lavorando sull’Asia Pacific Gateway, che toccherà una serie di Stati nel Nord e Sudest asiatico.
«Sì, ci sono nuovi protagonisti nell’industria, come Google e Facebook, e diventeranno sempre più attivi», spiega Hjembo. «La ragione è che tutti questi fornitori di contenuti hanno bisogno di così tanta capacità su una rete che alla fine diventa più conveniente per loro possedere sempre più infrastrutture, specie sulle rotte principali».
Dal punto di vista geografico, geopolitico ed economico, c’è un luogo che rimane strategico e potrebbe diventarlo sempre di più: il Mediterraneo. «La rotta preferita per collegare l’Estremo Oriente agli Stati Uniti, perché in grado di intercettare un mercato aggiuntivo, rimane quella che passa per l’Europa, via canale di Suez, Sicilia, Marsiglia, e poi a terra fino ad Amsterdam o Londra dove ripartono i cavi transatlantici», dice spiega Simone Bonannini, amministratore delegato della filiale italiana di Interoute, fornitore globale di reti in fibra e di servizi per le tlc.
Non a caso uno dei più grossi collegamenti in cantiere - gestito da un consorzio internazionale che include Telecom Sparkle, del gruppo Telecom Italia - è proprio il SEA-ME-WE 5, una mega arteria da 20mila km, con una capacità di 24 Terabit per secondo, che unirà la Francia a Singapore, passando per Catania.
Già, la Sicilia. Basta guardare le mappe di TeleGeography per capire al volo la sua rilevanza. «Purtroppo però l’Italia non sta sfruttando un’occasione storica per fa ranedere al meglio questa sua posizione», dice Joy Marino, presidente del Milan Internet Exchange (MIX), il più importante punto di interscambio tra Internet service provider.
Il fatto è che il traffico in arrivo dal Medio o Estremo Oriente, pur facendo tappa in Sicilia, non attraversa la nostra penisola per la via di terra, come sarebbe logico e auspicabile, ma si ributta sott’acqua e prosegue fino a Marsiglia. «Perché lì è stato creato un centro di smistamento del traffico neutrale, aperto, e non sotto il controllo di un fornitore dominante o di un ex-monopolista». Ciò significa che gli operatori che vi si insediano possono affittare connettività da chi vogliono. Tanto è vero che proprio poche settimane fa sono stati annunciati nuovi investimenti e la costruzione di altri data center nella città francese. «Il forte hub di rete creato dall’aggregazione di multipli punti di approdo di cavi sottomarini e l’interconnessione con quelli terrestri ha reso Marsiglia molto attraente», è stato il commento della società investitrice, Interxion.
Non far passare il traffico per l’Italia significa perdere la possibilità di attrarre data center, aziende, uffici e posti di lavoro. Secondo Bonannin però non tutto è perduto. «Basta guardare all’esempio dell’Internet Exchange Point di Francoforte: malgrado fosse partito in svantaggio rispetto a quelli di Londra e Amsterdam, è riuscito a crescere aggregando il nuovo traffico proveniente dall’Est Europa». Di sicuro, non ci può essere ragionamento serio su agende digitali e sviluppo a prescindere dalle infrastrutture di rete.
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