I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
In questi giorni, dopo l'inchiesta "Mafia Capitale", sono diventati tutti conoscitori di mafia. Non ho mai temuto i professionisti dell'antimafia, ma i dilettanti sì e ho sentito affermazioni talmente assurde che mi viene da pensare che chi le ha pronunciate non solo non conosce il fenomeno criminale, ma non conosce forse nemmeno il Paese. D'improvviso sembra stupirsi che le organizzazioni mafiose agiscano con alleanze imprenditoriali e politiche. Ma in quale Paese ha vissuto sino ad ora? Non solo Mafia Capitale ma anche la più recente inchiesta "Quarto Passo" in Umbria mostra come le organizzazioni siano in tempo di crisi la nuova e unica linea di credito all'impresa italiana. Chi sottovaluta il problema non riesce a capire quello che sta accadendo nel Paese, e allora decide che è meglio prendere in giro e sottovalutare. Il Pd sembra accorgersi solo ora del meccanismo di corruzione di cui molti suoi uomini erano protagonisti da molto tempo. Agisce costretto dalle inchieste giudiziarie quando avrebbe dovuto al contrario ispirare le inchieste.
Beppe Grillo ha detto, a proposito di Mafia Capitale: "La parola mafia ci depista. Ci ricorda qualcosa che non c'è più. Oggi un'associazione mafiosa è fatta da professionisti, politici, magistrati, poliziotti; il mafioso non c'è neanche". Sono anni che si lotta per ribadire culturalmente che mafia significa invece proprio questo: impresa, borghesia imprenditoriale, rapporti con i media. Mi domando: ma secondo Grillo cosa sono state le organizzazioni criminali italiane sino a questo momento? Dei cafoni armati di fucile? Quindi secondo l'interpretazione di alcuni adesso, e solo adesso, la mafia sarebbe "diventata tridimensionale perché ci sono dentro politici, imprenditori, massoni, spacciatori", e perché ha smesso di parlare calabrese, napoletano, lucano, casertano, siciliano? Queste sono semplificazioni inaccettabili.
Ciò che mi viene da dire a chi condivide queste tesi è: ma sapete che le cose sono sempre andate così? Quando si riduce tutto al contadino dalla parlata incomprensibile, del cafone con il kalashnikov, si sta facendo il gioco delle mafie più o meno consapevolmente. Il boss che sappia uccidere e allo stesso tempo gestire il segmento economico dell'organizzazione è la base di una struttura vincente. Mafia Capitale è in realtà il primo e compiuto tentativo di dimostrare, da parte dei pm, che il modello delle mafie storiche è stato mutuato su Roma. La novità scientifica di questa indagine non è limitata alla sola corruzione: ma dimostra come il meccanismo mafioso e l'operatività delle cosche si sia imposta nella vita della Capitale.
Per questa ragione il legame tra Carminati e le organizzazioni non è episodico e momentaneo. Riuscite davvero a immaginare Pasquale Condello o Michele Zagaria che parlano con il sindaco di Sacrofano in merito al catering per la chiusura della campagna elettorale e si fanno commissionare una grigliata? È inimmaginabile che un capo mafia del Sud si occupi di grigliate. Ma attenzione: i clan si occupano di ogni singolo affare dal più piccolo al più grande. I Mazzarella di Napoli hanno raccolto estorsioni "straccione" persino dai lavavetri eppure investivano nei duty free in diversi aeroporti mondiali. Provenzano stesso con i suoi pizzini interviene sulle strade interpoderali da affidare a imprese amiche. Il ruolo mafioso di Carminati è un ruolo diverso rispetto a quello dei boss storici delle mafie tradizionali: è però l'anello che congiunge le mafie storiche e Roma: un multiservice con un certo grado di autonomia. Da Reggio Calabria a Palermo le organizzazioni criminali sono in guerra aperta tra loro e sanno come essere parte dello Stato con strategie differenti. Carminati e Buzzi sono diversi: hanno usato telefonini, hanno avuto incontri contrassegnati dall'imprudenza tipica di chi si sente tutto sommato fuori pericolo, di chi sente che l'attenzione è altrove, perché è convinto che gli altri pensino che la mafia sia un'altra cosa, e che questo pensiero li proteggerà.
Chi parla di nuova mafia tridimensionale a Roma sembra aver rimosso l'influenza di Cosa Nostra sulla politica romana raccontata da Buscetta e della camorra raccontata da Galasso e parliamo di dati accertati da decenni, è storia condivisa insomma. Ci si dimentica del braccio destro di Cutolo, Vincenzo Casillo 'o Nirone munito di tesserino dei servizi, ucciso nell'83 a Roma proprio fuori la sede del Sismi in Via Clemente VII e l'elenco di connivenze sarebbe infinito. Le mafie sono organizzazioni che da sempre hanno più sponde in politica, ed è esattamente ciò che differenzia il reato stesso di associazione mafiosa dalla semplice associazione criminale.
Se oggi si afferma che esiste un nuovo percorso, significa che non si è data abbastanza attenzione alla dinamica mafiosa fino a questo momento. Significa non aver mai ascoltato chi da anni denuncia la presenza della mafia al Nord, la presenza della mafia a Roma. Ci hanno considerati matti, esagerati, sbruffoni, speculatori, diffamatori eppure la verità è solo questa: il tema mafia fuori dai luoghi in cui si ritiene che le mafie nascano, ovvero il tema mafia fuori dalla Campania, dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Puglia è sempre stato sottovalutato, marginalizzato, mai approfondito, trattato solo nelle aule dei tribunali, solo in superficie.
Il primo ministro Renzi delega ai probiviri come se fosse una questione personale e di uomini. Eppure il sistema fiscale e la burocrazia sono i grandi alleati delle organizzazioni criminali, il loro strumento d'accesso per divorare le imprese sane ancora rimaste in piedi. È ovviamente già partita da soliti siti di retroscena e parte della stampa berlusconiana la sottovalutazione del problema per far credere che sia tutto un giro di poveracci e rubapolli. Non ce ne stupiamo. Il motivo è semplice: sono complici spesso della stessa cultura che ispira questi mondi criminali romani pensando che mafioso sia solo lo sfregio di Al Capone o l'occhio pigro di Lucky Luciano. Iperbole e sfottò sono uguali modalità per non comprendere. Ora l'inchiesta dimostra che le grandi organizzazioni criminali storiche sono su Roma da sempre e che Carminati e Buzzi sono solo una rubrica dei loro affari.
Ciò che è cambiato non è la mafia, non è la sua tridimensionalità, non è il coinvolgimento di politici, imprenditori o massoni deviati ma il fatto che ora la presenza a Roma è diventata innegabile. La mafia non si esporta, ma come ogni modello vincente si diffonde in nome della sua capacità di successo e di intimidazione. Il fenomeno va contrastato, ma prima va capito. Il Paese si è accorto che le mafie si sostituiscono alle banche quando non sono (ma su questo c'è da lavorarci molto) direttamente partner delle banche italiane? Il governo deve affrontare il problema dal lato della sua rilevanza economica. O si interrompe questo meccanismo, o in Italia l'economia più forte, quella vincente, quella che verrà imitata e che diffonderà i propri modelli, continuerà a essere l'economia mafiosa.
"I quartieri residenziali sognano la violenza. Addormentati nelle
loro sonnacchiose villette, protette dai benevoli centri commerciali,
aspettano pazienti l’arrivo di incubi che li facciano risvegliare in un
mondo più carico di passione…" (James Graham Ballard)
1. Il paradiso dei palazzinari
Il vento solleva i sacchetti di plastica, trascina le carte sparse
sui marciapiedi invasi dalle sterpaglie e spazza l’erba non curata dello
spiazzo verde in cui mi trovo. Intorno c’è la campagna romana – o
quello che ne rimane – puntellata da condomini a schiera di sei piani,
ben distanziati e quasi tutti uguali l’uno all’altro. Dietro di me, il
cartellone dell’ultimo spettacolo di Enrico Brignano – Evolushow – sovrasta i cassonetti. È uno dei pochi volti che incontro per strada.
È un venerdì pomeriggio di fine novembre. I parcheggi sono semivuoti,
le automobili serpeggiano tra i viali in mezzo al tripudio di
rotatorie; il sole cerca di bucare le nuvole per insinuarsi tra le gru e
gli scheletri dei palazzoni in costruzione – l’ennesima colata di
cemento pronta a mangiarsi l’agro, fare la fortuna dei costruttori e
ospitare “giovani coppie in cerca di spazi e aria a una certa distanza
dallo smog”.
Da Nuova Ponte di Nona – estrema periferia est di Roma, qualche
chilometro oltre il Grande raccordo anulare – la capitale non potrebbe
essere più lontana. Quello che è conosciuto come il “nuovo quartiere di
Caltagirone” è stato costruito da zero
nel 2002 (in parte grazie a un accordo stipulato negli anni novanta tra
la giunta di centrosinistra e i costruttori) e ora ospita all’incirca
ventimila abitanti – perlopiù piccola e media borghesia.
Nelle intenzioni originarie del piano regolatore, approvato nel 2008
dalla giunta Veltroni, Ponte di Nona doveva essere una delle 18
“centralità” della Roma del futuro: una città policentrica in
grado di assottigliare, se non ricucire del tutto, lo spaventoso divario
tra il centro e la periferia. Il piano si è rivelato un sonoro
fallimento, anche perché – come fa notare Francesco Erbani in Il tramonto della città pubblica
– la scelta delle aree dove costruire le centralità (16 milioni di
metri cubi di costruzioni) ha coinciso perfettamente con le grandi
proprietà immobiliari di alcune famiglie di costruttori, e non con le
reali esigenze della città.
Come in altre centralità – basti pensare a Porta di Roma – a Ponte di
Nona sono state costruite abitazioni senza uffici, servizi e,
soprattutto, senza un adeguato sistema di mobilità. Nonostante il
quartiere sia servito da due linee di autobus (tralasciando i tempi di
percorrenza), l’unico modo per arrivarci è prendere l’automobile e
incolonnarsi sulla via Collatina, un’arteria stradale abbastanza
pericolosa e cronicamente congestionata, oppure passare per
l’altrettanto imballata autostrada A24 Roma-L’Aquila. Il treno si ferma
alla stazione Lunghezza, a due chilometri di distanza. La “futura metro
C” è solo negli annunci immobiliari.
Per rendersi conto di come nel quartiere non ci sia davvero nulla di
“centrale” basta fare un giro per viale Francesco Caltagirone – questo
il nome della via principale del quartiere: una schiera di condomìni
fatti con lo stampo, una marea di annunci di vendita, molti uffici di
agenzie immobiliari, qualche bar, qualche edicola, qualche pizzeria al
taglio, una farmacia, nessuna piazza. Poco distante c’è l’Istituto
Raffaele Ciriello (che comprende scuola materna, elementare e media), su
cui sventolano brandelli di bandiere e che attualmente è chiuso
“a tempo indeterminato” per “gravi motivi igienico-sanitari” –
l’“assedio” di topi resistenti anche agli interventi di derattizzazione.
Nell’assenza di reali poli di aggregazione, il vero nucleo pulsante
di Ponte di Nona è il centro commerciale Roma Est, una cattedrale di
centomila metri quadrati inaugurata nel 2007 che scandisce il ritmo di
un insediamento urbano che non è né città né campagna né paese.
All’ingresso del terzo piano, un gruppo di ragazzini è assiepato
intorno a una specie di palco e aspetta impazientemente i rapper
Gemitaiz e Madman, che dovrebbero arrivare nel centro per “incontrare i
fan e firmare le copie del loro ultimo album Kepler-gold
edition”. Per tutto il centro, già pieno di decorazioni natalizie, la
comunità si ritrova in questi spazi “urbani” (e privati) più per
passaggiare e passare il tempo che per comprare qualcosa negli oltre 200
negozi. La dimensione sociale del centro è sottolineata anche
dall’“area allattamento” posta vicino alle scale – un séparé in similcartongesso a forma di cicogna che ospita al suo interno due sedie di plastica nera.
Quando esco, accecato dalle luci che i neon sparano in tutto il
centro, il parcheggio sul tetto è semivuoto. Un signore con in mano dei
sacchetti e le chiavi di una Volvo si guarda intorno. “Sai se c’è un
altro parcheggio scoperto?”, mi chiede. “No, non credo”, rispondo. “E
allora me sa che m’hanno fatto la macchina”, dice sconsolato. Non
sapendo che dire, lo invito a guardare meglio. L’uomo mi ringrazia e
continua ad aggirarsi tra le auto, spaesato e perplesso. All’orizzonte
le nuvole si sono un po’ diradate, e le montagne si stagliano sui
palazzi di Caltagirone.
La sensazione di smarrimento di fronte a questo brandello di città si può trovare anche nel libro Vite periferiche
(2012) dell’urbanista Enzo Scandurra. Nel breve capitolo dedicato a
Ponte di Nona, l’autore lo descrive come “una metafora della
contemporaneità”, “la più grande beffa dei sogni degli urbanisti” e “un
presepe moderno attorno alla mangiatoia del centro commerciale, il Regno a venire
uscito dai libri di Ballard”. E similmente a quanto succede nei
sobborghi londinesi descritti dal grande autore britannico, anche Ponte
di Nona – dietro la sua apparente tranquillità di Paradiso dei
Palazzinari per la classe media – è una zona che si sente minacciata
dall’esterno e che di conseguenza è solcata da profonde tensioni.
Facendo un rapido giro sulla cronaca locale, infatti, i titoli parlano di furti in pieno giorno nelle abitazioni, “saccheggi notturni” di auto, inseguimenti di ladri con tanto di sparatorie e tentate rapine.
Oltre alla microcriminalità, nell’ultimo anno, anno e mezzo la pace
sociale del quartiere è stata incrinata anche dalle occupazioni dei
palazzi invenduti di Caltagirone.
Il 6 aprile del 2013 Action – un movimento per il diritto alla casa – occupa un palazzo vuoto in via Cerruti. Al suo interno si stabiliscono 53 nuclei familiari fino al dicembre dello stesso anno, quando la polizia sgombera
lo stabile. Mentre gli attivisti parlano di “favore a Caltagirone” e
sostengono che l’occupazione era diventata “un punto di riferimento
importante per il quartiere”, il comitato cittadino parla di “vittoria
della legalità”: “Neghiamo nella maniera più assoluta che l’occupazione
stava diventando una vicenda preziosa per tutto il quartiere. Al
contrario, era fonte di tensione e comune causa di danni economici”.
L’11 aprile del 2014, in un ex hotel a tre stelle in via Grappelli viene aperto
un centro d’accoglienza per richiedenti asilo. In un primo momento, i
cittadini pensano di trovarsi di fronte a una nuova occupazione e sono
pronti a protestare. A stemperare le tensioni ci pensa però Bruno
Foresti, presidente del comitato di quartiere di Nuova Ponte di Nona:
“La struttura è pulita, e i ragazzi, tutti africani, sono sistemati
comodamente nelle loro stanze”.
Se i rifugiati sono stati accettati dal quartiere, la vicinanza con
il campo rom di via di Salone è molto più problematica. I cittadini
denunciano a più riprese i roghi tossici appiccati all’interno
dell’insediamento, e fanno notare come la convivenza con gli “zingari”
sia pressoché impossibile. In un articolo sul Tempo – quotidiano in
prima linea nel denunciare, spesso e volentieri in maniera strumentale, il degrado dei quartieri di Roma – è anche riportata la testimonianza
di un residente costretto a cambiare casa perché i “rom spavaldi e
impuniti” avrebbero imposto la loro legge su Ponte di Nona.
Per cercare di ovviare al problema di sicurezza, alcuni residenti fondano il Coordinamento azioni operative Ponte di Nona (Caop) e cominciano a fare delle “ronde”
per le strade del quartiere. L’associazione è capeggiata da Franco
Pirina, un pensionato dal profilo politico e ideologico piuttosto
preciso. Pirina si è pubblicamente detto “orgoglioso di essere di Idee di Destra”, e ha esplicitato queste “idee” nel suo profilo Facebook, dove condivide post dalla pagina “I Giovani Fascisti Italiani”, spera
che una “tromba d’aria” si abbatta “sul Campo delinquenziale di via di
Salone” e afferma di voler eliminare personalmente questa “gentaglia” (i
rom) non “con una SOLUZIONE FINALE ma con dieci di esse”.
Il 10 maggio del 2014 il Caop prova a fare il grande salto organizzando nel quartiere una manifestazione per chiedere lo “smantellamento del campo rom”. Il corteo – come riporta il sito La Fiera dell’Est
– si rivela un autentico flop: partecipano solo cento persone,
“provenienti perlopiù dalle zone limitrofe”. Tra i manifestanti,
inoltre, si segnalano Fabrizio Santori di La Destra, l’eurodeputato di
Forza Italia Antonio Tajani e una delegazione di CasaPound
guidata dal vicepresidente dei fascisti del terzo millennio Simone Di
Stefano. Il comitato di quartiere Nuova Ponte di Nona si dissocia dalla
mobilitazione e decide di non partecipare “per mantenere il suo status
apolitico”.
Il centro di accoglienza nel quartiere di Tor Sapienza che accoglie i minori richiedenti asilo, il 13 novembre 2014.
Christian Mantuano, OneShot
Ponte di Nona racchiude in sé una serie di elementi comuni ad altre
zone di Roma in cui è divampata la protesta: la speculazione edilizia
che prende il sopravvento sul pubblico, l’assenza di servizi, la
disastrosa gestione dei campi rom, le criticità del sistema
d’accoglienza, le campagne di disinformazione montate ad arte; e infine
le strumentalizzazioni politiche, compresa la massiccia infiltrazione
nelle proteste da parte della destra più o meno estrema.
Ma Ponte di Nona è anche, e soprattutto, la plastica rappresentazione
di uno sviluppo urbano come quello della capitale completamente
sfuggito di mano, che schizza incontrollato in tutte le direttrici e
crea una parte di città che in realtà – come ha detto Giovanni Caudo
prima di diventare assessore all’urbanistica – è un “territorio
urbanizzato a bassa densità”, sempre più polverizzato in “isole,
frammenti, appendici, propaggini” e che, proprio per questa
conformazione, è ingovernabile.
Nel “deposito di polveri da sparo” che sono le odierne periferie
romane è bastato gettare qualche cerino per far saltare tutto. 2. La “rivolta” di Roma est
Sono alla fine di via Cavour, all’incrocio con i Fori imperiali, e
guardo divertito i turisti che osservano la scena e scattano foto a
tutto spiano – l’ennesima, indimenticabile cartolina dalla città eterna.
È il 12 luglio 2014 e qualche centinaio di persone, disposte
ordinatamente in blocchi separati e distinti, sventola bandiere
tricolori e intona slogan contro il sindaco Ignazio Marino, i campi rom e
i centri d’accoglienza.
Il corteo è partito verso le dieci di mattina da piazza
dell’Esquilino, dove alcune decine di manifestanti si sono radunate per
chiedere “un’azione decisa contro gli insediamenti abusivi che stanno
avvelenando la vita in tanti quartieri della capitale”. La manifestazione è promossa da CasaPound, e partecipano diversi comitati tra cui il Caop di Pirina, e alcuni residenti di Tor Sapienza. A reggere gli striscioni ci sono il vicepresidente del comitato Tor Sapienza, Roberto Torre, e il presidente, Tommaso Ippoliti, ex consigliere di Alleanza nazionale al VII municipio considerato “riconducibile” all’occupazione di destra “Foro 753”, e una nutrita delegazione di Settecamini.
Proprio a Settecamini, quartiere periferico nel quadrante est di
Roma, nell’aprile del 2014 è cominciata quella che è stata definita “la
ribellione delle periferie”. Alla notizia dell’apertura di un centro
d’accoglienza in largo Davanzati, i residenti erano scesi in piazza per protestare.
I mezzi d’informazione, come succederà più volte nei mesi successivi,
presentano la “rivolta” di Settecamini come qualcosa di “spontaneo” e
dettato dall’“esasperazione” di cittadini stremati. Ma un volantino di chiamata alle armi, circolato in quei giorni, la dice lunga sull’ideologia di riferimento:
Il cittadino italiano è super tassato, esasperato, indifeso, senza
speranza e abbandonato dallo stato! L’Italia è in piena crisi economica e
conta circa 2.000.000 di disoccupati. QUESTO NON È RAZZISMO MA ORA PIÙ CHE MAI L’ITALIANO HA BISOGNO DI AIUTI DALLO STATO
– tanti di noi italiani hanno bisogno di una casa – tanti di noi
italiani abbiamo bisogno di sovvenzioni sanitarie – tanti di noi
italiani hanno bisogno di agevolazioni scolastiche per i propri bambini –
un clandestino a noi italiani costa circa 45 euro al giorno, soldi che
non abbiamo neanche per noi!
I residenti assicurano più volte che dietro le loro proteste non c’è
un movimento politico. Hanno ragione: di movimenti ce ne sono almeno
due – Lega nord e CasaPound. Una volta bloccata l’apertura del centro, Mauro Antonini di CasaPound rilascia
questa dichiarazione: “La mobilitazione popolare contro l’apertura di
un centro d’accoglienza per profughi e rifugiati politici a Settecamini è
stato un successo, non solo perché i residenti del quartiere hanno
aderito in massa alla protesta, sostenuta da CasaPound Italia, ma
soprattutto perché ha permesso la sospensione del progetto di apertura
del centro”.
Mario Borghezio, mentre la campagna elettorale per le europee entrava
nel vivo, aveva inaugurato il suo tour nelle periferie romane a Settecamini, insieme alle “facce pulite”
di CasaPound che gli hanno permesso di prendere più di cinquemila
preferenze in terra ostile e approdare trionfalmente
all’europarlamento.“Le istituzioni devono capire che questa è una scelta
scellerata”, aveva detto il leghista. “La tensione sociale è già alta e
se ci sarà una rivolta popolare io sarò in prima linea al fianco di
questi ragazzi“.
Sempre a maggio, il solito Tempo pubblica un articolo
intitolato “La lista segreta dei centri per rifugiati. Marea di
immigrati in arrivo a Roma”, in cui si parla di “assedio alle porte” e
“invasione di rifugiati”. Le cifre riportate nel pezzo parlano di “2.630
persone in arrivo […] distribuite tra 48 centri gestiti dalle ‘solite’
coop” (nel quadrante est della capitale ce ne sono almeno 15).
Nel mirino del quotidiano romano – e di molte proteste in periferia –
ci sono appunto i centri Sprar, acronomimo per Sistema di protezione
per richiedenti asilo e rifugiati. Nel sito ufficiale si può trovare la definizione del programma: “(Sprar) è costituito dalla rete degli enti locali che – per la realizzazione di progetti di accoglienza integrata – accedono, nei limiti delle risorse disponibili, al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo”.
Dalla cosiddetta emergenza Nordafrica del 2011 a oggi, tuttavia, questi centri hanno cambiato volto
in maniera significativa: da “eccellenza nel panorama dei sistemi di
accoglienza” sono progressivamente diventati “megaghetti” dove i
migranti rimangono “parcheggiati per mesi o anni senza alcuna
prospettiva reale di inserimento nel nuovo contesto sociale”.
Recentemente, inoltre, è emerso come il business dell’accoglienza fosse uno degli interessi principali della “mafia capitale”
di Massimo Carminati e in particolare di Salvatore Buzzi, presidente
del consorzio di cooperative Eriches 29 nonché (secondo i pm) “organo
apicale della mafia capitale”.
Quest’ultimo, in più intercettazioni, aveva spiegato che “il traffico
di droga rende di meno” del business dell’accoglienza, e che “tutti i
soldi, gli utili li abbiamo fatti sugli zingari, sull’emergenza
alloggiativa e sugli immigrati”. Le carte dell’inchiesta raccontano
di appalti pilotati e di capacità di “orientare i flussi” di migranti
per favorire un gruppo di cooperative – le “solite coop”, per usare
l’espressione del Tempo.
Oltre agli Sprar ci sono anche i Cas, Centri d’accoglienza
straordinaria, dove risiede circa il 50 per cento dei richiedenti asilo
(secondo i dati dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel
2013 le richieste di asilo presentate in Italia sono state circa
27mila). A differenza degli Sprar, i Cas sono “strutture di varia natura
il cui gestore ha stipulato una convenzione con la prefettura locale” e
si impegnano a “erogare un servizio di accoglienza a fronte di un
compenso di 30/35 euro quotidiani per ciascun migrante (che alla fine ne vedrà solo 2,5, ndr)”. Il problema, come scrive
Giovanna Vaccaro di Borderline Sicilia, è che troppo spesso i Cas sono
“fautori di un’accoglienza che si limita a garantire il vitto e
l’alloggio” e non offrono un vero percorso d’integrazione.
In più, spiega
un operatore, molti centri d’accoglienza “sono troppo isolati
geograficamente e socialmente, messi in periferia e senza servizi di
alcun tipo, ed è normale che esplodano conflitti”. È dello stesso avviso
l’avvocato Salvatore Fachile dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), che sottolinea come alla scarsa professionalità di alcuni gestori si aggiungano anche i tempi biblici
necessari per vagliare le richieste d’asilo: “Se un numero elevato di
persone viene ammucchiato in luoghi privi di servizi, dove non gli viene
neanche spiegata qual è la tempistica, dove sono costretti ad attendere
tempi lunghissimi in uno stato di sospensione esistenziale, poi è
normale che si creino incomprensioni sociali da entrambe le parti”.
In un contesto del genere – contrassegnato dal considerevole aumento degli sbarchi, dalla confusione burocratico-amministrativa, dagli interessi criminali e dalla disinformazione
sparsa a piene mani – non sorprende che a volte sia sufficiente una
semplice indiscrezione sulla possibile apertura di un centro per
scatenare la protesta. È successo a Torre Angela, un altro quartiere di
Roma est, quando alla fine di luglio 2014 comincia a circolare la voce dell’arrivo di ben “1.200 rifugiati” in un centro commerciale abbandonato in via Celio Caldo.
Nonostante le smentite di Marco Scipioni, presidente del VI
municipio, i cittadini non si fidano e bloccano più volte la Casilina.
Durante le proteste non mancano neppure le infiltrazioni degli
estremisti. Nel corso di un presidio, infatti, appaiono
“due striscioni con una croce uncinata e la sigla A.F., acronimo di
Azione Frontale”. Questo gruppuscolo di estrema destra, si legge nel
loro sito, “nasce dall’idea
di un gruppo di ragazzi, stufi di vivere passivamente il fenomeno di una
società ormai priva di valori e sani ideali”. Il loro obiettivo
primario è “la lotta ai poteri forti, nello specifico satanismo e
massoneria, signoraggio bancario e lotta al sionismo”.
La sigla aveva già fatto parlare di sé in diverse occasioni. Nel novembre del 2013, proprio a Torre Angela, era apparsa
una grossa svastica dipinta di rosso accompagnata dalla scritta “Più
omicidi stile Raciti” e firmata “Azione Frontale”. Qualche mese dopo,
alla vigilia del giorno della memoria, il “presidente” Ernesto Moroni (candidato con Forza Nuova alle regionali del Lazio del 2010) aveva inviato
tre pacchi contenenti teste di maiale alla sinagoga, al museo della
memoria a Trastevere e all’ambasciata israeliana ai Parioli.
In un’intervista
al Messaggero, Moroni aveva spiegato che la sua “provocazione” non
intendeva “offendere quei poveracci morti nei campi di concentramento
nazisti”, ma piuttosto porre all’attenzione dell’opinione pubblica la
sua teoria sulla nascita del nazionalsocialismo: “Il nazismo è stato
finanziato da importanti famiglie ebree sioniste, con lo scopo di creare
numerosi eventi a catena che poi avrebbero portato all’occupazione
tanto ambita di Israele. Diciamo che intendevo porre un interrogativo
alla comunità ebraica”.
Abitanti di Tor Sapienza protestano contro il centro di accoglienza per rifugiati, il 13 novembre 2014.
Matteo Minnella, OneShot
A Torre Angela, comunque, la presenza di personaggi del genere
spacca il fronte dei residenti e alimenta la “paura di uscirne
screditati o peggio additati come intolleranti o neofascisti.” Le
manifestazioni nel quartiere, tuttavia, cessano quando arriva la definitiva smentita dalla prefettura.
Tornando alla manifestazione del 12 luglio nel centro storico, la
presenza di una figura come Borghezio alla testa del corteo non sembra
scandalizzare nessuno – anzi. All’altezza dei Fori imperiali,
l’eurodeputato leghista improvvisa un comizio in cui sparge con il
megafono il suo Verbo: “Questa non è una manifestazione contro qualcuno.
È una manifestazione in difesa di Roma. È l’inizio della resistenza dei
veri romani al degrado, all’inciviltà, al disordine, alla criminalità,
all’invasione”.
Dietro di lui, intanto, un anziano signore si lamenta ad alta voce
con i responsabili di CasaPound. “Io so’ de Trastevere”, attacca l’uomo,
“ma proprio Borghezio famo parlà? Uno de Bolzano?”. Il climax
dell’eurodeputato, tuttavia, non è minimamente interrotto: “I cittadini
di Roma questa invasione non la vogliono. Marino e questo governo aprano
bene le orecchie: comincia la resistenza dei romani all’invasione. Noi
puliremo Roma, col vostro appoggio! Salviamo Roma!”.
Si tratta di parole certamente sorprendenti, soprattutto se
pronunciate da quello che è stato tra i più convinti alfieri
dell’indipendenza della Padania. Ma i tempi degli insulti contro “Roma
ladrona” e i romani che necessitano di “trapianti di cervello” appartengono a un’altra era.
Resta solo una domanda: a chi si riferisce Borghezio quando parla di “noi”? 3. Uno di noi
L’incrocio tra via Casilina e via della Marranella è, come al solito,
caotico e trafficato. Sono a Tor Pignattara, “Torpigna” o “Banglatown”
per i residenti, lo storico quartiere a “du’ passi dar centro de Roma”
che alcuni considerano un esempio di integrazione e multietnicità – su
cui spicca l’eccellenza della scuola Pisacane – e altri dipingono come un “laboratorio di fusione a freddo di odio razziale, criminalità, degrado e incuria” se non direttamente
una specie di Teheran nel cuore della capitale: “Negozi gestiti da
immigrati arabi, scuole coraniche e anche sale del V municipio concesse
alla comunità musulmana per insegnare ai bambini il Corano”.
Davanti a me, attaccato a un semaforo, c’è un volantino che
ricostruisce la vita di Muhammad Shahzad Khan, il pachistano di 28 anni
che la notte del 18 settembre 2014 è stato ammazzato di botte da un
ragazzo italiano di 17 anni in via Lodovico Pavoni. “ Shahzad proveniva
da una umile famiglia”, recita il testo, “era il figlio maggiore e per
aiutare i genitori e la sua famiglia aveva deciso di venire in Italia a
lavorare”. E il lavoro Shahzad l’aveva trovato: faceva il cuoco in un
ristorante pachistano nella zona di Prati.
Negli ultimi mesi, tuttavia, la perdita di quel posto l’aveva
costretto a fare il venditore ambulante per mandare denaro in Pakistan
alla moglie e al figlio di tre mesi, che non farà mai in tempo a
conoscere. Secondo Ejaz Ahmad, mediatore culturale e direttore di Azad,
giornale della comunità pachistana di Roma, Shahzad era conosciuto
“benissimo” nel quartiere: “Era un po’ disturbato, questo è vero, ma
non dava fastidio a nessuno. Cantava per strada le sure del Corano e in
italiano diceva Io sono musulmano, sono pachistano”.
Mentre sto finendo di leggere il volantino, un passante si avvicina
al semaforo e dà una letta sommaria. “Era un bravo ragazzo, come no,”
dice l’uomo tra sé e sé. “Ma mica hanno scritto che j’ha sputato in
faccia”. Il riferimento è a una delle versioni circolate subito dopo la
morte di Shahzad, descritto dalla stampa
come un “pachistano [sic] insolente” che, in preda al delirio etilico,
avrebbe sputato in faccia a Daniel (questo il nome del ragazzo italiano)
costringendolo a reagire con un pugno.
Poco distante dal volantino, la comunità pachistana e alcuni comitati
di quartiere sono radunati in piazza della Marranella per ricordare la
vittima. È il 28 settembre; solo una settimana prima, un corteo
improvvisato di residenti e amici di Daniel aveva percorso le strade del quartiere per mostrare solidarietà all’arrestato.
Sugli striscioni erano comparse frasi come: “Non sei solo siamo tutti
con te!”; “Ci manchi a tutti”; “Ridateci Daniel”; “Sai amico mio prima
la tua assenza era sostenibile, ora non più, ci manchi”; e infine, in
quello più significativo, “No razzismo, no diversità, una disgrazia non
ti priverà della tua libertà. Forza Daniel”. Come a dire: non si è
trattato di un omicidio razziale. È stata una tragedia – una
“disgrazia”, appunto. Cose che capitano.
L’indagine e i successivi provvedimenti giudiziari raccontano invece una storia completamente diversa: un’“aggressione a freddo” compiuta con “violenza indicibile”. Secondo l’autopsia Shahzad è stato ucciso con “ripetuti colpi” (e non con un singolo
pugno) alla testa che gli hanno provocato un’emorragia interna. E quasi
sicuramente non era nemmeno ubriaco. Una testimonianza del centro
d’accoglienza in cui il pachistano era ospitato dal 30 agosto riferisce
che “Shahzad non è mai rientrato in stato di ubriachezza”.
Il 14 ottobre è arrestato
il padre di Daniel, Massimiliano Balducci, con la pesante accusa di
concorso morale in omicidio aggravato dai futili motivi. Secondo gli
inquirenti e i giudici del tribunale del riesame, che hanno respinto il
ricorso che chiedeva la scarcerazione, sarebbe stato Balducci ad aver
istigato il figlio. Quella sera, stando alla ricostruzione del pubblico
ministero, l’uomo è infastidito dalla “litania” che il pachistano ripete
ad alta voce in via Pavoni. Dalla sua abitazione Balducci prova a
lanciargli una bottiglia piena d’acqua. Il lancio, però, non va a segno.
A quel punto partono gli insulti: “A’ testa di cazzo, vattene”. Vedendo
che il figlio è in strada, il padre lo esorta con queste parole:
“Daglie du’ pizze, caccialo via sto deficiente, sta testa di cazzo.
Sfondalo, gonfialo”. Daniel avrebbe agito di conseguenza, “per non
deludere suo padre”.
Nell’ordinanza dei magistrati è evidenziata anche un’altra
circostanza. Dopo il pestaggio, il padre scende in via Pavoni e si
avvicina al cadavere. Ma, scrive
la Repubblica, “invece di preoccuparsi per quanto combinato
dall’adolescente” Balducci sfonda a calci il portone del palazzo accanto
e tenta di buttare giù la porta dei vicini di casa “che avevano osato
gridare dal balcone di smetterla di picchiare quel giovane pachistano”.
L’uomo si scaglia contro di loro chiamandoli “spie infami” (avevano
allertato la polizia) e ricoprendoli di minacce: “Scennete giù che ve
sfonno. Viettela a prende co’ me invece che co’ mi fijo”. Per paura di
ritorsioni, i vicini sposteranno i figli dall’asilo e andranno ad
abitare in un altro quartiere di Roma.
Già prima dell’assassinio di Shahzad il clima nel quartiere era teso.
Una residente con cui parlo al sit-in del 28 settembre mi dice che
l’omicidio “è solo la punta dell’iceberg di continui atti di
provocazioni” che partono dalle aggressioni verbali e sfociano in quelle
fisiche, spesso e volentieri non denunciate.
“Da qualche tempo l’idillio della Tor Pignattara povera ma bella”, scrive
Valerio Mattioli su Vice, “tollerante e civile è stato eroso da una
generalizzata condizione di degrado. […] Gli ingredienti potete
immaginarli: criminalità, sporcizia, cassonetti intasati, lampioni che
non funzionano, puzza ovunque, risse, omicidi. È una zona depressa, Tor
Pignattara, da tanti punti di vista: quello umorale, quello urbanistico,
quello economico. La crisi qui ha portato a galla una serie di tensioni
rimaste per anni come sottotraccia”.
Naturalmente c’è anche chi cerca di sfruttare le tensioni per alzare
il livello dello scontro e indirizzare la protesta verso temi ben
specifici. A metà settembre era apparso per le vie del quartiere un volantino
intitolato “I cittadini si ribellano” e firmato da sedicenti “cittadini
di Torpignattara”. È una lettera aperta alla “dottoressa Rossella
Matarazzo”, la delegata alla sicurezza del comune di Roma, sulla
“situazione di totale degrado di questo quartiere”. Il tenore è
chiarissimo sin dalle prime righe: “Con l’alibi di un finto buonismo e
di una finta integrazione, che non è altro che una occupazione abusiva
del quartiere, i cittadini non hanno più una dignitosa vivibilità”. Più
avanti il testo recita, in un italiano traballante,
Con le frontiere aperte, gli immigrati che arrivano a Roma, vengono
canalizzati in particolari zone, dove gli amministratori permettono una
‘accoglienza’ fuori controllo, diversa dalle zone residenziali. Vista
l’attuale situazione mondiale di terrorismo ed epidemie, questo
permissivismo assoluto è molto pericoloso. Noi vogliamo il pieno
rispetto delle leggi da parte di “tutti”. Vogliamo riprenderci i nostri
diritti, nella reciprocità del vivere civile. Riaffermare la Cultura
del nostro quartiere: degli artigiani, della famiglia, della piccola
proprietà e delle nostre tradizioni civili e religiose.
I responsabili del neonato comitato Cittadini di Torpignattara sono Maurizio Benedetti (presidente), Stefano Selva (portavoce) e Celio Cegalin (vicepresidente). Se il tono della lettera non fosse sufficiente, basta farsi un giro nei profili Facebook dei tre – e nel gruppo aperto
– per accorgersi a quale parte politica si ispiri il comitato. Un altro
comitato di quartiere che si attesta su posizioni simili è il Filarete.
Come ricostruisce Mattioli su Vice, tra gli amministratori dell’omonimo
gruppo Facebook figurano il “cittadino per Alemanno” Fabio Fraticelli e “fan dell’organo semiufficiale dell’M5s TzeTze”.
Il contenuto della lettera lo si ritrova nell’assemblea pubblica del 13 settembre convocato presso la parrocchia di san Barnaba. Secondo il resoconto del magazine Il Corviale-Giornale delle periferie, quella riunione
ha messo in luce la manovra politica della destra romana volta a
strumentalizzare il malcontento della gente per le condizioni di estremo
disagio in cui è costretta a vivere. […] Un gruppo di cittadini – tra
cui alcuni commercianti – […] hanno inteso distaccarsi dall’iniziativa
del comitato di quartiere di Torpignattara per adottare metodi di lotta
ritenuti più efficaci nel portare avanti la vertenza di territorio. In
realtà, la riunione è stata condotta, in spregio a qualsiasi norma
democratica e di civiltà, per ottenere il consenso su un documento dai
chiari contenuti xenofobi.
L’articolo prosegue dicendo che la famigerata lettera
evita accuratamente di dire che il traffico di cocaina, la
prostituzione, l’usura, il riciclaggio di denaro sporco, il proliferare
delle sale scommesse […] a Tor Pignattara non sono altro che l’esito di
azioni di criminalità organizzata italiana di stampo mafioso. E
l’occultamento di questa verità serve ad addossare la responsabilità del
degrado alla presenza degli immigrati.
Il 15 ottobre 2014 l’ex sindaco Gianni Alemanno – su cui ora pende la pesantissima accusa
di associazione mafiosa – decide di fare una capatina nel quartiere e
individua subito i veri responsabili dei problemi di Tor Pignattara.
Il 16 ottobre i due comitati citati sopra – insieme ad altri due comitati di quartiere – mettono un banchetto in piazza della Marranella e cominciano a raccogliere le firme per una petizione
che, tra le altre cose, chiede “un presidio fisso delle forze
dell’ordine” e “un nuovo regolamento comunale per i campi nomadi”.
Il sit-in è contestato
da un centinaio di attivisti dei movimenti di sinistra al grido di “via
i fascisti da Tor Pignattara” e “gli unici stranieri sono gli sbirri
nei quartieri”. Anche l’Assemblea permanente dei cittadini e delle
cittadine di Tor Pignattara – sigla sotto la quale confluiscono (tra gli
altri) il comitato Certosa e il comitato di quartiere di Tor Pignattara
– decide di prendere esplicitamente le distanze
da coloro che “vogliono alimentare la guerra tra poveri, individuando
nel proprio vicino più debole la causa del loro malessere”.
Dal canto loro, i membri del comitato Cittadini di Torpignattara si professano “apolitici” e mostrano di avere le idee piuttosto chiare
sulle accuse di razzismo: “Noi vogliamo un’integrazione vera, non
un’invasione”. La presunta apoliticità di questi nuovi comitati di
quartiere di Tor Pignattara, tuttavia, è messa in dubbio
da quello che è successo il 2 dicembre durante la trasmissione Quinta
Colonna, quando una bandiera con la tartaruga di CasaPound è sventolata
in diretta tv tra “l’imbarazzo di qualche residente” e le prese di
distanza del comitato Filarete.
Via Facebook.
4. Caccia al nero
Nelle stesse ore in cui a Tor Pignattara andava in scena il corteo di
solidarietà con Daniel, un altro fronte dell’odio si apriva a circa 20
chilometri di distanza, a Corcolle – uno degli ultimi lembi orientali
del comune di Roma, un tranquillo insediamento urbano sorto (abusivamente)
alla fine degli anni sessanta e che dall’alto, tra palazzine e
villette, “appare come il dispiegarsi delle ali di un grande rapace”. La
zona – come denunciano i residenti – si allaga ogni volta che piove ed è quasi del tutto sprovvista dei servizi basilari.
Sono le 19.34 di sabato 20 settembre quando un autobus della linea
042 viene assaltato – senza alcun motivo apparente – da una “trentina di
immigrati” (qualche giornale aggiunge “che vivono nel centro
d’accoglienza nei pressi di Corcolle”, voce mai confermata). Secondo la
versione fornita dall’autista dell’Atac, Elisa De Bianchi, “quei tipi
urlavano, tiravano calci sulla carrozzeria e sulle porte. Mi hanno
gridato di tutto. […] All’improvviso ho sentito un botto e il finestrino
vicino al primo posto dietro di me è andato in frantumi: avevano tirato
una bottiglia di birra come un proiettile. Meno male che il bus era
vuoto, sennò ci scappava il morto”.
L’aggressione, sempre secondo l’autista, non finisce qui. Dopo una
chiamata al centro di controllo dell’Atac, De Bianchi è autorizzata a
rientrare nel deposito di Corcolle. Quando arriva al capolinea,
l’autista si ritrova davanti gli immigrati, questa volta “più cattivi”.
“Mi aspettavano”, dichiara
al Corriere della Sera. “Qualcuno li aveva portati fin lì. Ho chiuso il
finestrino, non potevo andare né avanti né indietro. […] Quelli intanto
spaccavano tutto, hanno finito di sfondare il finestrino. Ho pensato:
‘Se riescono a salire mi violentano e mi ammazzano’”.
A neanche ventiquattr’ore di distanza dal primo assalto a un autobus
di linea, nel tardo pomeriggio del 21 settembre un altro
assalto-fotocopia colpisce il bus 508, sempre a Corcolle. Anche in
questo caso la conducente è una donna. “Alla fermata c’erano una
quindicina di persone”, racconta
Federica Galesso alla Repubblica. “Molte sono salite, mentre quattro
sudafricani [sudafricani?, ndr] hanno aspettato che ripartissi e poi
hanno scagliato contro l’autobus un paio di grosse pietre. Dall’interno
della cabina di guida ho sentito due tonfi, poi le urla spaventate dei
passeggeri”.
La doppia aggressione scatena la rivolta di una parte della
popolazione di Corcolle, che individua i responsabili della violenza nei
53 richiedenti asilo ospitati nel centro d’accoglienza di via
Novafeltria, aperto il 13 settembre. La sera dello stesso 21 settembre,
qualche centinaio di persone scende in strada, blocca via Polense e fa
partire una vera e propria “caccia al nero”. Due immigrati sono tirati
giù dal 508, che arriva dalla limitrofa Castelverde, e pestati: uno
finirà in ospedale; l’altro si salverà gettandosi nel fosso che
costeggia la carreggiata. La terza vittima è un residente nero che abita
a Corcolle da vent’anni: la polizia e gli abitanti del quartiere che lo
riconoscono riescono a sottrarlo alla folla.
Sul posto c’è anche il presidente del VI municipio Marco Scipioni (del Partito democratico), che il giorno dopo dichiara:
“Qui la situazione è esasperata, c’è un allarme sociale che resta
inascoltato. È assolutamente necessario allontare gli immigrati dal
nostro municipio”. Insomma, a Corcolle è andato in scena uno scoppio di
rabbia popolare – ma non razzista, ci mancherebbe – dettata unicamente
dall’“esasperazione”.
Quella riportata finora è la cronaca “ufficiale” di quello che è
successo a Corcolle in quei giorni. Quella ufficiosa, invece, è molto
meno limpida e lineare. Dopo la “caccia al nero”, il sito DinamoPress racconta
che “è uso comune di non pochi autisti (non tutti, sia chiaro!) quello
di non fermarsi alle fermate designate se a queste ci sono parecchi
migranti che aspettano,” costringendo questi ultimi a macinare
chilometri, specialmente in periferia. Quel sabato l’aggressione
potrebbe essere stata una reazione dettata dalla rabbia dopo che ben tre
autobus – nell’arco di quasi due ore – avevano tirato dritto.
Inoltre, come ricostruisce Riccardo Staglianò sul Venerdì del 28
novembre, il doppio assalto agli autobus “gronda incongruenze” e,
particolare piuttosto curioso per fatti di una tale gravità, non ci sono
testimoni. A parte uno – Emilio Tora, un autista dell’Atac “sospeso per
non precisati motivi disciplinari”. È lui che De Bianchi chiama subito,
ad aggressione ancora in corso. Ed è sempre lui che confermerà, a rete
unificate, la versione di De Bianchi (che non ha denunciato l’accaduto
alla polizia).
Tora è un personaggio abbastanza sui generis, per così dire: sull’avambraccio destro ha tatuato
“NOBIS” (l’“a noi” fascista in latino) in caratteri cubitali, e la sua
pagina Facebook – consultata da Staglianò – è una sorta di manuale del
Perfetto Fascio-Xenofobo 2.0:
Fiero di essere razzista per Dio scrive, tutto maiuscolo, il 20 settembre, nell’imminenza della prima aggressione (in un commento chiosa: Bastardi schifosi sulla brace li metterei). L’indomani si compiace della manifestazione: Corcolle bloccata, tutti contro i negri. Ma già a giugno commentava entusiasta il linciaggio a morte di un borseggiatore rumeno sulla metropolitana: E dajee vedemo mpo se ce sentono de ste recchie rumeni demmerdaaaa. Un giorno posta foto tenere con la figlia, l’indomani quelle del Duce.
Non è nemmeno chiaro chi abbia materialmente compiuto la “caccia al
nero”. Girando per Facebook ho trovato la testimonianza di una
residente, fatta in presa diretta proprio in quel 21 settembre. Il post,
che trascrivo qui sotto in ordine cronologico, è molto interessante
perché rende conto di come quella sera le voci – compreso un tentato
stupro dei rifugiati a danno di una “15enne del quartiere” – girassero
in maniera del tutto incontrollata:
[21:14] Scontro a Corcolle tra quelli di colore e corcolle. Hanno
distrutto autobus di linee… importunato ragazze… ora ce umana dirigente
capo della polizia…
[21:19] Hanno preso a sassate una 15 enne del quartiere. Ste merdeeee
[21:43] Dicono che hanno tentato di violentarla
[21:44] Ecco i cellerini
[21:52] I ns ragazzi cominciano a scaldarsi.
[22:35] Li stanno andando a tirare fuori dalla palazzina
[22:44] Scipioni [presidente del municipio] pure è qui
[23:23] È passato un nero a momenti lo massacravano
[23:24] La mattina [i neri] stanno nudi per strada…
[23:25] Dicono che ne arrivano altri… dicono che tra una settimana li fanno sfollare ma i ragazzi minacciano guerra da domani…
Per placare la “guerra” la polizia presidia per qualche giorno il
centro d’accoglienza, mentre la prefettura fa sapere di voler
“alleggerire” la zona “portando un po’ di migranti negli altri centri,
in aree diverse”: “Nessuna operazione eclatante di trasferimenti di
massa”, scrive
il cronista Mauro Favale su la Repubblica, “piuttosto spostamenti
mirati, tre alla volta, anche per rispondere alle pressioni di quel
pezzo di quartiere che esplicitamente gli addossa tutti i problemi di
Corcolle”. La notizia dell’avvenuto trasferimento di “circa un terzo dei migranti” ospitati nella struttura la dà Scipioni.
Ma chi sono questi “ns ragazzi”? Il Messaggero scrive
che alcuni residenti hanno visto “bandiere di Forza Nuova” alla “prima
manifestazione”. Secondo Lucrezia La Gatta di Tiburno.tv, “almeno metà
di quelle facce io non le avevo mai viste. Non erano di qui”. Un altro
testimone racconta
invece a La Fiera dell’Est che “dopo il secondo assalto una frangia di
ragazzi del quartiere, quelli che si professano ‘di destra’, decide di
radunarsi sulla Polense per picchiare qualche nero. Non avevano un’idea
ben precisa di cosa stessero facendo e perché, volevano solo sfogarsi.”
RomaToday riporta
che “per gli abitanti i raid e le spedizioni punitive sarebbero state
condotte da pochi gruppi di violenti in odore di estrema destra”. Il
giorno dopo l’aggressione, nel quartiere appare anche la scritta “NO
NERI”, accompagnata da una croce celtica e una svastica.
Una manifestazione organizzata dai comitati di quartiere delle
periferie della capitale contro l’operato del sindaco, l’immigrazione e
il degrado della città, il 15 novembre 2014.
Christian Mantuano, OneShot
Se ancor oggi non c’è la certezza su chi abbia picchiato gli
stranieri, ci sono pochissimi dubbi sul fatto che le destre abbiano
cercato di soffiare sul fuoco
in maniera spudorata. Subito dopo l’aggressione ai bus, Giordano
Tredicine, vicepresidente dell’assemblea capitolina in quota Forza
Italia, afferma che “il limite della tollerabilità è stato ampiamente e
definitivamente superato”; Gianni Alemanno dice “basta buonismo, è
arrivata l’ora di alzare la guardia”; e Francesco Storace, capogruppo di
La Destra in consiglio regionale, chiede di individuare gli
“appartenenti alla tribù che ha tentato il linciaggio” (e no, non si
riferisce ai fatti della sera del 21 settembre).
Il 22 settembre sui banconi dei negozi appare una raccolta di firme
organizzata dall’associazione di commercianti e artigiani made in
Corcolle. Nel testo della scheda si legge: “Gli abitanti della zona
richiedono l’allontanamento degli immigrati nei centri di raccolta del
Municipio a causa di numerose violenze provocate dagli stessi del
territorio”. Italo Marziali, presidente dell’associazione, spiega
così la genesi dell’iniziativa “antinegro” (com’è chiamata in
quartiere): “Quella sera il presidente del municipio ci ha chiesto di
raccogliere le firme e così abbiamo fatto. Il testo lo abbiamo scritto
noi. Ho un nipote di colore quindi chiamarmi razzista è davvero fuori
luogo. Lo scopo della raccolta firme è quello di chiudere il centro
profughi e di mettere all’attenzione delle istituzioni le problematiche
del quartiere. In un momento di rabbia si possono commettere degli
errori”.
La sera stessa è organizzato un presidio in via Spinetoli, davanti a
un hotel dove voci incontrollate prospettano l’arrivo di “altri migranti
da ospitare nella struttura”. Il Messaggero parla esplicitamente di
“frange dell’estrema destra e del panorama ultrà delle curve
dell’Olimpico” che “tentano di seminare campagne xenofobe”. Al presidio,
riporta sempre l’articolo, “c’era solo un gruppetto isolato di
estremisti tenuto a distanza dagli altri”.
Gli stessi timori infondati sull’“invasione” di migranti (questa
volta si parla di “pullman con 800 rifugiati”) si ripetono l’11 ottobre e
causano un’altra mobilitazione di cui non ha parlato praticamente
nessuno – le telecamere, infatti, avevano già ampiamente abbandonato il
quartiere. Negli striscioni esposti al sit-in ci sono slogan come
“L’Italia agli italiani” e “Basta invasione”. Alle 8 di sera i
manifestanti – tra cui, riporta
il Tempo, ci sono anche residenti dei quartieri limitrofi di La Storta,
Castelverde, Ponte di Nona, Torre Angela – decidono di bloccare via
Polense. La polizia riceve l’ordine di liberare la strada e porta in questura otto persone, denunciate per “interruzione di pubblico servizio, violenza privata e resistenza a pubblico ufficiale”.
A proposito di strumentalizzazioni, dopo la “caccia al nero” ci sono
state diverse passerelle dei politici. Il 28 settembre Giorgia Meloni di
Fratelli d’Italia si reca
nel quartiere per “essere al fianco dei cittadini di Corcolle”,
abbandonati da “un’amministrazione comunale che sembra occuparsi più
degli immigrati che dei cittadini”.
Qualche giorno dopo è il turno di Borghezio, che arriva a Corcolle
scortato dai militanti di CasaPound e accolto dalla scritta “Lega
salvaci tu” – una circostanza abbastanza curiosa, visto che alle ultime
europee il partito di Matteo Salvini qui ha preso la bellezza di 56
voti. Anche in questo caso, le parole di Borghezio
sono un inno alla fratellanza tra i popoli: “Questa periferia romana è
già abbandonata a se stessa, e bisogna capire se è il caso di installare
proprio qui un centro rifugiati. Ovviamente se rimanessero tranquilli
all’interno del loro centro non ci sarebbero tensioni, ma dal momento
che spesso girano in gruppi consistenti e sotto l’effetto di bevande
alcoliche c’è il rischio che la situazione possa degenerare”.
Come ha sottolineato
Matteo Muoio su La Fiera dell’Est, “in molti nel quartiere hanno
pronunciato parole di condanna verso gli eventi di domenica 21 e i loro
protagonisti”, e il comitato di quartiere “se ne è dissociato
completamente”. Invece Luca Casciani, speaker della radio romana Rtr 99,
ha mostrato entusiasmo per la “caccia al nero” nella sua trasmissione Giorno per giorno… Cor Veleno:
Quello che servirebbe è il matto, uno che in macchina ha una
mitragliatrice e ne fa secchi 34, se ne sono salvati 6, ecco il problema
è quello, che se ne sono salvati 6… Quando i selvaggi si appropriano di
una cosa tua, tu sei costretto a non chiamarli selvaggi, se no vieni
denunciato, se no vieni chiamato razzista. Tu mantieni i selvaggi che
distruggono la tua città e la tua civiltà e se provi a ribellarti ti
chiamano razzista, se provi a organizzare delle ronde ti chiamano
fascista… Qualcuno mi ha detto: ‘secondo te cosa bisogna fare per vedere
gli italiani che si ribellano, che scendono in piazza?’. Ecco bisogna
attendere quello che è successo a Corcolle, bisogna attendere che
qualcuno muoia… che differenza c’è tra le scimmie, i Tarzan, che
attaccavano i villaggi di coloni e queste scimmie che attaccano un
autobus dell’Atac?… Se ti permetti di distruggere un mezzo che fa parte
della collettività, la stessa collettività che ti mantiene, brutta
sanguisuga schifosa, e qualcuno ti ammazza, io dico che ha fatto bene.
Casciani e compagnia non dovranno aspettare molto tempo per un’altra
punizione collettiva dei “selvaggi”. Corcolle, infatti, è stata la
prova generale di quello che sarebbe successo poco meno di un mese dopo,
in un quartiere a ridosso del Grande raccordo anulare che ormai
l’Italia intera conosce: Tor Sapienza. 5. Il pogrom di viale Giorgio Morandi
“Tutti parlano di noi in questi giorni, siamo sotto i riflettori:
televisioni, telegiornali, stampa. Ma nessuno veramente ci
conosce”.–Dalla “Lettera aperta dei rifugiati del Morandi”, 14 novembre 2014
Percorro più volte – prima in motorino, poi a piedi – l’anello di
cemento di viale Giorgio Morandi, questa parte di Tor Sapienza arroccata
su una collinetta che, sin dagli anni settanta, l’area storica del
quartiere ha sempre considerato come un corpo estraneo. I famigerati
palazzoni dell’Ater, ripresi in lungo e in largo dalle telecamere di
telegiornali, talk show e programmi pomeridiani, scorrono immobili ai
miei lati. Gli alberi sono stati potati, le strade sono più o meno
pulite e i lampioni funzionano regolarmente. Sembra un anonimo viale,
come ce ne sono tantissimi a Roma, e non il luogo che per una settimana è
diventato un violento focolaio del rancore anti-immigrati.
Qualche abitante è al bar, altri scaricano la spesa dall’auto. Non ci trovo assolutamente nulla delle pompose descrizioni
fatte a caldo dagli Editorialisti Di Un Certo Peso, in cui si declamava
la poetica sbandata dei “contenitori di vite disperate e imprigionate”
che si “spiano e si odiano” da palazzi che somigliano a “placidi asini” e
invece sono “muli rabbiosi”. Davanti al centro d’accoglienza ci sono
ancora due camionette dei carabinieri e uno schieramento di agenti.
Dietro di loro i richiedenti asilo del centro – quelli rimasti, almeno –
parlano sulla porta d’ingresso. Sui vetri è impresso il marchio della
sassaiola del 10-11 novembre. È l’unico segno visibile dell’assedio
razzista al centro.
Alle pendici dei palazzoni, in uno spiazzo di cemento davanti al
mercato, i lampeggianti della polizia municipale illuminano a
intermittenza viale Giorgio De Chirico. È il tardo pomeriggio del 25
novembre: movimenti, centri sociali, associazioni del territorio e
residenti di Tor Sapienza (pochissimi, tuttavia, quelli di viale
Morandi) sono riuniti in un’assemblea pubblica – la seconda di questo tipo convocata per “reagire ai fatti di viale Morandi”.
A margine dell’incontro parlo con Gabriella Errico, operatrice della
cooperativa Un sorriso che gestisce il centro d’accoglienza. “Adesso la
situazione è molto tranquilla”, mi dice. “Siamo in uno stallo. I ragazzi
entrano ed escono, le attività sono riprese in maniera normale”. Tutto a
posto con i residenti, quindi? “Siamo sempre andati d’accordo. È ovvio
che nella convivenza c’è discussione, ma si è sempre superata. C’è
comunque una forma di dialogo. Per strada ci si parla”. E perché siete
diventati un bersaglio? “Stavamo nel posto sbagliato al momento
sbagliato”, risponde Errico.
Secondo un residente che ha parlato
nell’assemblea di piazza De Cupis del 19 novembre, “la rivolta è
comprensibile, l’obiettivo terribilmente sbagliato. Bisognava andare al
comune e dalle istituzioni, non prendersela con i rifugiati”. A distanza
di qualche settimana, tuttavia, i motivi dell’assalto non sono ancora
stati chiariti del tutto.
Nel fiume di analisi che si sono riversate su Tor Sapienza, in pochi
hanno inquadrato i fatti in una prospettiva di ampio raggio. Tra questi
c’è l’antropologa Adriana Goni Mazzitelli, che in un lungo articolo
pubblicato su Comune-Info ha ricostruito la storia del quartiere.
Fondato nel 1923 come “quartiere operaio” dal ferroviere molisano
antifascista Michele Testa, Tor Sapienza attraversa almeno quattro
“tipologie d’insediamento”:
La prima è il quartiere originario, case basse e una fisonomia da
piccola città, la seconda è quella dei ‘palazzoni’ per gli ex baraccati
del centro di Roma costruiti negli anni settanta e ottanta, come il
complesso Ater Giorgio Morandi; la terza è quella delle strutture per le
migrazioni o le popolazioni ‘temporanee’ e ‘tollerate’, come i campi
rom (per i profughi della guerra dei Balcani) costruiti negli anni
novanta o i centri di prima accoglienza (Cpa) per rifugiati e
richiedenti di asilo, […] e infine la quarta, quella delle occupazioni
per il diritto all’abitare (tra cui c’è l’esperienza di Metropoliz, la ‘città meticcia’ nata nel 2009 a seguito dell’occupazione dell’ex salumificio Fiorucci in via Prenestina 913, ndr)
Nell’incuria generalizzata e nell’assenza delle istituzioni, il
quartiere diventa così una “periferia d’enclave” composta da
“insediamenti casuali e frammentari” che non sono mai stati messi in
condizione di “interagire” e di “crescere insieme per diventare
società”. Anzi: i vari frammenti del quartiere, spiega l’antropologa,
sono in perenne tensione tra di loro e di conseguenza “accendono
conflitti”.
Per rendersene conto basta guardare la cronologia delle proteste dei residenti – anche in piazza – che hanno scandito gli ultimi mesi. Tanto per cominciare, i cittadini da parecchio tempo denunciano (attraverso i social network e la stampa)
i roghi tossici che si levano dal campo rom di via Salviati. Altri
problemi sollevati dagli abitanti sono il generale senso di insicurezza e
quello della prostituzione in strada. Sui palazzoni di viale Morandi, inoltre, pesa il fallimento di un progetto di riqualificazione
che doveva far sorgere “un centro commerciale con uffici dell’allora
unità sanitaria locale, negozi e associazioni culturali e di quartiere”.
Non se ne fece mai nulla, e nel corso degli anni quei locali sono stati
“prima occupati abusivamente da cittadini italiani, e poi da romeni,
che attualmente occupano la maggior parte degli immobili”.
È in un contesto simile che nell’ottobre del 2014 comincia a
spargersi la voce dell’apertura di un nuovo centro d’accoglienza in uno
stabile abbandonato in via Rucellai. Il consigliere municipale Daniele
Rinaldi (Fratelli d’Italia) presenta un’interrogazione
al presidente del municipio Giammarco Palmieri chiedendogli di
“esprimere una posizione di diniego chiara e netta” per “non peggiorare
una situazione già precaria e difficile”.
Il comitato di quartiere di Tor Sapienza, in un comunicato
dice che “quello che sta accadendo in via Rucellai è qualcosa di
incredibilmente oscuro e misterioso. […] Un cantiere a tutto ritmo ove
operai in tuta bianca, mascherina e casco stanno rimuovendo amianto e
facendo una ristrutturazione straordinaria, ma per fare cosa? Sembra
oramai quasi accertato che si voglia fare un centro di accoglienza
all’insaputa dei cittadini già stremati da quelli esistenti”. Il 10 e
l’11 ottobre alcuni residenti – un centinaio – organizzano un presidio
davanti alla struttura, convinti che stiano per arrivare i migranti da
Corcolle. A piazza De Cupis, intanto, circa 500 persone – tra cui a un
certo punto appare
anche il solito Alemanno – si riuniscono per manifestare contro i roghi
del campo rom e, appunto, l’apertura del nuovo centro. Quest’ultima,
infine, è definitivamente smentita da Palmieri.
Le proteste si placano per qualche settimana, fino a quando alcuni
fatti di cronaca non fanno scattare la collera contro il centro –
sebbene l’ottantina di “ospiti” (di cui la metà minori non accompagnati)
non abbia mai avuto nulla a che fare con questi episodi. Alla fine di
ottobre un uomo di 62 anni viene
“picchiato a sangue da due individui” e derubato in un tratto di viale
Morandi. Il venerdì prima degli assedi, scrive il Tempo, “due ladri
georgiani che si erano intrufolati nel condominio popolare di via
Cremona sono stati malmenati e poi denunciati dagli abitanti”. La vera
miccia che fa accendere la rivolta è la notizia – ancora adesso non si
riesce a capire quanto sia confermata o meno – di un tentato stupro (compiuto, si presume, da persone “dell’Est”) ai danni di Ambra, una giovane madre di 28 anni abitante del quartiere.
La sera del 10 novembre un gruppo di persone decide di farsi giustizia da solo. Alcune testimonianze
dicono che, prima di bersagliare il centro, gli uomini “armati di
spranghe e bastoni” hanno tentato un blitz in “una chiesa sconsacrata”
in via Carlo Balestrini “occupata dal coordinamento di lotta per la
casa”. Alle 11 di sera Roberto Torre, vicepresidente del comitato di
quartiere di Tor Sapienza, scrive
su Facebook che “a Giorgio Morandi c’è molta confusione, forti
esplosioni, molta polizia, sembra una guerrilla, lancio di sassi contro
il centro di accoglienza, una situazione veramente esplosiva”.
Il raid è compiuto al grido di “ve bruciamo vivi”, “negri demmerda” e “non uscite più perché v’ammazzamo”. I residenti sul posto si lamentano
con i cronisti: “Non ne possiamo più, gli zingari di là, dall’altra
parte i negri”. Gli stessi aggiungono che gli immigrati “vengono a fare i
porci comodi loro a casa nostra”. Secondo RomaToday, tra i manifestanti c’erano anche “personaggi inneggianti al Duce”.
Nelle prime, convulse fasi dell’assalto qualcuno scrive nel gruppo
Facebook di Tor Sapienza che sono state le “bestie da cancellare” (cioè i
migranti del centro) a iniziare il lancio di oggetti contro i
residenti. La polizia, però, smentisce categoricamente questa versione.
Dopo il primo assalto, il presidente del comitato Tor Sapienza Tommaso
Ippoliti cerca di spiegare
a caldo l’accaduto: “Questa notte è stata un’iniziativa spontanea di
alcuni abitati esasperati. Non è una questione di razzismo né di ronde,
siamo solo stanchi, non ne possiamo più”.
Nel pomeriggio dell’11 novembre si tiene una breve assemblea di
quartiere, che si trasforma in fretta in un “corteo spontaneo” dei
residenti di fronte al centro. I portavoce del comitato di quartiere spiegano
che “la rabbia delle oltre mille famiglie scese in piazza per trovare
una soluzione al problema della poca sicurezza ha portato nuovamente i
residenti a protestare sotto al centro d’accoglienza di via Morandi”. La
situazione, se possibile, è ancora più tesa del giorno prima, e le
dichiarazioni dei residenti raccolte dalla stampa non promettono nulla
di buono. “Appena la polizia e le telecamere se ne vanno”, dice
un ragazzo ai giornalisti, “entriamo nel palazzo degli immigrati e li
buttiamo giù dalla finestra uno dopo l’altro. Così vediamo se continuano
a tirarci bottiglie e a pisciare sui passanti”. Una signora ha le idee
ancora più chiare: “Du’ taniche de benzina e ‘n fiammifero”.
Poco dopo le dieci e mezza parte il secondo assalto, nettamente più
pesante del primo. Una settantina di manifestanti a volto coperto lancia
sassi e bombe carta contro il centro e dà alle fiamme diversi
cassonetti. I rifugiati cercano di difendersi con quello che trovano
dentro la struttura. Una residente descrive
così la scena su Facebook: “Cassonetti incendiati, sassaiole e lanci di
bombe carta, dal centro rispondono gettando di tutto dalle finestre è
un macello io ci sono proprio di fronte temo il peggio”. Alla fine la
polizia disperde gli incappucciati con cariche e lacrimogeni. Il
bilancio finale è pesante: una volante della polizia danneggiata e una quindicina di feriti tra agenti, manifestanti e un cameraman della trasmissione Virus.
Si è speculato molto sia sull’identità di questi incappucciati sia se
dietro al tentato pogrom ci fosse un certo tipo di “regia”. Qualcuno,
come in questa corrispondenza,
ha descritto i manifestanti a volto coperto come persone capaci di
pianificare un attacco “violento ed effettuato da più lati”, nonché di
“stare in strada e reggere gli scontri”. “È molto probabile”, prosegue
il pezzo, “che una parte degli assalitori sia venuta dall’esterno del
quartiere e che vi fossero fascisti”. Gli investigatori, stando al Messaggero,
stanno indagando proprio negli “ambienti degli ultrà e della destra più
estrema”. Nello stesso articolo si parla anche di pusher locali che
avrebbero fomentato gli animi “per nulla contenti della presenza delle
forze dell’ordine nella zona, e anche preoccupati che qualcuno degli
immigrati possa rubargli fette di mercato dello spaccio”.
Nei giorni successivi all’attacco, un ragazzo che abita a Tor Sapienza scrive un post
su Facebook in cui parla di “fiaccolate, […] manifestazioni e scontri
provocati e stimolati da associazioni di quartiere infiltrate da
organizzazioni di estrema destra”. Un altro abitante del quartiere,
ripreso in forma anonima dalle telecamere di Piazza Pulita,
sembra confermare quest’ultima versione: “Gente che non è del quartiere
c’è dietro a questa cosa. C’è una regia dietro, li ho visti con i miei
occhi. Sono arrivati qui e hanno cominciato a istruire, hanno preparato.
Io stesso li ho sentiti dire alle donne di parlare di ‘sti tentati
stupri, di furti, di calcare la mano, di fare più pesante quella che è
la situazione reale”.
Durante le interrogazioni parlamentari alla camera del 25 novembre, il ministro dell’interno Angelino Alfano ha però dichiarato
che “al momento non ci sono riscontri sulla presenza di elementi
dell’estrema destra romana o ultrà delle tifoserie locali negli scontri
verificatisi a Tor Sapienza lo scorso 11 novembre”. Nel frattempo il
pubblico ministero Eugenio Albamonte, titolare del procedimento, ha incaricato
la Digos di stilare un’informativa per ricostruire quelle due notti di
violenza. In attesa che si individuino i responsabili – se mai saranno
individuati – restano però le pesantissime conseguenze politiche del
caso.
Il 13 novembre l’amministrazione comunale (di comune accordo con la prefettura) fa partire il trasferimento
dei minori in altri centri. L’assessorato alle politiche sociali fa
sapere che non si tratta di “uno sgombero”, e che comunque la decisione è
stata presa per “evitare il generarsi di altri incidenti e per far
tornare rapidamente la calma”. Il giorno dopo, il 14 novembre, almeno
quindici minori tornano a piedi
nel centro di viale Morandi perché, fanno sapere i responsabili della
struttura, “vogliono vivere qui e riprendere le loro attività”. Sono
però costretti ad andarsene di nuovo, anche perché la macchina della
strumentalizzazione politica ha cominciato a funzionare a pieno regime.
Nell’arco di qualche giorno a Tor Sapienza arrivano Giorgia Meloni, il sindaco Ignazio Marino (che da un lato è fischiato e insultato dai residenti, dall’altro è completamente abbandonato dal suo partito), Paola Taverna del Movimento 5 stelle, i neofascisti di Forza Nuova e l’immancabile Mario Borghezio-più-scorta-di-CasaPound che, sorseggiando un cappuccino in un bar, si dice “conquistato” da questa “ribellione di persone che amano il proprio quartiere”.
Lo smistamento dei minori – neanche fossero pacchi indesiderati – segna indubbiamente uno spartiacque nell’autunno caldo di Roma est. Lo “svuotamento forzoso”
del centro “a furor di assalti razzisti” costituisce un precedente
molto pericoloso. La “resa” ai “malumori anti-immigrati” della piazza,
infatti, potrebbe ingenerare la convinzione che colpire impunemente
l’anello debole della catena sociale sia una valida strategia per
attirare l’attenzione sui problemi dei quartieri.
Dopo il doppio assalto, insomma, il quartiere Tor Sapienza è
diventato il modello Tor Sapienza – una forma di lotta idealmente
replicabile in altre realtà, e che alcuni ritengono semplicemente
perfetta per risolvere i problemi di molte altre periferie italiane.
6. L’ascesa del cittadino indignato
Sono da poco passate le dieci di mattina di sabato 15 novembre quando
un gruppo di manifestanti in piazza dell’Esquilino stappa un fumogeno
bianco. Nello striscione che reggono in mano è impressa, in un
ineccepibile fasciofont,
la scritta “Periferie in rivolta”; ai lati di questa c’è il faccione di
Ignazio Marino barrato da una striscia rossa. Qualcuno sventola il
tricolore, e in un altro striscione la parola “clandestino” è usata per
denigrare il sindaco di Roma.
La cosiddetta Marcia delle periferie sul Campidoglio
– organizzata da mesi e sospinta dai fatti di Tor Sapienza – è pronta a
riversare la rabbia di più di 60 comitati di quartiere e di migliaia di
romani sul centro storico di una città di cui fanno parte, ma che
sembra averli dimenticati. A garantire la natura apartitica dell’evento è
l’organizzatore della manifestazione, il Caop di Franco Pirina.
“Braccia tese” e “saluti romani” non saranno i benvenuti, così come la
politica: “Non vogliamo essere considerati né di destra né di sinistra,
né altro. Ciascuno vota come vuole, insieme siamo cittadini, esasperati
dal degrado di Roma”.
La manifestazione organizzata dai comitati di quartiere delle
periferie della capitale contro il sindaco, l’immigrazione e il degrado
della città, il 15 novembre 2014.
Matteo Minnella, OneShot
Basta destreggiarsi tra cartelloni e tricolori per accorgersi che in
mezzo ai “cittadini indignati” – poco più di mille – c’è una selva di
facce conosciute che appartengono quasi tutte alla destra romana. In
piazza, infatti, ci sono militanti di CasaPound e politici di Forza Italia e Fratelli d’Italia (partito che, molto gentilmente, ha anche offerto il retro di alcuni striscioni).
Poco prima della partenza – e con un perfetto tempismo – Gianni
Alemanno dardeggia tra la folla, si piazza dietro uno striscione e
sorride ai fotografi. Qualche manifestante azzarda un applauso; dietro
di me, invece, dei cittadini lo mandano “affanculo” più volte e lo
ricoprono di insulti, tra i quali mi appunto “a’ ripulito” e “a’
giudeo”. Il giornalista Marco Carta individua anche Giordano Tredicine, il deputato di Fratelli d’Italia Fabio Rampelli, i consiglieri regionali di Forza Italia Luca Gramazio – che qualche settimana dopo sarà coinvolto nell’indagine su “Mafia Capitale” – e Antonello Aurigemma, e anche i consiglieri della Lega dei popoli – il partito “gemello” per il centrosud della Lega nord – Marco Pomarici e Luca Aubert.
Per non farsi mancare proprio nulla, alla “marcia delle periferie”
partecipano anche vecchie conoscenze del neofascismo romano. Nelle prime
file c’è il fondatore del Fronte nazionale ed ex di Avanguardia nazionaleAdriano Tilgher, che nel 1976 fu condannato per ricostituzione del partito fascista – condanna di cui, ha dichiarato
qualche anno fa, “sono orgoglioso”. Poco più in là c’è Andrea Insabato,
militante neofascista di lungo corso – e dall’altrettanto lunga fedina penale – conosciuto per aver messo una bomba nella sede del quotidiano il manifesto nel 2000.
Anche Danilo Cipressi – l’uomo con i Ray-Ban a goccia che anima il
corteo dal furgoncino – ha un curriculum di tutto rispetto. Oltre a
essere il fondatore del Fronte romano riscatto popolare (“movimento spontaneo fuori da qualsiasi schema politico”), Cipressi è autore dell’imperdibile libro A Roma se la tirano pure le quaglie e ha un canale YouTube
in cui parla del degrado che ammorba la capitale, “ragazze belghe e
fiche di legno di Roma” e “uomini tappetino da mi piace su fb”.
Certo, se si cerca un po’ su internet salta fuori che l’anno scorso Cipressi è stato candidato con CasaPound
nel XIII municipio (“Con CasaPound”, aveva spiegato a Ostia.tv
“vogliamo costruire un’Italia migliore”) e il 18 dicembre 2013 ha arringato la folla in piazza del Popolo durante la fallita marcia su Roma dei “forconi”.
Il corteo, comunque, si muove verso le undici. Le rivendicazioni
tirano in mezzo di tutto, inclusi il divieto di vendere alcol dopo le 22
e l’eliminazione dalle strade del centro delle “botticelle” romane. Il
vero collante della protesta, come facilmente intuibile, è l’opposizione
al sindaco Marino e a centri d’accoglienza, immigrati e “zingari” che
“distruggono la città”.
Dal “palco”, intanto, Cipressi elogia gli abitanti di Tor Sapienza
presenti in piazza – pochissimi, tra cui Roberto Torre – che “hanno
difeso il loro quartiere”. Naturalmente, come puntualizzato a getto
continuo, “il razzismo non c’entra nulla” – è semplicemente
un’invenzione della stampa politicizzata. A riprova del sentimento
antirazzista che anima la mobilitazione, verso la fine di via Cavour
Cipressi fa partire un siparietto atroce facendo salire sul furgoncino
un manifestante nero.
Una piccola crepa nella retorica dell’“apoliticità” della marcia si
verifica all’altezza di largo Corrado Ricci, quando alcuni manifestanti,
durante l’ennesima esecuzione dell’inno di Mameli, non riescono a trattenere il braccio destro e lo puntano verso il cielo di Roma, per rimembrare i bei tempi andati in cui c’era Lui e gli immigrati stavano a casa loro, nei territori conquistati dall’impero.
Passata piazza Venezia, il corteo confluisce in piazza Santi Apostoli
per i comizi conclusivi dei comitati di quartiere. Tra questi ci sono
anche i Cittadini di Tor Pignattara e il comitato Filarete, che abbiamo
già incontrato prima. Il primo a parlare è Franco Pirina che, non
nasconde l’emozione: “Noi rivogliamo la nostra città dove siamo nati e
abbiamo i nostri ricordi d’infanzia. Ce la ricordiamo diversamente da
quella che è oggi”. L’intervento si conclude con un’ode al ggentismo: “La vera politica siamo noi, non sono più i politici! È la voce della gggente, ognuno di voi è il vero politico!”.
Dopo Pirina parla Augusto Caratelli, per il quale “oggi è iniziata la
ribellione dei quartieri di Roma”. Caratelli, oltre a essere il
presidente del Comitato difesa Esquilino-Roma caput mundi – associazione
di quartiere che si batte “soprattutto contro la perdita di valori cristiani e cattolici e dell’identità propria di Roma” – è stato consigliere municipale in quota La Destra-Pdl dal 2008 al 2013. In questa veste, tra l’altro, si era distinto per aver cercato di impedire l’Europride che si è svolto in piazza Vittorio nel 2011.
Il copione della “marcia delle periferie” si ripete, pressoché
identico, una settimana dopo. Nel frattempo, il 20 novembre i
protagonisti di quella manifestazione formano il “Coordinamento di ribellione dei rioni e dei quartieri di Roma”,
il cui battesimo si tiene l’indomani all’Eur – un quartiere di Roma
tutt’altro che degradato. Recentemente dell’Eur si è parlato perché
Andrea Santoro (presidente del IX municipio), ha deciso di avviare un
progetto sperimentale di “zoning”, ossia l’istituzione di “isole” in cui “l’esercizio della prostituzione è tollerato e monitorato”.
Secondo il volantino di lancio dell’iniziativa, invece, l’Eur è una
specie di succursale dell’Inferno. “I residenti”, si legge, “sono
esausti e disgustati” della “condizione di degrado, sporcizia,
abusivismo, prostituzione e spaccio”. La preparazione – soprattutto
mediatica – dell’iniziativa riscuote un certo successo. Danilo Cipressi,
per esempio, riesce a portare a spasso per il quartiere un giornalista di SkyTg24, elencandogli tutti gli orrori
(compresi gli ambulanti che proditoriamente cercano di vendere
pacchetti di fazzoletti) che i residenti devono sopportare nella loro
vita quotidiana. Per allontanare ogni sospetto sulla manifestazione, il
presidente di “Ripartiamo dall’Eur” Paolo Lampariello afferma che il corteo non sarà “né di destra né di sinistra né di centro”.
La scena che mi si presenta davanti non appena raggiungo il
concentramento sotto il palazzo della civiltà italiana (il Colosseo
quadrato) è esattamente la stessa della marcia nel centro storico: fasciofont
come se non ci fosse un domani, gli stessi comitati di quartiere ben
caratterizzati politicamente, Insabato, l’ubiquo Mario Borghezio –
accompagnato dagli assistenti Davide Di Stefano e Mauro Antonini,
entrambi di CasaPound – e politici di formazioni di destra come Sveva
Belviso (ex vicesindaca nella giunta Alemanno e attuale consigliera
comunale) e Luciano Ciocchetti (ex vicepresidente della regione Lazio e
candidato alle ultime europee con Forza Italia).
I manifestanti non sono più di 500 – una cifra piuttosto esigua per
un “corteo di residenti” dell’Eur – e vengono prevalentemente da fuori. E
infatti dei problemi della zona si parla molto poco: la prostituzione
in strada è invocata solo ed esclusivamente per chiedere una “legge
nazionale” che la regolamenti (un cavallo di battaglia delle destre); e
gli interventi dal solito furgoncino si concentrano
sull’“Italia che è diventata il ventre molle dell’Europa”, “l’invasione
dei profughi” e la stampa che “cerca di annichilire l’italiano”.
Nel corso della stessa settimana in cui le proteste “spontanee” dei
“ribelli dei rioni” assurgono all’onore delle cronache nazionali,
un’altra periferia romana entra in fibrillazione e si prepara a
manifestare contro i migranti. Si tratta dell’Infernetto, un quartiere
di Roma a pochi chilometri dal mare fatto di ville e villini e immerso
nel verde. È qui, e più precisamente nel centro d’accoglienza di via
Salorno, che sono trasferiti 24 dei minori cacciati da Tor Sapienza.
Domenica 16 novembre Ignazio Marino si reca a sorpresa nel quartiere
per visitare il centro, incontrare i comitati di quartiere ed evitare
uno scenario alla Tor Sapienza. La visita del sindaco non sortisce molti
effetti, e le tensioni crescono sia all’interno del centro – dove i
“nuovi” arrivati si picchiano con i “vecchi” – sia fuori. I residenti, appresa la notizia dell’arrivo dei minori, organizzano un presidio davanti al centro; l’estrema destra, tra i manichini impiccati da Forza Nuova sui cavalcavia e gli striscioni di CasaPound nelle vie del quartiere, fa di tutto per avvelenare il clima.
Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, scortato dalle forze
dell’ordine, visita il complesso delle case popolari di Tor Sapienza
dopo le tensioni tra residenti e gli ospiti del centro di accoglienza
per rifugiati, il 14 novembre 2014.
Matteo Minnella, OneShot
La struttura di via Salorno era già stata al centro di polemiche
montate ad arte. Il complesso è formato da vari casali: in uno si trova
il centro per malati di Alzheimer “Le betulle”, aperto a marzo; in un
altro – ben separato – c’è il centro d’accoglienza. I migranti, insomma,
non condividono alcuno spazio con i malati. A ottobre, tuttavia,
scoppia un caso “social-mediatico”
quando Pierfrancesco Marchesi, ex consigliere municipale del Pdl,
accusa Andrea Tassone – presidente del X municipio, del Partito
democratico – e Ignazio Marino di “aver portato nel centro Alzheimer i
profughi di Mare nostrum”.
Alla denuncia di Marchesi si accodano tutte le destre: i consiglieri
municipali di Forza Italia sostengono che si mascherano “operazioni di
accoglienza agli immigrati con l’assistenza ai nostri malati, superando
ogni limite di decenza”; CasaPound chiede le dimissioni di Tassone, e
Fratelli d’Italia afferma che Marino vuole “scaricare sulle periferie
romane e nelle zone delocalizzate della nostra città il peso
dell’immigrazione selvaggia”.
Incidentalmente, tutte queste forze politiche aderiscono al sit-in
contro il centro indetto per il 22 novembre, il giorno dopo la parata
all’Eur. Nonostante la protesta sia sostanzialmente organizzata da
CasaPound, si fa di tutto per farla passare come qualcosa di
“spontaneo”. Tra gli organizzatori spunta fuori anche un fantomatico “Comitato di difesa del X municipio”.
Se si guarda la pagina Facebook, tuttavia, la data d’iscrizione risale
al 16 novembre 2014 (pochi giorni prima della manifestazione), e l’ultimo post
è datato 23 novembre 2014. Negli altri post si mescolano il “centro
profughi” con il centro Alzheimer, ci si scaglia contro la “politica
scellerata di Mare nostrum” e si usano grafiche e slogan di CasaPound (“Alcuni italiani non si arrendono”).
A ogni modo, in via Orazio Vecchi non ci sono più di 200 manifestanti
– giornalisti inclusi. La stragrande maggioranza è formata da militanti
di CasaPound, e la compagnia di giro è la solita: Franco Pirina, Sveva
Belviso, Luciano Ciocchetti, Luca Gramazio, Fabio Rampelli e
naturalmente Mario Borghezio, accolto dagli applausi delle sue “facce
pulite”. Gli slogan sono più o meno i seguenti: “Mare nostrum non lo
vogliamo” (da notare che la missione della marina è finita
il primo novembre); “Stupri, degrado e immigrazione stanno distruggendo
questa nazione”; e l’immancabile “Il centro d’accoglienza non lo
voglio”. Come all’Eur, anche all’Infernetto non si parla mai dei
problemi del quartiere.
I residenti in piazza, in un quartiere abitato da più di 20mila persone, sono davvero pochi. Nel gruppo Facebook “Associazione culturale Infernetto e dintorni”
un residente ha scritto che, per chi abita all’Infernetto, “l’ultimo
problema da cui dovrebbe essere afflitto è proprio quello che riguarda
gli immigrati e in particolar modo i ragazzi arrivati in questi giorni”.
Ma questi cittadini, come accaduto altrove, sono stati completamente
scavalcati da un meccanismo mediatico che non fa altro che alimentare
certe provocazioni.
Il presidio si scioglie verso le sei di pomeriggio, quando il buio
sta calando sull’Infernetto, e la sensazione è che la destra romana
abbia provato a creare un’altra Tor Sapienza – fallendo miseramente.
Della manifestazione mi rimangono però due frasi piuttosto sinistre. La
prima è di Mario Borghezio: “Qui c’è gente pronta a intervenire. Ci sono
braccia, cuori, bandiere e anche aste, più pesanti di queste, pronte a
difendere i territori”.
La seconda, riportata dall’edizione locale della Repubblica, è di
Simone Di Stefano. Un residente, che gli si è avvicinato alla fine del
sit-in, chiede un intervento “più deciso” nei confronti del centro di
via Salorno. “Non stasera”, risponde il vicepresidente di CasaPound.
“Non possiamo fare come a Tor Sapienza, non è il momento politico
giusto”. 7. La presa delle periferie
“Le borgate sono il nostro domani, ma il domani non si deciderà in borgata”.–Walter Siti
Il 26 novembre – qualche giorno dopo l’Infernetto, che praticamente è
un modello di come si possa montare un caso mettendo all’angolo i
residenti più moderati – il Messaggero pubblica un articolo intitolato “Roma, rom attaccano tre scuole: lanci di pietre contro gli studenti”. Comincia così:
Lo zaino in spalla e la paura d’esser colpito da bottiglie e pietre.
Succede a Torrevecchia, a ridosso di un campo nomadi. Dopo due anni di
tregua, torna la preoccupazione. ‘I ragazzi entrano ed escono da scuola
tra gli insulti, le offese. Spesso i rom gli lanciano anche bottiglie e
sassi, a volte sono costretti a vedere gente che fa i bisogni’.
L’episodio, appunto, sarebbe avvenuto nella periferia a nordovest
della capitale, e le circostanze riportate sono indubbiamente gravi.
Qualcosa però non torna: i virgolettati sono tutti anonimi, e i
dirigenti del liceo classico Tacito e degli istituti alberghieri Domizia
Lucilla e Rosa Luxemburg smentiscono
subito di aver rilasciato dichiarazioni su presunti “allarmi rom”.
Sulla vicenda intervengono anche gli assessori alle politiche sociali e
alla scuola del XIV municipio, che esprimono il loro “disappunto” in
relazione “alle notizie pubblicate oggi dal quotidiano Il Messaggero
relative al presunto attacco che alcune scuole del nostro territorio
avrebbero ricevuto nei giorni scorsi”.
In realtà, come riporta la Repubblica, “nel quartiere si racconta di
una bravata di due sedicenni abitanti del campo che sarebbero entrati
nel cortile della scuola a bordo di un motorino creando un po’ di
scompiglio e sarebbero poi stati allontanati”. Ma ormai il processo di
criminalizzazione è avviato, e bisogna assolutamente protestare per
fermare l’arroganza dei rom. La mattina del 28 novembre centinaia di
studenti guidati dai militanti del Blocco studentesco (organizzazione
studentesca di CasaPound) si presentano davanti al Domizia Lucilla con lo striscione “Stop alla violenza dei rom / Alcuni italiani non si arrendono”.
Arci Solidarietà e la cooperativa sociale Eureka denunciano
che “un gruppo di manifestanti di CasaPound ha impedito l’accesso a
scuola” a circa 90 bambini rom, rimasti nel campo su decisione dei
genitori “intimiditi” dalla presenza di “500 persone lì fuori”. Blocco
studentesco replica
però che “non è stato impedito a nessuno di uscire dal campo nomadi”.
In serata, la questura spiega che il sit-in non ha “impedito agli
studenti di accedere all’interno delle aule, né risulta che sia stato
impedito il passaggio di alcuni bambini rom che stavano andando a
scuola”.
Versioni contrastanti a parte, quanto successo a Torrevecchia è
l’ennesima variazione dello schema: si parte dalla notizia di
un’aggressione più o meno verificata in una zona disagiata di
Roma; gli stranieri, senza farsi troppe domande, sono indicati come i
responsabili; l’estrema destra, su tutti CasaPound e Lega nord, alza al
massimo la tensione e/o scende in strada per manifestare.
Dopo il blitz del Blocco studentesco, il presidente del XIV municipio Valerio Barletta si è detto
preoccupato di “questo soffiare sul fuoco della paura, quasi come se in
questa fase storica servisse alla nostra città costruire tante diverse
Tor Sapienza, da individuare in quelli che sono i territori più
difficili”. E che la situazione a Roma sia “preoccupante” lo conferma
anche Carlotta Sami, portavoce per il sud Europa dell’agenzia delle
Nazioni Unite per i rifugiati: “Già dalla primavera scorsa eravamo
preoccupati per il fatto che arrivasse un numero importante di persone e
che non ci fosse una gestione organizzata a livello italiano ed
europeo. Prevedevamo una situazione di per sé abbastanza caotica, e che
avrebbe impattato su una situazione sociale già provata dalla crisi”.
L’impressione di Sami è che in queste proteste “ci sia stata una
saldatura molto chiara tra alcuni mezzi di informazione, alcuni politici
e alcuni gruppi ‘parapolitici’ che, pur non facendo parte dell’arco
parlamentare, contribuiscono a questa saldatura”.
A giudicare da quello che ho visto, in questa “rivolta delle periferie” di spontaneo
c’è veramente poco o nulla. L’esasperazione dei cittadini delle
periferie, da cui nascono le proteste, è sicuramente reale e deriva da
condizioni di vita oggettivamente difficili; ma tutte queste
mobilitazioni sistematicamente finiscono (o sono fatte finire) su
posizioni xenofobe o estremiste. Certo, il terreno è di per sé già
fertile: la disinformazione sull’immigrazione è un genere letterario
particolarmente apprezzato dai mass media, e i social network grondano
di bufale e sottocultura razzista a buon mercato – e infatti, non c’è
stata una manifestazione in cui non abbia sentito frasi come “loro prendono 1.200 euro al mese e noi italiani siamo costretti a fare la fame”.
In molti casi, comunque, le modalità di queste proteste – per non parlare della presenza di alcuni personaggi – ricalcano
quanto visto all’opera con la “rivoluzione dei forconi” del dicembre
2013. All’epoca, però, non era andata troppo bene: le divisioni interne
al Movimento 9 dicembre avevano svuotato le proteste, e la compagine di
Danilo Calvani era davvero troppo sgangherata per avere una qualsiasi
credibilità politica. Nella rivolta delle periferie, invece, un ruolo
importante lo stanno giocando i più manovrabili comitati di quartiere,
che infatti sono pesantemente infiltrati – quando non direttamente
guidati – dalle destre.
Al livello europeo, la strategia di travestirsi da cittadini
“apolitici” per portare avanti determinate istanze – anche con modalità
violente – l’ha già sperimentata con successo Alba dorata in Grecia.
Prima di approdare in parlamento, il partito neonazista aveva cominciato
a raccogliere consensi ad Atene mascherandosi dietro sedicenti comitati di cittadini. Il caso più emblematico
dell’ascesa degli estremisti è la presa di Agios Panteleimonas, un
quartiere relativamente centrale con forte concentrazione di migranti. È
stato lì che le squadracce di “cittadini” di Alba dorata – con la scusa
del degrado – hanno prima chiuso un parco giochi nella piazza
principale per impedire l’accesso agli immigrati, e poi inaugurato la sanguinosa stagione di caccia allo straniero.
A ogni modo, in tutto ciò ha indubbiamente influito il mutato clima politico e la nascita del “Fronte nazionale” italiano,
cioè l’alleanza tra Lega nord e CasaPound presentata al grande pubblico
lo scorso 18 ottobre in piazza Duomo a Milano. Proprio recentemente,
tra l’altro, questo “progetto politico” ha ricevuto la benedizione di
Marine Le Pen, che al 15° congresso del Front national a Lione ha definito
Matteo Salvini “un uomo estremamente coraggioso che ha impresso una
svolta nazionale che domani rimetterà la Lega nord al centro della vita
politica italiana”. E in effetti, tra il declino irreversibile di Forza
Italia e un Movimento 5 stelle che appare ogni giorno di più in disarmo,
a destra (e non solo) c’è una prateria elettorale che aspetta solo di
essere cavalcata.
Quanto sta accadendo nelle periferie romane potrebbe anche essere
l’avanguardia del futuro della società italiana – l’epicentro di una
nuova rivoluzione nazionale. Di questo, almeno, è convinto Mario
Borghezio, che non si è perso una singola tappa di questa “ribellione”.
Nel contesto di una convention neofascista nella capitale – in cui
erano presenti, tra gli altri, Stefano Delle Chiaie (ex terrorista nero e
fondatore di Avanguardia nazionale), Bruno Di Luia (ex di Avanguardia
nazionale), Gabriele Adinolfi e Adriano Tilgher (che si rivedrà in
diversi cortei “apolitici”) – Borghezio si era rivolto così al
“comandante” Delle Chiaie:
Oggi da parlamentare europeo giro di più Roma, e mi accorgo che i
romani amano nel profondo questa città. E quindi, tenendo conto di
questo fatto, perché non far breccia nel cuore dei romani e organizzare
noi delle iniziative per difendere la grande bellezza di questa città,
violentata schifosamente da quelli che l’hanno riempita di immigrati e
di immondizia? Se date il via a iniziative di questo genere, io sarò con
voi e alla prima ronda ci voglio essere. Quando il nostro popolo sente
il bisogno di una rivoluzione nazionale, noi dobbiamo metterci alla
guida di questa rivoluzione.
Era il giugno del 2014. Con il senno di poi, si è trattato di parole quanto meno profetiche.