L’istituto  nato nel 1882 è da lustri il crocevia tra massoneria e finanza  cattolica ed è franato per finanziamenti e acquisti dissennati
Ex  amministratori e sindaci si sono auto concessi prestiti per 185 milioni  oltre a gettoni di presenza da 14 milioni in 5 anni I primi 20 prestiti  in sofferenza ammontano a 200 milioni. Tra i beneficiari la famiglia  Federici e Bellavista Caltagirone
di Alberto Statera
ROMA “Come è umano lei!” Se non ci fosse già la mestizia per un morto  suicida, verrebbe da usare le parole di Giandomenico Fracchia ne “La  belva umana” per giudicare “le misure di tipo umanitario” annunciate dal  ministro Pier Carlo Padoan a favore dei risparmiatori più poveri, il  parco buoi che con le obbligazioni “subordinate” di quattro banche ha  perso tutto.
Ruggisce la Chimera di Arezzo verso i 13 ricchi ex amministratori e 5 ex  sindaci di Banca Etruria che invece probabilmente non restituiranno mai  i 185 milioni che si sono auto-concessi con 198 posizioni di fido  finiti in “ sofferenza” e in “incaglio”, settore che in banca curava  Emanuele Boschi, fratello del super-ministro Maria Elena. Né, visti i  precedenti, restituiranno i 14 milioni riscossi di gettoni negli ultimi  cinque anni. Figurarsi poi i 20 primi “sofferenti” per oltre 200  milioni. A cominciare da Francesco Bellavista Caltagirone dell’Acqua  Antica Pia Marcia, “un dono fatto all’Urbe dagli dei”(Plinio il Vecchio)  esposta con le sue controllate per 80 milioni o la Sacci (40 milioni)  della famiglia Federici, passata adesso all’ Unicem, o la Finanziaria  Italia Spa del Gruppo Landi di Eutelia (16), o ancora la Realizzazioni e  Bonifiche del Gruppo Uno A Erre (10,6) , l’Immobiliare Cardinal  Grimaldi, titolare di un mutuo di 11,8 milioni a 40 anni, una durata che  non esiste sul mercato, e l’ Acquamare srl (17,1) sempre del gruppo  Bellavista Caltagirone.
Tra le storie più deliranti tra quelle nelle quali ci si imbatte  percorrendo i sentieri delle quattro banche fallite, la più  sconclusionata è quella del panfilo più lussuoso al mondo che doveva  essere costruito dalla Privilege Yard Spa a Civitavecchia, lungo 127  metri e già opzionato – si diceva - da Brad Pitt e Angelina Jolie. Dal  2007, quando fu costituito il pool di banche capeggiato dall’Etruria,  esiste solo il rendering della nave di carta e la società è fallita con  un buco di 200 milioni. L’inventore del bidone si chiama Mario La Via,  che si definisce “finanziere internazionale”, e che esibiva come suoi  soci l’ex segretario generale dell’Onu Perez de Cuellar, il sultano del  Brunei e Robert Miller, azionista di Louis Vuitton e CNN.  L’inaugurazione del cantiere fu benedetta dal cardinale Tarcisio  Bertone. Nel consiglio figuravano Mauro Masi, ex direttore generale  della Rai, Giorgio Assumma, ex presidente della Siae, e il tributarista  Tommaso Di Tanno. Per non farsi mancare niente, tra gli sponsor c’era  anche Giancarlo Elia Valori, l’unico massone espulso a suo tempo dalla  P2 di Licio Gelli. D’altro canto, la Banca Etruria è da lustri teatro  dello scontro e anche degli incontri d’interessi tra finanza massonica e  finanza cattolica. Quasi tutte storie che vengono dalla notte dei  tempi.
La Banca dell’oro, come era chiamata per il ruolo nel mercato dei  lingotti, nasce nel 1882 in via della Fiorandola come Banca Mutua  Popolare Aretina. Ma è cent’anni dopo, nel 1982, che comincia  l’espansione con l’acquisto della Popolare Cagli, della Popolare di  Gualdo Tadino e della Popolare dell’Alto Lazio, feudo di Giulio  Andreotti che era sull’orlo del default. E comincia il trentennio del  padre-padrone Elio Faralli, classe 1922, massone, che rinunciò alla  presidenza con una buonuscita di 1,3 milioni e un assegno annuale di 120  mila euro perché a 87 anni non facesse concorrenza alla sua ex banca.  Scomparso nel 2013 e sostituito dal cattolico Giuseppe Fornasari, ex  deputato democristiano, Faralli sponsorizzò tutte le prime venti  operazioni in sofferenza di cui abbiamo dato conto, salvo 20 milioni  deliberati ancora per la nave di carta durante la presidenza Fornasari.  Risale poi al 2006 l’acquisto di Banca Federico Del Vecchio. Doveva  essere la boutique bancaria che portava in Etruria i patrimoni delle  ricche famiglie fiorentine, ma si è rivelata un buco senza fondo. Un  giorno Faralli si rinchiuse da solo in una stanza col presidente della  Del Vecchio e ne uscì con un contratto di acquisto per 113 milioni,  contro una stima di 50, mentre mesi fa veniva offerta in vendita a 25  milioni.
“La Banca Etruria non si tocca,” andava proclamando il sindaco di Arezzo  Giuseppe Fanfani, nipote del leader storico della Democrazia Cristiana  Amintore e figlio del leader locale Ameglio, alla vigilia di lasciare  l’incarico per trasferirsi nella poltrona di membro laico del Consiglio  Superiore della Magistratura. Un sindaco aretino, chiunque egli fosse,  era costretto a difendere “per contratto” l’icona bancaria cittadina,  186 sportelli e1.800 dipendenti, con un modello fondato su un groviglio  di interessi intrecciati tra loro. Lo stesso modello ad Arezzo, come  nelle Marche, a Chieti e Ferrara, con banchieri improvvisati, politici  locali, imprenditori, azionisti, grandi famiglie feudatarie, truffatori,  a spese dei piccoli correntisti spinti ad acquistare prodotti a rischio  per loro incomprensibili. Ma il mito della banca semplice, radicata sul  territorio, per clienti semplici, dove tutti si fidano, si è infranto  definitivamente un mercoledì del febbraio scorso, quando ad Arezzo di  fronte ai capi- area convocati per avere comunicazione dei tragici dati  di bilancio irrompono due commissari nominati dalla Banca d’Italia,  Riccardo Sora e Antonio Pironti. Il presidente vuole annullare la  riunione , ma i commissari dicono: “No, la riunione la facciamo noi.” E  di fronte ai dirigenti esordiscono così: ”Qualcuno in Consiglio  d’amministrazione insiste nel non voler capire bene la situazione”. E  dalla sala si alza un commento:”Meglio i commissari che il geometra”,  che non è altri che il presidente commissariato Lorenzo Rosi, affiancato  dal vice Pier Luigi Boschi. Ma la Banca d’Italia finalmente muscolare  non fa miglior figura. Passano due o tre giorni e si scopre che il  commissario di Bankitalia Sora è indagato a Rimini, dove era stato  commissario della locale Cassa di risparmio per l’acquisto di azioni  proprie “a un prezzo illecitamente maggiorato”.
Adesso, con il pellegrinaggio di ieri ad Arezzo di Matteo Salvini ed  altri raccogliticci salvatori della patria, le polemiche tutt’altro che  ingiustificate sulla Banca d’Italia, che era finora un tabernacolo  inviolabile, si spostano dritte dritte sul governo Renzi. Il capo della  Vigilanza Carmelo Barbagallo evoca i 238 miliardi di aiuti alle banche  messi dalla Germania, che poi ha promosso i vincoli per impedire  interventi analoghi agli altri paesi, contro il nostro miliardo. E  lamenta gli inadeguati poteri d’intervento e sanzionatori. Ma non spiega  perché il commissariamento non fu fatto dopo la terribile ispezione del  2010 o dopo quelle altrettanto tragiche del 2013 e 2014. Quanto al  governo, ci ha messo non più di venti minuti per approvare il  Salva-banche. Ma, attenzione. Così com’è, c’è chi teme che rischi di  provocare altri monumentali guai. 
 
 
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