9.5.19

I Paesi sovranisti prendono i soldi dall’Unione europea violandone i principi

Dataroom

di Milena Gabanelli e Maria Serena Natale (Corriere)


I trattati parlano chiaro: chi fa parte dell’Unione europea si identifica con i suoi imprescindibili valori democratici. Eppure all’interno dell’Ue ci sono Paesi che hanno agganciato la locomotiva europea recuperando i ritardi economici, ma violano sistematicamente lo Stato di diritto e le libertà fondamentali. È tollerabile?
I numeri
La quota di bilancio Ue più pesante del quadro finanziario 2014-2020 è destinata, attraverso i Fondi strutturali, a crescita, occupazione, riduzione delle disparità economiche tra le regioni. Con l’allargamento dell’Unione, questo circuito virtuoso ha sorretto le economie disastrate dei Paesi del Centro-Est. La Polonia è nella Ue dal 2004. Nel 2017 il suo contributo complessivo al bilancio comunitario è stato di 3,048 miliardi di euro, mentre la spesa totale della Ue in Polonia è stata di 11,9 miliardi. L’anno scorso il Pil polacco è cresciuto del 5,1%, il più veloce dei Paesi Ue dopo Malta e Irlanda. Anche l’Ungheria entra nel 2004. Nel 2017 ha contribuito al bilancio Ue con 821 milioni di euro e ha incassato fondi per 4,049 miliardi di euro. La Romania è nella Ue dal 2007. Nel 2017 ha versato al bilancio Ue 1,229 miliardi di euro e ne ha incassati 4,742. Fondi che hanno contribuito nel 2018 alla crescita del suo Pil del 4,1%.
Stato di diritto. Qui Varsavia
In Polonia, con il ritorno al potere dei nazional-conservatori di Jaroslaw Kaczynski nel 2015, il governo rafforza il controllo su compagnie pubbliche, informazione, esercito, sistema giudiziario. Una legge in vigore dall’aprile 2018 abbassa da 70 a 65 anni l’età pensionabile dei giudici della Corte suprema, e ne manda a casa 27 su 72. La misura viene congelata quando la Commissione Ue deferisce la Polonia alla Corte di giustizia europea. Per Bruxelles la norma non rispetta il principio dell’indipendenza e inamovibilità dei giudici, in violazione dell’articolo 19 del Trattato sull’Unione europea e dell’articolo 47 della Carta Ue dei diritti fondamentali. Nuove regole anche per la nomina del Consiglio superiore della magistratura, dove 15 giudici su 25 potranno essere scelti dal Parlamento. Contro la Polonia nel dicembre 2017 la Commissione attiva, per la prima volta, l’articolo 7 del Trattato Ue per violazione dello Stato di diritto.
Ungheria. Qui Budapest
Dal 2010 è premier Viktor Orbán, rieletto nel 2018 per il terzo mandato consecutivo. In otto anni sono stati mandati in pensione 400 giudici. Una riforma del 2011 riduce le funzioni della Corte Costituzionale e la nuova procedura per la nomina dei suoi componenti rafforza l’influenza dell’esecutivo. Il controllo sull’informazione è pressoché totale. Nel 2017, 18 testate regionali sono rilevate da figure legate a Orbán. Nel 2018 quasi tutti i media privati filogovernativi confluiscono nella Fondazione Stampa e Media dell’Europa centrale. A dicembre sfilano in migliaia nelle strade di Budapest contro la tv pubblica utilizzata per propaganda politica, dove non si tengono dibattiti elettorali.
I tribunali paralleli
L’Ungheria è seconda per indagini aperte dall’autorità Ue di lotta antifrode. Opacità sui fondi europei, destinati a progetti nei quali sono spesso coinvolti oligarchi vicini al premier. Revocata la licenza agli istituti universitari stranieri che non prevedano corsi nei Paesi dove sono registrati: colpo alla Ceu, l’Università dell’Europa centrale di George Soros. Vietata la libertà di ricerca all’Accademia delle Scienze. Introdotto il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per gli avvocati che assistono i richiedenti asilo. Mentre la riforma del codice del lavoro aumenta le ore di straordinario da 250 a 400 l’anno con pagamento anche dopo 3 anni. È stato istituito un sistema parallelo di tribunali amministrativi alle dirette dipendenze del ministro della Giustizia. Nel settembre 2018 il Parlamento europeo avvia la procedura di infrazione sullo Stato di diritto e nel marzo 2019 il Ppe sospende il partito di Orbán, Fidesz.
Romania. Qui Bucarest
La piaga della corruzione è endemica, ma il progetto di riforma del codice penale promosso dalla coalizione a guida socialdemocratica prevede che i condannati per tangenti dal 2014 possano ricorrere contro le sentenze della Corte Suprema. A beneficiarne proprio il leader socialdemocratico Liviu Dragnea. La procuratrice 45enne Laura Codruta Kovesi, dopo aver mandato in carcere decine di politici corrotti, lo scorso anno è stata rimossa dall’incarico e incriminata per corruzione. È stata candidata dall’Europarlamento come capo della nuova Procura europea che indagherà sulle frodi ai danni del bilancio Ue ma la Romania, che dal primo gennaio 2019 ha la presidenza di turno al Consiglio europeo, si oppone. La Commissione recentemente ha ammonito Bucarest. Di fatto però questi tre Paesi incassano i vantaggi dell’appartenenza alla Ue, non rispettano i principi fondanti e votano leggi che valgono per tutti.
Chi decide le sanzioni e come
Quando un Paese viola i «pilastri» portanti, la Ue può attivare l’articolo 7 del Trattato, la cosiddetta «opzione nucleare».
La procedura prevede due fasi. La prima, che segnala la presenza di «rischio motivato», può essere attivata da un terzo degli Stati membri, dall’Europarlamento o dalla Commissione: lo Stato è invitato a presentare chiarimenti e può ottenere tempo per rimettersi in carreggiata. La seconda è quella sanzionatoria e può arrivare fino alla sospensione del diritto di voto dello Stato «imputato» in seno al Consiglio. Oggi, per la prima volta, contro Polonia e Ungheria è stata attivata la procedura d’infrazione. Ma per la sanzione estrema occorre l’unanimità dei capi di Stato e di governo. Un percorso complicato, poiché gli Stati accusati delle violazioni possono sempre trovare l’appoggio di alleati che pongono il veto. La Polonia può contare sull’Ungheria, sul governo ceco, ma anche su quello italiano. Dall’ultima fase del processo sono esclusi sia il Parlamento che il controllo giudiziario da parte della Corte di giustizia del Lussemburgo. La decisione è solo politica e quindi priva dell’indipendenza necessaria. Per superare lo stallo, lo scorso gennaio, su proposta della Commissione, il Parlamento ha approvato una norma (con il voto contrario della Lega e l’astensione del M5S) che prevede, a partire dal 2021, tagli ai fondi Ue per i Paesi che violano lo Stato di diritto. La decisione spetterà sempre a Consiglio (ovvero ai governi degli Stati membri) e Parlamento, ma basterà la maggioranza.
A rischio democrazie e identità dell’Europa
L’Europa non è solo mercato, ma una comunità di valori, libertà e diritti conquistati con il sangue e non negoziabili. Il pericolo, dopo 70 anni di pace e prosperità, è di una lenta deriva. Se una parte della Ue controlla giudici e media, violando impunemente e in maniera sistematica le libertà fondamentali e la separazione dei poteri, si creano precedenti che prima o poi legittimeranno anche altrove abusi sempre più evidenti. E infatti già vediamo il governo italiano rincorrere alleanze con forze politiche che non si riconoscono nel modello della democrazia liberale. Vogliamo diventare come loro? Indebolendo l’inderogabilità delle norme condivise, si creano i presupposti che avvelenano la vita sociale. A rischio non è solo la democrazia nei singoli Stati ma la stessa identità dell’Europa unita. Anche perché l’Unione si allarga. Ad Est.
I Paesi candidati all’ingresso nella Ue
Candidata la Serbia, che da mesi vede manifestazioni contro il presidente Aleksandar Vucic accusato di esercitare metodi autoritari e imbavagliare l’informazione. Candidata la Turchia del presidente Recep Tayyp Erdogan, dove in carcere con accuse sommarie ci sono politici, insegnanti, magistrati, impiegati pubblici, poliziotti, militari e il più alto numero di giornalisti al mondo. Effetto dello stato d’emergenza imposto dopo il tentato golpe militare del luglio 2016, 250 morti. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, nel giugno 2018 quasi un quinto sul totale della popolazione carceraria (48.924 persone su 246.426) è stato accusato o condannato per reati connessi al terrorismo: presunti legami con ambienti gülenisti (34.241), con il Pkk (10.286), con l’Isis (1.270). Per l’Annual Prison Census del 2018, in tutto il mondo su 251 giornalisti in carcere con accuse legate al loro lavoro, 68 sono in Turchia, seguita da Cina (47) ed Egitto (25).
Azerbaigian: gli affari non hanno prezzo
Dalla Turchia passa il gas del Caspio che ci avvicina a un altro osservato speciale, l’Azerbaigian. Baku ha in corso negoziati per un nuovo accordo bilaterale con la Ue nell’ambito del Partenariato orientale e della Politica europea di vicinato. Il presidente Ilham Aliyev guida il Paese dal 2003. Human Rights Watch denuncia torture sistematiche, interferenze nel lavoro degli avvocati, controllo governativo sull’informazione. Secondo le associazioni, false accuse sono regolarmente fabbricate per tenere in carcere attivisti, dissidenti e giornalisti. A Milano è in corso un processo per corruzione: per evitare il richiamo del Consiglio d’Europa, esponenti del governo azero avrebbero pagato l’allora presidente del gruppo Ppe al Consiglio, Luca Volontè. Per l’Azerbaigian l’Unione europea è il maggior mercato di export e import, e primo cliente nel settore petrolifero. Baku oggi copre il 5% della richiesta Ue di gas, che arriva attraverso il Corridoio meridionale, una rotta di approvvigionamento alternativa a quella russa. Di questo corridoio farà parte anche il contestato Tap (Trans Adriatic Pipeline): 878 chilometri, con approdo in Puglia, sulla spiaggia di San Foca, a Melendugno.
Nel marzo 2018 la Banca europea degli investimenti (Bei) ha approvato un prestito da 932 milioni di euro per la costruzione del Tap. La compagnia di Stato azera Socar è partner del gasdotto per il 58%. La Bei non ha condizionato il prestito a progressi sui diritti umani.

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