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26.4.13

Se nessuno ascolta la voce della base

 Curzio Maltese   (La Repubblica)

Primarie, parlamentarie, quirinarie e balle varie, per restare in rima, non tolgono che i vertici del Pd e quelli del M5S, in pratica Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, abbiano alla fine preso la più importante decisione della loro storia politica da soli e contro la chiara volontà dei loro elettori.
E allora, perché non finirla con queste ipocrite pagliacciate? Sono ormai mesi che Grillo e il Pd fanno a gara a chi è più democratico, più trasparente nelle scelte. Il Pd rimprovera a Grillo e Casaleggio di guidare un partito personale, una setta dove decidono i due capi, in barba allo slogan «uno vale uno». D’altra parte, Grillo ha accusato il Pd di allestire primarie truccate, dall’esito già deciso, in favore dell’apparato che controlla le regole.
Per mesi ci siamo chiesti chi avesse più ragione. Ora lo sappiamo, tutti e due. Quirinarie, parlamentarie, primarie rappresentano una stessa delega in bianco ai capi. I quali poi sono liberissimi di fare l’esatto contrario di quanto vogliono gli elettori e i militanti. Tutti sanno che Bersani e i bersaniani hanno vinto le primarie contro Renzi per due ragioni sulle altre. La prima è che venivano considerati «più a sinistra » rispetto al rivale, presentato come assai più disponibile nei confronti della destra in generale e di Berlusconi in particolare. La seconda è che fra il primo e il secondo turno Bersani ha ottenuto il decisivo appoggio degli elettori di Vendola e di Sel, proprio sulla base della promessa di non accettare mai compromessi non solo con il berlusconismo, ma neppure con il centrismo rappresentato da Monti. Ora i bersaniani stanno per varare un governo con Berlusconi e Monti. Che si fa, si restituiscono i soldi dell’obolo al partito?
Un discorso non diverso riguarda la tecnologicamente più avanzata ma non meno truffaldina democrazia elettronica di Grillo. Dopo il grottesco delle parlamentarie, che sono servite a mandare in Parlamento troppi sprovveduti col voto del condominio, siamo arrivati al numero da circo delle quirinarie. L’unico voto in due turni al mondo dove prima del ballottaggio non si conosceva il risultato del primo turno. Peraltro non ancora comunicato. Il risultato finale, con numeri risibili, è stato reso noto quando i giochi per il Quirinale erano finiti. Forse appunto perché i numeri erano risibili. In compenso sulla scelta vera, l’alleanza col Pd, la base non è mai stata consultata. La realtà è che tutto viene deciso dai monarchi Grillo e Casaleggio. Per giorni i grillini hanno rivolto una domanda ai dirigenti del Pd: perché no a Rodotà? Lamentando, a ragione, di non aver mai ricevuto una risposta. Anche noi però abbiamo provato a fare una domanda a Grillo e Casaleggio: perché non lanciate un referendum in rete sull’alleanza col Pd? In attesa della risposta che non è mai arrivata, vale quella che ci siamo dati da soli. Perché i capi avrebbero perso.
La soluzione del governissimo in corso è dunque il frutto della totale indifferenza dei vertici del Pd e di Grillo, in questo almeno uguali, nei confronti della volontà di 18 milioni di elettori. Nel Paese e nell’opinione pubblica una maggioranza di governo c’era, largamente maggioritaria. In Parlamento se n’è voluta trovare un’altra, che conviene alle oligarchie vecchie e nuove. Ma che almeno ciascuno si assuma le proprie responsabilità. E per favore, la smettano di organizzare show e di spacciarli per esercizi di democrazia.

8.3.12

La nuova banda dell´Ortica

di CURZIO MALTESE (La Repubblica)

L´immagine della Milano ladrona, sorridente e impunita, ha fatto il giro d´Italia. È l´istantanea dell´ufficio di presidenza della regione Lombardia, con 4 componenti su 5 indagati.

O arrestati per malaffare. Per la par condicio due del Pdl, Franco Nicoli Cristiani e Massimo Ponzoni, uno del Pd, Filippo Penati, e l´ultimo della Lega, Davide Boni. Mettici pure quattro ex assessori di Formigoni al centro di altrettanti scandali, i già citati Nicoli Cristiani e Ponzoni, più Guido Bombarda e l´ineffabile Piergianni Prosperini. Infine otto consiglieri lombardi sotto inchiesta per una gamma di reati che spazia dalla corruzione alla truffa al favoreggiamento di prostituzione, nel caso di Nicole Minetti. E ti domandi: ma come può una delle regioni più ricche e civili d´Europa a sopportare questa vergogna?
Una tale montagna di scandali non s´era mai vista in Italia, se non nel consiglio regionale della Calabria, che le commissioni antimafia dipingono come il braccio politico della ‘ndrangheta. Ma qui non siamo nella terra di Cetto Laqualunque. Siamo nella capitale del laborioso Nord che sfida la recessione, nella culla del montismo come nuovo costume amministrativo, europeista, poliglotta, competente, rigoroso e un tantino moralista. E allora non ti spieghi la calma piatta, l´indolenza «terrona» con cui la grande Milano accoglie le storiacce della nuova Tangentopoli, vent´anni dopo. Queste tangentone a botte di 300 mila euro in contanti, che sarebbero finite nella tasche del ras lombardo della Lega, Davide Boni, fanno impallidire la madre di tutte le mazzette, i 37 milioncini di lire che il 17 febbraio del 1992 Mario Chiesa cercò di affogare nel cesso dell´ufficio, mentre i carabinieri bussavano alle porte del Pio Albergo Trivulzio. Sorprende la faccia di tolla dei dirigenti leghisti, da Umberto Bossi in giù, che una settimana fa chiedevano la testa di Formigoni «perché non si può andare avanti con un arresto al giorno» e oggi, pizzicato uno dei loro, urlano al complotto politico e affidano la difesa del buon nome del movimento, con un certo grado di crudeltà, al tesoriere Francesco Belsito. Figura incredibile per definizione, noto alle cronache per essersi taroccato nell´ordine la patente di guida mai ottenuta, il diploma di perito e ben due lauree fasulle (una a Londra, l´altra a Malta), non che per aver investito l´anno scorso un terzo del rimborso elettorale della Lega (22 milioni di euro) in una fantomatica banca della Tanzania. Uno insomma al cui confronto il Vincenzo Balzamo tesoriere del Psi di Craxi, e morto di crepacuore pochi mesi dopo Mani Pulite, trasfigura nel ricordo in icona risorgimentale.
Ma il mistero più fitto, o se volete la faccia di tolla più resistente, ha un solo nome: Roberto Formigoni. Il dominus assoluto del ventennio lombardo, da Tangentopoli a Tangentopoli 2, il presidentissimo al quarto mandato, è ancora lì, al centesimo scandalo, barricato nella faraonesca e inutile nuova sede, a recitare la scena del palo della banda dell´Ortica. Il campionario di alibi del presidenza allarga ogni volta i confini del ridicolo. Gli arrestano gli assessori nei settori chiave della regione, sanità, urbanistica, ambiente, e lui non sapeva. Si presenta in consiglio regionale per «mettere la mano sul fuoco per Piergianni Prosperini» il giorno stesso in cui il «Prospero» decide di patteggiare coi magistrati. La Minetti? «Chi se l´immaginava? Me l´ha presentata Don Verzè!». Il caso Boni? «Quale caso? Vedremo. La regione è una casa di vetro. Nel caso ci fosse un caso, ci costituiremo parte civile». Non esistono un «sistema Sesto» o un «sistema Lega» o un «sistema bonifiche», ma soltanto un enorme «sistema Formigoni» (o «sistema CL») che sovrasta e alimenta un arcipelago vastissimo e consociativo di interessi, dove nessuno ha interesse a far saltare il banco del Pirellone. Non la maggioranza politica, ma neppure le opposizioni, che infatti o si schierano contro le elezioni anticipate, come l´Udc, o le chiedono molto timidamente, come il Pd. Non Cl, certo, ma neppure le coop rosse. Non gli industriali o le banche, ma nemmeno i sindacati. Il fatto è che se la Tangentopoli di vent´anni fa era comunque qualcosa di razionale, una specie di escrescenza malavitosa di un´economia ancora sana, un «pizzo» carpito nel grasso della crescita produttiva, con la seconda Tangentopoli si è andati molto oltre. Qui il sistema delle tangenti ha creato ex novo un´economia virtuale che non ha alcun collegamento con il mercato e si fonda sul consumo del territorio. In altri termini, cemento, cemento e ancora cemento.
In vent´anni in Lombardia la popolazione è rimasta ferma, ma le aree urbanizzate sono cresciute del 20 per cento. I cantieri nascono come funghi. Regione e comuni concedono licenze per centinaia di milioni di metri cubi, sulla base di stime demografiche che farebbero ridere uno studente del primo anno di Sociologia. Con tutti gli scandali in corso, il comune di Sesto San Giovanni ha appena riavviato la pratica dell´ex area Falck, nell´ipotesi di una crescita della popolazione da 80 a 100 mila nei prossimi dieci anni. Ma Sesto non ha raggiunto i centomila abitanti neppure quando era la Stalingrado d´Italia, con fabbriche che occupavano decine di migliaia di operai. Perché dovrebbe crescere ora che sono tutte chiuse?
Malpensa è l´aeroporto più in crisi d´Europa, perde viaggatori, merci, scali, compagnie, è l´hub di nessuno. La risposta? Il progetto di una terza pista, distruggendo mezzo Parco del Ticino. Un altro esempio, le autostrade. Con la benzina a due euro e l´industria dell´auto al disastro, un investimento geniale. Lo stesso Expo del 2015 è diventato un enigma. Il progetto originario di Stefano Boeri e Carlo Petrini, un Expo leggero ed ecologico, un grande orto permanente dell´agroalimentare, aveva un senso. Il nuovo progetto, l´ennesima fiera tecnologica, nasce vecchio, superato e un po´ ridicolo. Qui girano le tangenti. E i soldi dei risparmiatori che le banche, grandi e piccole, continuano a pompare nei gruppi immobiliari. Basta presentare un progetto qualsiasi. Perfino Danilo Coppola, il furbetto del quartierino finito in galera e poi in coma per tentato suicidio in carcere, condannato a sei anni per bancarotta fraudolenta, ha appena ottenuto dal Banco Popolare un finanziamento di 180 milioni per il progetto di Porta Vittoria. Roma ladrona gli aveva voltato le spalle, ha ricominciato da Milano.

1.4.11

Barbarie a Montecitorio

di Curzio Maltese (La Repubblica)

Come si sono ridotti così? Prima un po´ alla volta, poi tutto insieme. Il volto, i volti della classe dirigente riflettono ormai la deriva di un´agonia politica. Il ghigno stupefacente di Ignazio La Russa, l´isterico lancio della tessera del guardasigilli Alfano, lo sguardo esterrefatto di Fini, i deputati leghisti che ringhiano «handicappata di merda» alla collega disabile Ileana Argentin. La malattia degenerativa di una democrazia di colpo assume i modi, le espressioni, i gesti di un´esplosione schizofrenica. Nell´ora dei telegiornali milioni d´italiani assistono attoniti a uno spettacolo di degrado, di squallore definitivo. Dentro l´aula l´impressione era ancora più penosa. Da un momento all´altro ti aspettavi che i leghisti prendessero anche a calci la carrozzella della deputata tormentata dalla distrofia o che qualcuno estraesse all´improvviso un´arma, come in Bowling for Colombine. Ogni tanto bisognava uscire fuori, per strada, fra la folla ordinata e pacifica che contestava in piazza Montecitorio, per respirare un po´ di normalità civile.
Vergogniamoci pure per loro, che non ne sono capaci. Ma perché sono arrivati a tanto? Il fatto è che il governo non esiste, la maggioranza non esiste e lo sa. Non esistono più da tre mesi, dal 14 dicembre scorso, quando il governo avrebbe dovuto essere sfiduciato dalla Camera e invece la scampò per i voltagabbana dell´ultima ora, i dipietristi pentiti Scilipoti e Razzi. Un colpo di coda col quale il premier è riuscito a garantire la propria sopravvivenza, ma niente di più. Il governo, la maggioranza sono comunque morti il 14 dicembre. Non decidono più, non sussistono. Se non all´unico scopo di sfornare leggi in grado di proteggere il premier dai processi. Per il resto, il governo è una nave fantasma, incapace da dicembre di compiere qualsiasi scelta, qualunque cosa accada. Terremoti, tsunami, crisi nucleari, guerre civili alle porte, rivoluzioni a un tiro di missile da casa. Niente. Disoccupazione, inflazione, scalate estere ai gruppi industriali. Silenzio. Uno dopo l´altro, sono spariti dalla scena i ministeri e i ministri, anche i più popolari e decisionisti. Che fine hanno fatto Brunetta, Maroni, Gelmini, perfino Tremonti? Ridotti a comparse. Sulla scena rimane l´ondivago Frattini, il nulla stesso fatto ministro, inventore del situazionismo in politica estera. E l´improvvisatore Ignazio La Russa, che fa notizia soltanto per calci, insulti e gestacci, mai per essere ministro della Difesa della nazione al centro del Mediterraneo in fiamme. Il mondo procede già come se l´Italia non avesse ufficialmente un governo, a prescindere. Perché convocare a un summit sulla crisi libica una sedia vuota?
Libera da ogni altra missione che non sia la salvaguardia di Berlusconi dalla legge, la maggioranza si divide soltanto sulle linee difensive. Oggi il gran dibattito nel centrodestra si svolge fra avvocati di Berlusconi, all´interno dei due principali studi legali. Quello di Gaetano Pecorella, scettico sulla necessità della battaglia per la prescrizione breve, e l´altro di Niccolò Ghedini, ideatore di leggi ad personam sempre più modellate sulle stringenti esigenze di Berlusconi. Con il ministro Alfano e la Lega nel ruolo di arlecchini servitori di due padroni.
È una condizione abbastanza umiliante da spiegare la deflagrazione di rabbia e violenza di questi giorni, il senso d´inutilità che esplode in un misto di rancore e vittimismo. Tanto più da parte di chi, come gli ex An e i leghisti, coltivava l´ambizione di far politica o almeno la pretesa di farlo credere agli elettori. Ma si ritrova imprigionato nella livrea del maggiordomo, scavalcato nella considerazione dall´ultimo venduto, dall´ultimo compagno di merende e compagna di bunga bunga, e allora se la prende con gli avversari, con i manifestanti, con chiunque ancora osi esibire brandelli di dignità, segnali di esistenza. Il governo e la maggioranza non ci sono più. Nella notte si sono svolte trattative fra i collegi di avvocati del premier, in vista della riconvocazione della Camera. Sarà un altro spettacolo d´angoscia. Per fortuna martedì torneranno in piazza anche i manifestanti in difesa della Costituzione, così potremo uscire ogni tanto dal manicomio di Montecitorio a respirare un po´ di civiltà.

16.9.09

Tra insulti e menzogne

di CURZIO MALTESE

C'è poco da commentare sulla puntata di "Porta a Porta" di ieri sera. Bisogna passare ai fatti. Registrare tutto e inviarlo al resto del mondo, via Internet, con una sola parola d'accompagnamento: "aiuto!". Tre ore di spot governativo, con il miglior presidente del Consiglio degli ultimi 150 anni, autoproclamatosi "superiore a De Gasperi", senza alcun contraddittorio, non soltanto in studio, ma nell'etere intero. Che ne penseranno nei paesi democratici?

Il Presidente Ingegnere, come scriveva Augusto Minzolini prima d'essere premiato con la direzione del Tg1, che consegna le prime case ai terremotati abruzzesi, è l'ultima versione dell'Uomo della Provvidenza. Bruno Vespa lo prende sottobraccio, da vecchio amico, fin dalla prima scena. A spasso fra le macerie dell'Aquila e della democrazia italiana. I commenti del conduttore spaziano fra "ma questo è un record!" a "un altro record!", fino a sfociare "è un miracolo!". Ma Onna, i terremotati e il loro dolore, la ricostruzione dell'Aquila, ancora di là da venire, sono soltanto pretesti.

Dopo mezzora si capisce qual è il vero scopo della trasmissione a reti unificate. Un attacco frontale alla stampa, anzi per dirla tutta a Repubblica. Noi giornalisti di Repubblica siamo "delinquenti", "farabutti" che ci ostiniamo a fargli domande alle quali il premier non risponde da mesi. Se non con questo impasto di minacce e menzogne, come la favola della "perdita di lettori e copie": un'affermazione smentita dalle vendite del giornale in edicola che sono in costante ascesa.

Ecco lo scopo di non avere un Ballarò e neppure un Matrix fra i piedi. Non tanto e non solo per disturbare il "vi piace il presepe?" allestito sulla tragedia del terremoto. Quanto per non rischiare un contraddittorio durante la fase di pestaggio.

Vespa non ci ha neppure provato, a parte il minimo sindacale ("Nessuno di Repubblica è presente"). Lasciamo perdere gli altri figuranti. Nessuno, nell'affrontare il problema dei rapporti con Fini, ha chiesto al Cavaliere un giudizio sui dossier a luci rosse contro il presidente della Camera sventolati come arma di ricatto da Vittorio Feltri, direttore del giornale di famiglia.

Già una volta il presidente del Consiglio era andato nel cosiddetto "salotto principe" della televisione, a "chiarire le vicende di Noemi e il resto", senza chiarire un bel nulla e con i giornalisti presenti, fra i quali il solito Sansonetti, il quale non poteva mancare neppure ieri sera, tutti ben contenti di non rivolgergli mezza domanda sul caso specifico. Stavolta però si è polverizzato davvero ogni primato d'inciviltà. Ma che razza di servizio pubblico è quello che organizza simili agguati? E' un'altra domanda che probabilmente non avrà mai risposta. Non da Berlusconi e tanto meno dai sottostanti vertici della Rai.

Il meno che si possa dire è che la puntata di "Porta a Porta" ha dato ragione a tutte le critiche della vigilia. Anzi, è andata molto oltre le peggiori aspettative. Ed è tuttavia interessante notare l'evoluzione del caso Berlusconi. Che senso ha attaccare la stampa indipendente al cospetto di una platea televisiva che poco o nulla sa delle inchieste di Repubblica e degli scandali del premier, dello stesso discredito internazionale che circonda ormai la figura di Berlusconi in tutto il mondo libero? E' davvero singolare che sia proprio Berlusconi a parlarne. Da solo, visto che i prudenti giornalisti chiamati a fargli ogni volta da corte, astutamente si guardano bene dal citare questi fatti. Per capirlo, ci vorrebbe uno psicoanalista, di quelli bravi.

Alla fine, a parte lo scempio d'informazione, cui ormai si è quasi abituati, indigna più di tutto la strumentalizzazione del dolore della gente abruzzese. La diretta in prima serata e l'oscuramento della concorrenza era stato giustificato dalla Rai con l'urgenza dell'evento, la consegna dei primi novantaquattro appartamenti agli sfollati del terremoto. Chiunque abbia seguito la serata ha potuto constatare come questo fosse appena un miserabile espediente, liquidato in pochi minuti, con qualche frase di circostanza e commozione da attori. Per poi passare al regolamento di conti con chiunque osi criticare il presidente del Consiglio. Ce la potevano risparmiare, questa serata di veleni e sciacalli.

28.9.07

I conti della Chiesa: ecco quanto ci costa

L'otto per mille, le scuole, gli ospedali, gli insegnanti di religione e i grandi eventi
Ogni anno, dallo Stato, arrivano alle strutture ecclesiastiche circa 4 miliardi di euro

di CURZIO MALTESE

"Quando sono arrivato alla Cei, nel 1986, si trovavano a malapena i soldi per pagare gli stipendi di quattro impiegati". Camillo Ruini non esagera. A metà anni Ottanta le finanze vaticane sono una scatola vuota e nera. Un anno dopo l'arrivo di Ruini alla Cei, soltanto il passaporto vaticano salva il presidente dello Ior, monsignor Paul Marcinkus, dall'arresto per il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. La crisi economica è la ragione per cui Giovanni Paolo II chiama a Roma il giovane vescovo di Reggio Emilia, allora noto alle cronache solo per aver celebrato il matrimonio di Flavia Franzoni e Romano Prodi, ma dotato di talento manageriale. Poche scelte si riveleranno più azzeccate. Nel "ventennio Ruini", segretario dall'86 e presidente dal '91, la Cei si è trasformata in una potenza economica, quindi mediatica e politica. In parallelo, il presidente dei vescovi ha assunto un ruolo centrale nel dibattito pubblico italiano e all'interno del Vaticano, come mai era avvenuto con i predecessori, fino a diventare il grande elettore di Benedetto XVI.
Le ragioni dell'ascesa di Ruini sono legate all'intelligenza, alla ferrea volontà e alle straordinarie qualità di organizzatore del personaggio. Ma un'altra chiave per leggerne la parabola si chiama "otto per mille". Un fiume di soldi che comincia a fluire nelle casse della Cei dalla primavera del 1990, quando entra a regime il prelievo diretto sull'Irpef, e sfocia ormai nel mare di un miliardo di euro all'anno. Ruini ne è il dominus incontrastato. Tolte le spese automatiche come gli stipendi dei preti, è il presidente della conferenza episcopale, attraverso pochi fidati collaboratori, ad avere l'ultima parola su ogni singola spesa, dalla riparazione di una canonica alla costruzione di una missione in Africa agli investimenti immobiliari e finanziari.

Dall'otto per mille, la voce più nota, parte l'inchiesta di Repubblica sul costo della chiesa cattolica per gli italiani. Il calcolo non è semplice, oltre che poco di moda. Assai meno di moda delle furenti diatribe sul costo della politica. Il "prezzo della casta" è ormai calcolato in quattro miliardi di euro all'anno. "Una mezza finanziaria" per "far mangiare il ceto politico". "L'equivalente di un Ponte sullo Stretto o di un Mose all'anno".

Alla cifra dello scandalo, sbattuta in copertina da Il Mondo e altri giornali, sulla scia di La Casta di Rizzo e Stella e Il costo della democrazia di Salvi e Villone, si arriva sommando gli stipendi di 150 mila eletti dal popolo, dai parlamentari europei all'ultimo consigliere di comunità montane, più i compensi dei quasi trecentomila consulenti, le spese per il funzionamento dei ministeri, le pensioni dei politici, i rimborsi elettorali, i finanziamenti ai giornali di partito, le auto blu e altri privilegi, compresi buvette e barbiere di Montecitorio.

Per la par condicio bisognerebbe adottare al "costo della Chiesa" la stessa larghezza di vedute. Ma si arriverebbe a cifre faraoniche quanto approssimative, del genere strombazzato nei libelli e in certi siti anticlericali.

Con più prudenza e realismo si può stabilire che la Chiesa cattolica costa in ogni caso ai contribuenti italiani almeno quanto il ceto politico. Oltre quattro miliardi di euro all'anno, tra finanziamenti diretti dello Stato e degli enti locali e mancato gettito fiscale. La prima voce comprende il miliardo di euro dell'otto per mille, i 650 milioni per gli stipendi dei 22 mila insegnanti dell'ora di religione ("Un vecchio relitto concordatario che sarebbe da abolire", nell'opinione dello scrittore cattolico Vittorio Messori), altri 700 milioni versati da Stato ed enti locali per le convenzioni su scuola e sanità. Poi c'è la voce variabile dei finanziamenti ai Grandi Eventi, dal Giubileo (3500 miliardi di lire) all'ultimo raduno di Loreto (2,5 milioni di euro), per una media annua, nell'ultimo decennio, di 250 milioni. A questi due miliardi 600 milioni di contributi diretti alla Chiesa occorre aggiungere il cumulo di vantaggi fiscali concessi al Vaticano, oggi al centro di un'inchiesta dell'Unione Europea per "aiuti di Stato". L'elenco è immenso, nazionale e locale. Sempre con prudenza si può valutare in una forbice fra 400 ai 700 milioni il mancato incasso per l'Ici (stime "non di mercato" dell'associazione dei Comuni), in 500 milioni le esenzioni da Irap, Ires e altre imposte, in altri 600 milioni l'elusione fiscale legalizzata del mondo del turismo cattolico, che gestisce ogni anno da e per l'Italia un flusso di quaranta milioni di visitatori e pellegrini. Il totale supera i quattro miliardi all'anno, dunque una mezza finanziaria, un Ponte sullo Stretto o un Mose all'anno, più qualche decina di milioni.

La Chiesa cattolica, non eletta dal popolo e non sottoposta a vincoli democratici, costa agli italiani come il sistema politico. Soltanto agli italiani, almeno in queste dimensioni. Non ai francesi, agli spagnoli, ai tedeschi, agli americani, che pure pagano come noi il "costo della democrazia", magari con migliori risultati.

Si può obiettare che gli italiani sono più contenti di dare i soldi ai preti che non ai politici, infatti se ne lamentano assai meno. In parte perché forse non lo sanno. Il meccanismo dell'otto per mille sull'Irpef, studiato a metà anni Ottanta da un fiscalista all'epoca "di sinistra" come Giulio Tremonti, consulente del governo Craxi, assegna alla Chiesa cattolica anche le donazioni non espresse, su base percentuale. Il 60 per cento dei contribuenti lascia in bianco la voce "otto per mille" ma grazie al 35 per cento che indica "Chiesa cattolica" fra le scelte ammesse (le altre sono Stato, Valdesi, Avventisti, Assemblee di Dio, Ebrei e Luterani), la Cei si accaparra quasi il 90 per cento del totale. Una mostruosità giuridica la definì già nell'84 sul Sole 24 Ore lo storico Piero Bellini.

Ma pur considerando il meccanismo "facilitante" dell'otto per mille, rimane diffusa la convinzione che i soldi alla Chiesa siano ben destinati, con un ampio "ritorno sociale". Una mezza finanziaria, d'accordo, ma utile a ripagare il prezioso lavoro svolto dai sacerdoti sul territorio, la fatica quotidiana delle parrocchie nel tappare le falle sempre più evidenti del welfare, senza contare l'impegno nel Terzo Mondo. Tutti argomenti veri. Ma "quanto" veri?

Fare i conti in tasca al Vaticano è impresa disperata. Ma per capire dove finiscono i soldi degli italiani sarà pur lecito citare come fonte insospettabile la stessa Cei e il suo bilancio annuo sull'otto per mille. Su cinque euro versati dai contribuenti, la conferenza dei vescovi dichiara di spenderne uno per interventi di carità in Italia e all'estero (rispettivamente 12 e 8 per cento del totale). Gli altri quattro euro servono all'autofinanziamento. Prelevato il 35 per cento del totale per pagare gli stipendi ai circa 39 mila sacerdoti italiani, rimane ogni anno mezzo miliardo di euro che il vertice Cei distribuisce all'interno della Chiesa a suo insindacabile parere e senza alcun serio controllo, sotto voci generiche come "esigenze di culto", "spese di catechesi", attività finanziarie e immobiliari. Senza contare l'altro paradosso: se al "voto" dell'otto per mille fosse applicato il quorum della metà, la Chiesa non vedrebbe mai un euro.

Nella cultura cattolica, in misura ben maggiore che nelle timidissime culture liberali e di sinistra, è in corso da anni un coraggioso, doloroso e censuratissimo dibattito sul "come" le gerarchie vaticane usano il danaro dell'otto per mille "per troncare e sopire il dissenso nella Chiesa". Una delle testimonianze migliori è il pamphlet "Chiesa padrona" di Roberto Beretta, scrittore e giornalista dell'Avvenire, il quotidiano dei vescovi. Al capitolo "L'altra faccia dell'otto per mille", Beretta osserva: "Chi gestisce i danari dell'otto per mille ha conquistato un enorme potere, che pure ha importantissimi risvolti ecclesiali e teologici". Continua: "Quale vescovo per esempio - sapendo che poi dovrà ricorrere alla Cei per i soldi necessari a sistemare un seminario o a riparare la cattedrale - alzerà mai la mano in assemblea generale per contestare le posizioni della presidenza?". "E infatti - conclude l'autore - i soli che in Italia si permettono di parlare schiettamente sono alcuni dei vescovi emeriti, ovvero quelli ormai in pensione, che non hanno più niente da perdere...".

A scorrere i resoconti dei convegni culturali e le pagine di "Chiesa padrona", rifiutato in blocco dall'editoria cattolica e non pervenuto nelle librerie religiose, si capisce che la critica al "dirigismo" e all'uso "ideologico" dell'otto per mille non è affatto nell'universo dei credenti. Non mancano naturalmente i "vescovi in pensione", da Carlo Maria Martini, ormai esiliato volontario a Gerusalemme, a Giuseppe Casale, ex arcivescovo di Foggia, che descrive così il nuovo corso: "I vescovi non parlano più, aspettano l'input dai vertici... Quando fanno le nomine vescovili consultano tutti, laici, preti, monsignori, e poi fanno quello che vogliono loro, cioè chiunque salvo il nome che è stato indicato". Il già citato Vittorio Messori ha lamentato più volte "il dirigismo", "il centralismo" e "lo strapotere raggiunto dalla burocrazia nella Chiesa". Alfredo Carlo Moro, giurista e fratello di Aldo, in uno degli ultimi interventi pubblici ha lanciato una sofferta accusa: "Assistiamo ormai a una carenza gravissima di discussione nella Chiesa, a un impressionante e clamoroso silenzio; delle riunioni della Cei si sa solo ciò che dichiara in principio il presidente; i teologi parlano solo quando sono perfettamente in linea, altrimenti tacciono".

La Chiesa di vent'anni fa, quella in cui Camillo Ruini comincia la sua scalata, non ha i soldi per pagare gli impiegati della Cei, con le finanze scosse dagli scandali e svuotate dal sostegno a Solidarnosc. La cultura cattolica si sente derisa dall'egemonia di sinistra, ignorata dai giornali laici, espulsa dall'universo edonista delle tv commerciali, perfino ridotta in minoranza nella Rai riformata. Eppure è una Chiesa ancora viva, anzi vitalissima. Tanto pluralista da ospitare nel suo seno mille voci, dai teologi della liberazione agli ultra tradizionalisti seguaci di monsignor Lefebrve. Capace di riconoscere movimenti di massa, come Comunione e Liberazione, e di "scoprire" l'antimafia, con le omelie del cardinale Pappalardo, il lavoro di don Puglisi a Brancaccio, l'impegno di don Italo Calabrò contro la 'ndrangheta.
Dopo vent'anni di "cura Ruini" la Chiesa all'apparenza scoppia di salute. È assai più ricca e potente e ascoltata a Palazzo, governa l'agenda dei media e influisce sull'intero quadro politico, da An a Rifondazione, non più soltanto su uno. Nelle apparizioni televisive il clero è secondo soltanto al ceto politico. Si vantano folle oceaniche ai raduni cattolici, la moltiplicazione dei santi e dei santuari, i record di audience delle fiction di tema religioso. Le voci di dissenso sono sparite. Eppure le chiese e le sagrestie si svuotano, la crisi di vocazioni ha ridotto in vent'anni i preti da 60 a 39 mila, i sacramenti religiosi come il matrimonio e il battesimo sono in diminuzione.

Il clero è vittima dell'illusoria equazione mediatica "visibilità uguale consenso", come il suo gemello separato, il ceto politico. Nella vita reale rischia d'inverarsi la terribile profezia lanciata trent'anni fa da un teologo progressista: "La Chiesa sta divenendo per molti l'ostacolo principale alla fede. Non riescono più a vedere in essa altro che l'ambizione umana del potere, il piccolo teatro di uomini che, con la loro pretesa di amministrare il cristianesimo ufficiale, sembrano per lo più ostacolare il vero spirito del cristianesimo". Quel teologo si chiamava Joseph Ratzinger.

(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)

repubblica.it