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17.1.17

Joseph Stiglitz: La rabbia è già esplosa urgenti nuove regole su tasse, bonus e lobby

Il premio Nobel Joseph Stiglitz: “Se la maggioranza dei cittadini si sente esclusa dai vantaggi della crescita si ribellerà al sistema, Brexit e Trump lo dimostrano” 
(da La Repubblica)
Negli ultimi anni, incontrandosi a Davos, i leader del mondo economico e imprenditoriale hanno classificato la disuguaglianza tra i maggiori rischi per l’economia globale, riconoscendo che si tratta di questione economica oltre che morale. Non vi è dubbio, infatti, che se i cittadini non hanno reddito e perdono progressivamente potere d’acquisto, le corporation non avranno modo di crescere e prosperare. Il FMI è della stessa idea e avverte che a funzionare meglio sono i paesi dove c’è meno disuguaglianza.
Se la maggioranza dei cittadini sente di non beneficiare a sufficienza dei proventi della crescita o di essere penalizzata dalla globalizzazione finirà col ribellarsi al sistema economico nel quale vive. In realtà dopo Brexit e i risultati delle elezioni americane, ci si deve chiedere seriamente se questa ribellione non sia già cominciata. Sarebbe d’altronde del tutto comprensibile. In America il reddito medio del 90% dei meno abbienti ristagna da 25 anni e l’aspettativa di vita ha mediamente cominciato ad abbassarsi.
Da anni, Oxfam fotografa i livelli sempre più accentuati della disuguaglianza globale e ci ricorda come nel 2014 fossero 85 i super ricchi – molti dei quali presenti a Davos – a detenere la stessa ricchezza di metà della popolazione più povera (3,6 miliardi di persone). Oggi, a detenere quella ricchezza sono solo in 8.
È chiaro dunque che a Davos il tema della concentrazione della ricchezza nelle mani di pochissimi abbia continuato a tenere banco. Solo per alcuni continua a essere una questione morale, ma per tutti è una questione economica e politica che mette in gioco il futuro dell’economia di mercato per come la conosciamo. C’è una domanda che assilla, sessione dopo sessione, gli Ad presenti al Forum: «C’è qualcosa che le corporation possono fare rispetto alla piaga della disuguaglianza che mette in pericolo la sostenibilità economica, politica e sociale del nostro democratico sistema di mercato?» La risposta è sì.
La prima idea, semplice ed efficace, è che le corporation paghino la loro giusta quota di tasse, un tassello imprescindibile della responsabilità d’impresa, smettendo di fare ricorso a giurisdizioni a fiscalità agevolata. Apple potrebbe sentire di essere stata ingiustamente presa di mira tra tante, ma in fondo ha solo eluso un po’ più di altri.
Rinunciare a giurisdizioni segrete e paradisi fiscali societari, siano essi in casa o offshore, a Panama o alle Cayman nell’emisfero occidentale, oppure in Irlanda e in Lussemburgo in Europa. Non incoraggiare i paesi in cui si opera a partecipare da protagonisti alla dannosa corsa al ribasso sulla tassazione degli utili d’impresa, in cui gli unici a perdere davvero sono i poveri in tutto il mondo.
È vergognoso che il Presidente di un paese si vanti di non aver pagato le tasse per quasi vent’anni – suggerendo che siano più furbi quelli che non pagano –, o che un’azienda paghi lo 0,005% di tasse sui propri utili, come ha fatto la Apple. Non è da furbi, è immorale.
L’Africa da sola perde 14 miliardi di dollari in entrate a causa dei paradisi fiscali usati dai suoi super-ricchi: a questo proposito Oxfam ha calcolato che la cifra sarebbe sufficiente a pagare la spesa sanitaria per salvare la vita di 4 milioni di bambini e impiegare un numero di insegnanti sufficiente per mandare a scuola tutti i ragazzi di quel continente.
C’è poi una seconda idea altrettanto facile: trattare i propri dipendenti in modo dignitoso. Un dipendente che lavora a tempo pieno non dovrebbe essere povero. Ma è quel che accade: nel Regno Unito, per esempio, vive in povertà il 31% delle famiglie in cui c’è un adulto che lavora. I top manager delle grandi corporation americane portano a casa circa 300 volte lo stipendio di un dipendente medio. È molto di più che in altri paesi o in qualunque altro periodo della storia, e questa forbice ampissima non può essere spiegata semplicemente con i differenziali di produttività. In molti casi gli Ad intascano ingenti somme solo perché niente impedisce loro di farlo, anche se questo significa danneggiare gli altri dipendenti e alla lunga compromettere il futuro stesso dell’azienda. Henry Ford aveva capito l’importanza di un buono stipendio, ma i dirigenti di oggi ne hanno perso la cognizione.
Infine c’è una terza idea, sempre facile ma più radicale: investire nel futuro dell’azienda, nei suoi dipendenti, in tecnologia e nel capitale. Senza questo non ci sarà lavoro e la disuguaglianza non potrà che crescere. Attualmente invece una porzione sempre più consistente di utili finisce ai ricchi azionisti. Un esempio su tutti viene dalla Gran Bretagna, dove nel 1970 agli azionisti andava il 10% degli utili d’impresa, oggi il 70%. Storicamente le banche (e il settore finanziario) hanno svolto l’importante funzione di raccogliere risparmio dalle famiglie da investire nel settore delle imprese per costruire fabbriche e creare posti di lavoro. Oggi negli Stati Uniti il flusso netto di denaro compie esattamente il percorso opposto. L’anno scorso, Philip Green, magnate britannico della vendita al dettaglio, è stato accusato da una commissione parlamentare di non aver investito abbastanza nella sua azienda e di aver inseguito il proprio tornaconto personale, arrivando alla bancarotta e a un deficit previdenziale di 200 milioni di sterline. Per quanto incensato e blandito dai governi succedutisi, promosso a cavaliere del regno e considerato faro dell’economia britannica, quella commissione parlamentare non avrebbe potuto scegliere parole più esatte, definendolo come «la faccia inaccettabile del capitalismo».
Le multinazionali sanno che il loro successo non dipende solo dalle leggi dell’economia, ma dalle scelte di politica economica che ciascun paese compie. È per questo che spendono così tanto denaro per fare lobby. Negli Stati Uniti, il settore bancario ha esercitato il suo potere d’influenza per ottenere la deregulation, raggiungendo il proprio obiettivo. Ne sanno qualcosa i contribuenti costretti a pagare un conto salato per quanto accaduto in seguito. Negli ultimi 25 anni, in molti paesi, le regole dell’economia liberista sono state riscritte col risultato di rafforzare il potere del mercato e far esplodere la crisi della disuguaglianza. Molte corporation sono poi state particolarmente abili – più che in qualsiasi altro campo – nel godere di una rendita di posizione – vale a dire nel riuscire ad assicurarsi una porzione più grande di ricchezza nazionale, esercitando un potere monopolistico o ottenendo favori dai governi. Ma quando i profitti hanno questa origine, la ricchezza stessa di una nazione è destinata a diminuire. Il mondo è pieno di aziende guidate da uomini illuminati che hanno capito quanto l’unica prosperità sostenibile sia la prosperità condivisa, e che pertanto non fanno uso della propria influenza per orientare la politica, al fine di mantenere una posizione di rendita finanziaria. Hanno capito che nei paesi dove la disuguaglianza cresce a dismisura, le regole dovranno essere riscritte per favorire investimenti a lungo termine, una crescita più veloce e una prosperità condivisa.

29.1.09

I grandi colpevoli tutti a Davos

di Galapagos
I protagonisti del World Economic Forum sono correi dell’attuale crisi mondiale che assume contorni sempre più spaventosi per i più deboli.

Se il prossimo anno, come promesso da Obama, Guantanamo sarà svuotata potrebbe essere utilizzata per trasferirci il meeting di Davos. Buttando via la chiave, perché il mondo vivrebbe meglio. Come da tradizione, nello scenario da cartolina - Davos coperta di neve - per ora i grandi della terra sono da ieri in conclave. Partecipare costa caro - 40 mila euro la quota di iscrizione - ma non per i circa 1.500 rappresentati del mondo finanziario provenienti da tutto il mondo. Quest'anno al centro del World Economic Forum è la ricerca di una strategia di uscita dalla crisi. La cronache ci dicono che sono assenti un po' di banchieri: pochi finiti in carcere, altri «dimissionati» per salvare la faccia. Aver eliminato un po' di mele marce non rende il meeting svizzero una cosa seria e pulita: la maggior parte dei presenti è almeno correa del tracollo dell'economia mondiale.

Dalla relazione introduttiva abbiamo saputo che nel 2009 il Pil mondiale per la prima volta dal 1944 dovrebbe diminuire, nonostante il Fmi internazionale insista su un aumento dello 0,5%. Ma che fiducia possiamo dare al massimo organismo monetario internazionale che da anni non ne azzecca una? Ovviamente nessuna. E ieri abbiamo avuto l'ultima conferma dall'aggiornamento del Global Financial Stability Report che ha rivisto le cifre sul deterioramento potenziale degli asset originati negli Stati uniti a «2.200 miliardi di dollari dai 1.400 previsti appena in ottobre»: in appena tre mesi un errore di oltre il 50%. Roosevelt appena insediato alla presidenza degli Usa fece una dichiarazione di fuoco contro le banche che avevano distrutto l'economia. La sua analisi è attualissima. E la conferma l'abbiamo avuto dal Global Employment Trends pubblicato dall'Ilo, l'ufficio internazionale del lavoro, uno dei bracci dell'Onu. Con maggiore prudenza del Fmi (ma anche dell'Ocse, della Bce o della Banca mondiale) l'Ilo presenta tre scenari delle conseguenze della crisi sul lavoro nel 2009: nell'ipotesi più favorevole saranno distrutti nel mondo 18 milioni di posti di lavoro; in quella peggiore 51 milioni.

I senza lavoro aumenteranno di una cifra pari all'1% della popolazione mondiale, neonati compresi. Ma non è solo la disoccupazione a preoccupare l'Ilo che annuncia anche un incredibile aumento dei lavoratori poveri e del loro potere d'acquisto. La crisi come sempre la pagano i lavoratori, ma a Davos sembrano non accorgersene e si discute soprattutto di come salvare il sistema finanziario sul quale sono già piovuti centinaia di miliardi di aiuti pubblici. Molte banche sono già state nazionalizzate, altri centinaia di miliardi sono pronti a essere girati alle banche per rilevare i bond tossici emessi dalle stesse banche. E quando (ma quando?) il sistema sarà risanato il tutto sarà riprivatizzato. A Davos uno degli ospiti d'onore è il mitico Soros. Per chi ha la memoria corta il finanziere svizzero fu quello che nel 1992 mise in crisi la sterlina e la lira. Il risultato fu l'uscita delle due monete dallo Sme (il sistema monetario europeo) una svalutazione pesantissima e - per l'Italia - una stangata senza precedenti da oltre 90 mila miliardi di lire (governo Amato) che mandò in recessione il paese con quasi un milione di nuovi disoccupati.

Soros passa per essere una persona per bene: un capitalista perfetto che guadagna tantissimo e si libera la coscienza girando miliardi di dollari alla sua Ungheria. Tutto «regolare» insomma. Così regolare che Soros in una intervista pubblicata ieri ha confessato che sta puntando parecchi soldini ancora una volta contro la sterlina giocando al ribasso, puntando sulla svalutazione della valuta e destabilizzando l'economia della Gran Bretagna. Ma si sa la speculazione è il sale del capitalismo.

ilmanifesto.it