Gustavo Zagrebelsky (La Repubblica)
Viviamo un tempo esecutivo. “L’esecutivo” vorrebbe tutto. “Il legislativo” e “il giudiziario” dovrebbero essere nulla. Se vogliono contare qualcosa, sono d’impiccio. Il loro dovere è di adeguarsi, di allinearsi, di mettersi in riga. L’esecutivo deve “tirare diritto” alla meta, cioè deve “fare”, deve “lavorare” (e più non domandare). Il legislativo e il giudiziario, se non “si adeguano”, costringono a rallentamenti, deviazioni, ripensamenti, fermate: cose che sarebbero normali e necessarie, nel tempo degli equilibri costituzionali; che sono invece anomalie dannose, nel tempo esecutivo.
Il tempo esecutivo è anche, e innanzitutto, un tempo in cui la politica è messa in disparte. Chi parla di politica è sospettato d’ideologia. La politica è innanzitutto discussione e scelta dei fini in comune. Il tempo esecutivo annulla il discorso sui fini e si concentra sui soli mezzi. Concentrarsi sui soli mezzi significa assumere come dato indiscutibile ciò che c’è, l’esistente, il presente. Il fine unico del momento esecutivo è la necessità che obbliga.
Le parole seduttive e di per sé vuote come “innovazione”, “riforme”, “modernizzazione”, “crescita” sono parole non di libertà, ma di necessità, necessità che non lascia spazio alla scelta del perché, ma solo del percome. Gli esecutivi del tempo attuale dove dominano gli interessi finanziari, nelle posizioni-chiave sono occupati da uomini d’affari e di finanza perché essi, con tutti i mezzi, anche con i più amari per i cittadini e per le loro condizioni di vita, devono essere garanti di assetti ed equilibri che s’impongono perentoriamente come se fossero fatalità. Sono anch’essi, a modo loro, vittime della necessità.
Il tempo esecutivo e nonpolitico è anche tempo della tecnica che soppianta la democrazia. Gli esecutivi “tecnici” che, in forma più o meno esplicita, hanno preso piede negli ultimi decenni non sono anomalie, ma conseguenze funzionali a questo stato di cose che è il mantenimento dello status quo o, come anche è stato detto, la dittatura del presente che si autoriproduce e aspira a crescere sempre di più su se stessa. La tecnica è in sé, per sua natura, conservatrice. Quando si richiede l’intervento di un tecnico su un manufatto, ciò è per ripararlo in caso di guasto o per potenziarne le possibilità, non certo per cambiarlo. La stessa cosa è per la tecnica che prende il posto della politica. Se si pongono questioni di giustizia, non è in vista di riforme sociali, come quelle programmaticamente indicate dalla Costituzione, ma è solo per dare sfogo alla pressione delle ingiustizie quando diventano pericolose per la stabilità degli equilibri che devono essere preservati. Si può facilmente constatare la connessione che naturalmente si crea tra i governi tecnici e l’occultamento della politica. C’è una coerenza, ma una coerenza inquietante.
Lo schiacciamento sulla perpetuazione del presente coincide con l’assenza di discorsi sui fini, condannati a priori come irresponsabili o, nella migliore delle ipotesi, come vaneggiamenti impossibili. Una delle espressioni più in uso e più violentatrici della politica è “non ci sono alternative”. Non ci si accorge che chi soggiace alla forza intimidatrice di quest’espressione si fa sostenitore di nichilismo politico, la forma più perfetta di anti-politica conservatrice. Del nichilismo politico, il corollario è la tecnocrazia: i tecnocrati rifuggono da ogni discorso sui fini che bollano come “ideologia”, come se il loro realismo cinico non sia esso stesso un’ (altra) ideologia.
Il nichilismo è il regno del nulla. Poiché la vita pubblica si alimenta con la “comunicazione”, si comunica il nulla. O, meglio: si comunicano le misure tecniche, e con molta enfasi. Ma le idee politiche svaniscono entro un linguaggio allusivo che non ha nulla di politico. Così, in assenza di discorsi effettivamente politici, i contrasti vengono ridotti alla contrapposizione tra il voler fare e il volere impedire di fare. Il tempo tecnico è il tempo delle banalità politiche e, parallelamente, dei “politici” banali.
La politica, per gli Antichi, era l’arte del buon governo: il buon politico era colui che conosceva le regole pratiche della sua azione. La politica, per i Moderni, è un’altra cosa: è innanzitutto confronto e competizione tra visioni diverse della società, cui segue — segue per conseguenza — l’azione tecnico-esecutiva.
Solo questa concezione della politica è compatibile con la visione costituzionale della democrazia, cioè con il pluralismo delle idee e il libero dibattito tra chi se ne fa portatore, l’organizzazione delle opinioni in partiti e movimenti politici, il rispetto dei diritti di tutti e specialmente delle minoranze, le libere elezioni, il confronto tra maggioranza e opposizione, la possibilità riconosciuta all’opposizione di diventare maggioranza secondo regole elettorali imparziali. Questi elementi minimi, costitutivi della democrazia, si svuotano di significato, quando il governo delle società è conservazione attraverso misure tecniche. Le forme della democrazia possono anche non essere eliminate ma, allora, la sostanza si restringe e rinsecchisce, come un guscio svuotato. Le idee generali e i progetti si inaridiscono; i partiti si cristallizzano attorno alle loro oligarchie; il conformismo politico alimenta il cosiddetto pensiero unico e il pensiero unico alimenta a sua volta il conformismo politico. La competizione tra i partiti solo illusoriamente ha una posta politica. In realtà si trasforma in lotta per ottenere posti.
Quando si denuncia il deficit di democrazia si vuole riassumere il rattrappimento della vita pubblica sull’esistente, presentato come unica possibilità, cioè — per usare uno slogan — come “dittatura del presente”. Per usare un terribile linguaggio filosofico, l’ ente viene presentato e imposto come se fosse l’ essere, e l’essere è ciò che necessariamente è. Tutto il resto, tutto ciò che non vi rientra, nel caso migliore è bollato come futilità e, in quello peggiore, impedimento o sabotaggio.
Il tempo esecutivo è incompatibile con il dissenso operante. Per questo, nel governo esecutivo i diversi soggetti della vita pubblica devono progressivamente livellarsi e sincronizzarsi. In una parola: devono egualizzarsi e mettersi in linea, la “linea nazionale”. Sentiamo parlare di “partito della Nazione”, c’è la tentazione di voler essere il premier (non di un governo, d’una maggioranza, ma) della Nazione al di là di destra e sinistra, abbiamo la Tv della Nazione, avremo presto, forse, l’Editore nazionale, eccetera.
Ma, il luogo istituzionale in cui consenso e dissenso politico e sociale dovrebbero esprimersi con compiutezza è un parlamento risultante da libere elezioni. Questo dovrebbe essere il punto di riferimento della democrazia, la sede che al massimo livello rappresenta — come dicevano i costituzionalisti d’un tempo — la coscienza civile della Nazione tutta intera, non però come un intero, ma come componenti di un “intero confronto” tra loro. Un tale parlamento sarebbe precisamente il primo ostacolo che incontra il governo esecutivo. Questa spiega perché lo si umili spesso con procedure del tipo “prendere o lasciare” e perché coloro — deputati e senatori — che collaborano al progetto del governo esecutivo si umilino essi stessi accettando senza lamentarsi, o con deboli lamenti, la minaccia dello scioglimento che viene ventilata, come se fosse prerogativa del presidente del Consiglio e non del presidente della Repubblica. Sotto quest’aspetto dovrebbero principalmente valutarsi le riforme istituzionali: aumentano o diminuiscono la capacità rappresentativa del Parlamento?
Le espressioni verbali che usiamo sono spesso rivelatrici. Della legge elettorale si dice ch’essa deve consentire ai cittadini di conoscere il vincitore “la sera stessa”. Ma la politica democratica non conosce vincitori e vinti. Dalle elezioni risulterà il partito che è più forte degli altri numericamente, ma non certo il partito che, per i successivi cinque anni della legislatura, “ha sempre ragione”. Non ci si rende conto di che cosa trascina con sé questa espressione, tanto disinvoltamente usata nel dibattito politico: implica disprezzo per i partiti minori che formano le opposizioni e l’insofferenza verso i poteri di controllo, la magistratura in primo luogo.
Nella democrazia costituzionale — l’opposto della tirannia della maggioranza — non c’è posto per strappi e “aventini”. Ma il partito che ha ottenuto il maggior successo nelle elezioni, proprio per questa ragione, ha un onere particolare: governare senza provocare fratture e strappi, onde chi risulta soccombente non abbia motivo di ritenersi vinto, annientato, e non debba considerare la sua presenza nelle istituzioni ormai superflua.
Quando si guardano i cambiamenti istituzionali in corso d’approvazione nel loro complesso — non questa o quest’altra disposizione presa a sé stante — è difficile non vedere, a meno di non voler vedere, il quadro: un sistema elettorale che, tramite il premio di maggioranza e, ancor di più, con il ballottaggio, comprime la rappresentanza e schiaccia le minoranze, nella logica vincitore-vinti; una sola camera con poteri politici pieni e con procedimenti dominati dall’esecutivo; un’attività legislativa in cui la deliberazione rischia in ogni momento di ridursi a interinazione veloce delle proposte governative; controllo maggioritario, rafforzato dal premio di maggioranza, delle nomine di garanzia (presidente della Repubblica, giudici costituzionali, membri del Csm, presidente della Camera, e successive decisioni a questi attribuite); minaccia di scioglimento della Camera in caso di dissenso dal Governo: tutte questioni in ballo nel processi di riforma in corso, che restano in piedi anche nelle nuove versioni dei testi in discussione, pur emendati rispetto agli originari.
Soprattutto, influisce sul giudizio della situazione il silenzio totale su due punti cruciali: la democrazia nei partiti e la vitalità dell’informazione. Qui sta la materia prima della democrazia e se la materia è corrotta, quale che sia il manufatto (cioè l’impalcatura istituzionale) il risultato non potrà non portare i segni della corruzione. Il guscio sarà svuotato della sostanza. Anzi, servirà a mascherare lo svuotamento.
Non si tratta di difendere un’astratta intoccabilità della Costituzione, la quale prevede la possibilità e le procedure per la propria stessa riforma. La Costituzione non è un totem. Nemmeno è “la costituzione più bella del mondo”. Semplicemente essa delinea una forma politica che si basa sulla democrazia di partecipazione, dove le decisioni collettive procedono attraverso contributi dal basso, cioè dai bisogni sociali, dalle convinzioni della giustizia e della libertà che si formano nella società, si organizzano in forme associative e si esprimono negli organi rappresentativi e si sintetizzano e si traducono in pratica attraverso l’opera del governo.
L’articolo è una sintesi del testo che Gustavo Zagrebelsky presenterà per la discussione a Firenze venerdì e sabato all’associazione Libertà e Giustizia
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
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25.2.15
17.6.10
La buona democrazia e il pericolo delle oligarchie
GUSTAVO ZAGREBELSKY (Repubblica, 17 giugno 2010)
NEL nostro Paese chi distingue la cattiva democrazia dalla buona incappa solitamente in un interdetto: se critichi la democrazia è perché non sei democratico o non lo sei abbastanza, non accetti il responso delle urne, vuoi «delegittimare» chi ha vinto le elezioni. Vorresti che le cose andassero altrimenti da come le vedi tu; che la maggioranza seguisse le tue, non le sue, idee. Tu dici e pensi questo e quello, ma la maggioranza fa tutt' altro. Non te ne dai pace e, invece d'adeguarti in nome del popolo, ti ostini, in nome di non si sa quale altro principio o diritto, anzi in nome della tua presunzione, a non riconoscere d' avere torto.
Così, sei non lealmente d e m o c r a t i c o , m a subdolamente aristocratico, perché pensi tu d'avere, solo o con i tuoi (pochi) amici, la verità in tasca. Non capisci d' essere fuori della storia, uno sconfitto che avrebbe solo il dovere di tacere, mettersi da parte e lasciare il passo ai tempi che avanzano, alla storia che si realizza. In breve: cosciente o non cosciente, sei un «azionista», tra tutti i giudizi politici di condanna, il più infamante e «condiviso». Molto più di ladro, corrotto e corruttore, incapace e incompetente, voltagabbana e servo del potente (...). La democrazia come unica forma di regime legittimo, ha vinto la sua battaglia o, almeno, sembra averla vinta. Pare non avere più rivali (...). Oggi, con la sola eccezione dei regimi dichiaratamente teocratici, dove la secolarizzazione non è penetrata ed è anzi combattuta (come accade in talune repubbliche islamiche), si presenta come l' unica forma di convivenza accettabile, dunque legittima. Ciò non solo nel mondo occidentale, dove maggiormente si è sviluppata, ma nel mondo intero, ed è proposta come valore universale dell' umanità. Talora gli intenti sono eccellenti, ma qualche volta anche criminali (come quando la si usa come pretesto per l' uso delle armi, al fine di «esportarla») (...). Ci si può chiedere la ragione di tanta fortuna e la ragione, alquanto allarmante, è che democrazia è parola mimetica e promiscua. Con un manto di nobiltà avvolge i governanti, ma questo manto può nascondere le cose più diverse. Con l' ideologia democratica si possono nobilitare le più diverse realtà del potere. Nel tempo del potere secolarizzato, la democrazia è il solo regime che può presentarsi come l' organizzazione di un potere disinteressato. I governanti si concepiscono come mandatari o rappresentanti o benefattori del popolo. Il loro potere è in nome, per conto, nell' interesse altrui. Possono dire di «servire il popolo», cioè di fare ciò che fanno non per il piacer proprio, ma per il bene di tanti o di tutti. Nobile missione! Anche i governanti per diritto divino sostenevano di agire in nome e per conto d' altri, addirittura di Dio. Ma, una volta caduta questa premessa e posto il governo degli uomini sulla terra, solo le democrazie (non certo le autocrazie di qualsiasi genere) conferiscono ai governanti il diritto di proclamare ch' essi non governano nel proprio interesse, ma per il bene di chi è governato. Questa, l' ideologia. E la realtà? (...). Il nodo da sciogliere, a questo punto, nasce dalla constatazione di questo apparente paradosso: mentre da parte dei potenti della terra si accentua la loro dichiarata adesione alla democrazia, cresce e si diffonde lo scetticismo presso chi studia l' odierna morfologia del potere e presso coloro che ne sono l' oggetto e, spesso, le vittime. Per secoli, democrazia è stata la parola d' ordine degli esclusi dal potere; ora sembra diventare l' ostentazione degli inclusi. Pressoi cittadini comuni, non c' è (ancora?) un rovesciamento a favore di concezioni politiche antidemocratiche. C' è piuttosto un accantonamento, un fastidio diffuso, un «lasciatemi in pace» con riguardo ai panegirici della democrazia che, sulla bocca dei potenti, per lo più puzzano di ideologia al servizio del potere e, nelle parole dei deboli, suonano spesso come vuote illusioni. C' è, in breve, una reazione anti-retorica alla retorica democratica. Non c' è bisogno di consultare la scienza politica per sentir risuonare sempre più frequentemente questa semplice domanda, che è come un segnale d' allarme: «democrazia, perché?». Quando si sente esclamare con fastidio: «tanto sono tutti uguali» (quelli della cosiddetta classe dirigente), questo non significa forse che la democrazia ha perso di valore presso questi cittadini, che la considerano semplicemente la vuota rappresentazione o l' occultamento di un potere dal quale essi sono comunque esclusi? Una «teatrocrazia», è stato detto. L' esito potrà essere l' astensione o l' adesione passiva e routinaria: in entrambi i casi, un' abdicazione. È questa la più immediata espressione di uno scetticismo ademocratico dal basso che fa da pendant alla retorica democratica dall' alto. Se si pensa che, storicamente, la democrazia è stata la rivendicazione della massa degli esclusi dal potere, contro la chiusura su di sé dei potenti, c' è evidentemente da registrare un capovolgimento paradossale. Il paradosso si scioglie pensando alle capacità mimetiche o camaleontiche della democrazia, rispetto alle quali è imbattibile. Sotto le sue forme, si può comodamente annidare mimetizzandosi, cioè senza mettersi in mostra (questo è il grande vantaggio), perfino il più ristretto e il meno presentabile potere oligarchico. Le forme democratiche del potere possono essere un' efficace maschera dissimulatoria. È stato così in passato e così è anche nel presente. La storia ci dice che la democrazia può dissimulare l' anti-democrazia (...). Realisticamente, dobbiamo prendere atto che la democrazia deve sempre fare i conti con la sua naturale tendenza all' oligarchia, anzi con la «ferrea legge delle oligarchie»: una legge che esprime una tendenza endemica, cioè mossa da ragioni interne ineliminabili (...). Questa «ferrea legge» si basa sulla constatazione che i grandi numeri, quando hanno conquistato l' uguaglianza, cioè il livellamento nella sfera politica, cioè quando la democrazia è stata proclamata, e tanto più è proclamata allo stato puro, cioè come democrazia immediata, senza delega, ha bisogno di piccoli numeri, di ristrette oligarchie. Non basta. Poiché questa è una patente contraddizione rispetto ai principi, occorre che queste oligarchie siano occulte e che queste,a loro volta, occultino il loro occultamento per mezzo del massimo di esibizioni pubbliche. La democrazia allora si dimostra così essere il regime dell' illusione. Il più benigno dei regimi politici, in apparenza, è il più maligno, in realtà. Il «principio maggioritario», che è l' essenza della democrazia, si rovescia infatti nel «principio minoritario», che è l' essenza dell' autocrazia: un' autocrazia che si appoggia su grandi numeri, ma pur sempre un' autocrazia e, per questo, più pericolosa, non meno pericolosa, del potere in mano a piccole cerchie di persone che si appoggiano solo su se stesse (...). Le oligarchie, nelle odierne società, non si costruiscono su piani paralleli, l' uno sopra l' altro. L' immagine che mi pare più appropriata è quella del «giro» di potere. Intendo con questa espressione - il giro - esattamente ciò che vogliamo dire quando, di fronte a sconosciuti dalla storia, dalle competenze e dai meriti incerti, o dai demeriti certi e dalle carriere improbabili, i quali vengono a occupare posti difficilmente concepibili per loro, ci domandiamo: a che giro appartengono? Una delle grandi divisioni della nostra società è forse proprio questa: tra chi «ha giro», e chi non ce l' ha. Divisione profonda, fatta di carriere, status personali, invidie e risentimenti che avvelenano i rapporti e corrompono i legami sociali, ma che, finché dura,è una verae propria struttura costituzionale materiale. Nei «giri» si scambiano protezione e favori con fedeltà e servizi. Questo scambio ha bisogno di «materia». Occorre disporre di risorse da distribuire come favori, per esempio: danaro facile e impieghi (Cimone e Pericle insegnano), carriere e promozioni, immunità e privilegi. Occorre, dall' altra parte, qualcosa da offrire in restituzione: dal piccolo voto (il voto «di scambio»), all' organizzazione di centinaia o migliaia di voti che si controllano per ragioni di corporazione, di corruzione, di criminalità; dalla disponibilità a corrispondere al favore ricevuto con controprestazioni, personali o per interposta persona, oggi soprattutto per sesso interposto. L' asettico «giro» in realtà è una cloaca e questo è il materiale infetto che trasporta (...). Quando poi nello scambio e nell' intreccio di favori, minacce e ricatti entrano anche organizzazioni criminali, nonè esclusa nemmeno la violenza. Non pochi delitti politici nel violento nostro Paese non si spiegano forse con l' essere venuti meno a un patto di scambio? Dove si alimenta la forza che alimenta i giri? Nella disuguaglianza e nell' illegalità. Essi tanto più si diffondono quanto maggiori sono le disuguaglianze sociali e quanto meno le stesse leggi valgono ugualmente per tutti (...). Come si proteggono i «giri»? Prima di tutto con la copertura e la segretezza. Questa struttura del potere mai come oggi è stata estesa, capillare, omnipervasiva (...). Questo è il carattere nostrano odierno del sistema oligarchico: catene verticali, quasi sempre invisibili e talora segrete, legano tra loro uomini della politica, delle burocrazie, della magistratura, delle professioni, delle gerarchie ecclesiastiche, dell' economia e della finanza, dell' università, della cultura, dello spettacolo, dell' innumerevole pletora di enti, consigli, centri, fondazioni, eccetera, che, secondo i propri principi, dovrebbero essere reciprocamente indipendenti e invece sono attratti negli stessi mulinelli del potere, corruttivi di ruoli, competenze, responsabilità. Se la cattiva democrazia è quella che si è involuta in oligarchie (...), allora per contrasto possiamo definire «buona» la democrazia dove vigono queste due virtù pubbliche: l' amore per l' uguaglianza sotto la legge comune, unito al disprezzo per arrivisti e faccendieri, e la sete di verità circa le cose comuni (...). Con questo passaggio, l' attenzione si è spostata dalla democrazia come forma o regola della politica alla democrazia come carattere degli esseri umani. In effetti, noi possiamo riferirci alla democrazia come tecnica del potere (che, come tutte le tecniche del potere, contiene comunque in sé qualcosa di minaccioso) e come concezione del vivere comune. Il limite della maggior parte dei discorsi attuali sulla democrazia sta nell' avere separato questi due aspetti e nell' avere oscurato il secondo che, invece, è il più importante, perché preliminare e condizionante. Se viene meno la democrazia come esigenza dello spirito pubblico, essa, in quanto regime politico, si può perfino suicidare «democraticamente» (...). Poiché nessuna tecnica d' organizzazione democratica del potere può funzionare se non si appoggia su società che sono esse stesse, e prima di tutto, democratiche, si comprende che è lì la garanzia ultima e nessuna istituzione, da sola, è capace di difendere la democrazia se i più non la vogliono o non ne sono interessati. Le istituzioni, pur tuttavia, sono importanti (...). Il significato profondo delle istituzioni democratiche è tutto in questo: il medesimo obbiettivo - la lotta contro le oligarchie - ma con mezzi ordinari. Quali esse siano queste istituzioni è chiaro: quelle della legalità e della trasparenza; la sovranità della legge e la libertà delle opinioni; le magistrature e l' informazione. Senza di queste, nemmeno il diritto di voto, il diritto primordiale di ogni forma di democrazia, sarebbe dotato di senso democratico, perché non sarebbe permessa l' onesta misurazione del consenso e del dissenso. La democrazia non è dunque possibile in società non democratiche, ancorché adottino le forme esteriori della democrazia. La società democratica è preliminare alla politica democratica. Si deve, allora, promuovere una pedagogia orientata a promuovere l' ethos della democrazia? Platone risponderebbe senza esitazione di sì: «Lo sai che inevitabilmente fra gli individui vi sono tanti tipi quante sono le forme di governo? Credi forse che esse spuntino da una quercia o da una pietra, anziché dal carattere ( ethos) dei cittadini, che le trascinano dalla parte verso cui essi stessi pendono?». In effetti, da molti decenni un' autentica pedagogia democratica è mancata (...). Nel momento della massima diffusione della democrazia - si potrebbe dire: nel momento della sua vittoria su ogni altro sistema di governo -, cioè nel momento dell' indifferenza per assenza di alternative, sembra essere venuta meno l' esigenza di insegnarne lo spirito. La democrazia si è sempre accompagnata alla diffusione dell' istruzione e della cultura, cioè alla liberazione dall' ignoranza e dall' analfabetismo. Ma una specifica educazione dalla democrazia? In effetti, una posizione negativa si giustifica in base alla doppia idea che la democrazia, per essere davvero tale, deve essere il «regime dell' uomo così com' è» e che ogni pedagogia o educazione imposta per cambiarlo «eticamente» - fosse anche per adeguarlo alla democrazia stessa, per creare «l' uomo nuovo» - si risolverebbe in una pratica contraria ai principi della democrazia stessa. Ma «l' uomo così com' è» non è affatto quello che è adatto alla democrazia (...). Sotto certi aspetti, la democrazia è un regime politico innaturale, cioè fortemente legato a premesse culturali che devono essere alimentate: chiede sacrifici, rinunce e dedizione personali, in vista di qualcosa di comune, al di là del raggio degli interessi personali. Non è affatto solo una tecnica certe volte migliore e altre peggiore di altre - per la protezione degli individui e dei loro interessi. È una forma di convivenza che ha a che vedere con l' etica repubblicana, con la res publica, cioè con una dimensione della vita che, per essere di tutti, non deve diventare patrimonio di nessuno. Per questo, essa è sempre a rischio e noi conosciamo bene che cosa siano state e che cosa possano sempre essere la «servitù volontaria» e la spontanea rinuncia alla libertà per il prevalere di interessi particolari. Allora? Come conciliare gli opposti: l' inaccettabilità e, al tempo stesso, la necessità di un' educazione democratica? In un solo modo: dicendo che questo compito è essenziale, ma non è dell' autorità. Esso è rimesso alla libertà. Non spetta allo Stato di svolgerlo, ma alla società. Rientra cioè nella responsabilità di ciascuno di noi, quando entra in relazione con gli altri, là dove la democrazia è atteggiamento etico che può essere diffusivo di se stesso, nel rispetto dell' autonomia degli altri (...). La democrazia, poiché non può invocare rassicurazioni metafisiche, può basarsi solo su se stessa, cioè sui suoi cittadini. Si regge o cade per virtù o vizi loro. Ma proprio per questo, quanti amano la democrazia sapendo che prima e dopo di essa c' è solo qualche forma di autocrazia, c' è cioè la perdita della libertà, devono raddoppiare gli sforzi per difenderla ed espanderla nella coscienza di quanti più è possibile.
NEL nostro Paese chi distingue la cattiva democrazia dalla buona incappa solitamente in un interdetto: se critichi la democrazia è perché non sei democratico o non lo sei abbastanza, non accetti il responso delle urne, vuoi «delegittimare» chi ha vinto le elezioni. Vorresti che le cose andassero altrimenti da come le vedi tu; che la maggioranza seguisse le tue, non le sue, idee. Tu dici e pensi questo e quello, ma la maggioranza fa tutt' altro. Non te ne dai pace e, invece d'adeguarti in nome del popolo, ti ostini, in nome di non si sa quale altro principio o diritto, anzi in nome della tua presunzione, a non riconoscere d' avere torto.
Così, sei non lealmente d e m o c r a t i c o , m a subdolamente aristocratico, perché pensi tu d'avere, solo o con i tuoi (pochi) amici, la verità in tasca. Non capisci d' essere fuori della storia, uno sconfitto che avrebbe solo il dovere di tacere, mettersi da parte e lasciare il passo ai tempi che avanzano, alla storia che si realizza. In breve: cosciente o non cosciente, sei un «azionista», tra tutti i giudizi politici di condanna, il più infamante e «condiviso». Molto più di ladro, corrotto e corruttore, incapace e incompetente, voltagabbana e servo del potente (...). La democrazia come unica forma di regime legittimo, ha vinto la sua battaglia o, almeno, sembra averla vinta. Pare non avere più rivali (...). Oggi, con la sola eccezione dei regimi dichiaratamente teocratici, dove la secolarizzazione non è penetrata ed è anzi combattuta (come accade in talune repubbliche islamiche), si presenta come l' unica forma di convivenza accettabile, dunque legittima. Ciò non solo nel mondo occidentale, dove maggiormente si è sviluppata, ma nel mondo intero, ed è proposta come valore universale dell' umanità. Talora gli intenti sono eccellenti, ma qualche volta anche criminali (come quando la si usa come pretesto per l' uso delle armi, al fine di «esportarla») (...). Ci si può chiedere la ragione di tanta fortuna e la ragione, alquanto allarmante, è che democrazia è parola mimetica e promiscua. Con un manto di nobiltà avvolge i governanti, ma questo manto può nascondere le cose più diverse. Con l' ideologia democratica si possono nobilitare le più diverse realtà del potere. Nel tempo del potere secolarizzato, la democrazia è il solo regime che può presentarsi come l' organizzazione di un potere disinteressato. I governanti si concepiscono come mandatari o rappresentanti o benefattori del popolo. Il loro potere è in nome, per conto, nell' interesse altrui. Possono dire di «servire il popolo», cioè di fare ciò che fanno non per il piacer proprio, ma per il bene di tanti o di tutti. Nobile missione! Anche i governanti per diritto divino sostenevano di agire in nome e per conto d' altri, addirittura di Dio. Ma, una volta caduta questa premessa e posto il governo degli uomini sulla terra, solo le democrazie (non certo le autocrazie di qualsiasi genere) conferiscono ai governanti il diritto di proclamare ch' essi non governano nel proprio interesse, ma per il bene di chi è governato. Questa, l' ideologia. E la realtà? (...). Il nodo da sciogliere, a questo punto, nasce dalla constatazione di questo apparente paradosso: mentre da parte dei potenti della terra si accentua la loro dichiarata adesione alla democrazia, cresce e si diffonde lo scetticismo presso chi studia l' odierna morfologia del potere e presso coloro che ne sono l' oggetto e, spesso, le vittime. Per secoli, democrazia è stata la parola d' ordine degli esclusi dal potere; ora sembra diventare l' ostentazione degli inclusi. Pressoi cittadini comuni, non c' è (ancora?) un rovesciamento a favore di concezioni politiche antidemocratiche. C' è piuttosto un accantonamento, un fastidio diffuso, un «lasciatemi in pace» con riguardo ai panegirici della democrazia che, sulla bocca dei potenti, per lo più puzzano di ideologia al servizio del potere e, nelle parole dei deboli, suonano spesso come vuote illusioni. C' è, in breve, una reazione anti-retorica alla retorica democratica. Non c' è bisogno di consultare la scienza politica per sentir risuonare sempre più frequentemente questa semplice domanda, che è come un segnale d' allarme: «democrazia, perché?». Quando si sente esclamare con fastidio: «tanto sono tutti uguali» (quelli della cosiddetta classe dirigente), questo non significa forse che la democrazia ha perso di valore presso questi cittadini, che la considerano semplicemente la vuota rappresentazione o l' occultamento di un potere dal quale essi sono comunque esclusi? Una «teatrocrazia», è stato detto. L' esito potrà essere l' astensione o l' adesione passiva e routinaria: in entrambi i casi, un' abdicazione. È questa la più immediata espressione di uno scetticismo ademocratico dal basso che fa da pendant alla retorica democratica dall' alto. Se si pensa che, storicamente, la democrazia è stata la rivendicazione della massa degli esclusi dal potere, contro la chiusura su di sé dei potenti, c' è evidentemente da registrare un capovolgimento paradossale. Il paradosso si scioglie pensando alle capacità mimetiche o camaleontiche della democrazia, rispetto alle quali è imbattibile. Sotto le sue forme, si può comodamente annidare mimetizzandosi, cioè senza mettersi in mostra (questo è il grande vantaggio), perfino il più ristretto e il meno presentabile potere oligarchico. Le forme democratiche del potere possono essere un' efficace maschera dissimulatoria. È stato così in passato e così è anche nel presente. La storia ci dice che la democrazia può dissimulare l' anti-democrazia (...). Realisticamente, dobbiamo prendere atto che la democrazia deve sempre fare i conti con la sua naturale tendenza all' oligarchia, anzi con la «ferrea legge delle oligarchie»: una legge che esprime una tendenza endemica, cioè mossa da ragioni interne ineliminabili (...). Questa «ferrea legge» si basa sulla constatazione che i grandi numeri, quando hanno conquistato l' uguaglianza, cioè il livellamento nella sfera politica, cioè quando la democrazia è stata proclamata, e tanto più è proclamata allo stato puro, cioè come democrazia immediata, senza delega, ha bisogno di piccoli numeri, di ristrette oligarchie. Non basta. Poiché questa è una patente contraddizione rispetto ai principi, occorre che queste oligarchie siano occulte e che queste,a loro volta, occultino il loro occultamento per mezzo del massimo di esibizioni pubbliche. La democrazia allora si dimostra così essere il regime dell' illusione. Il più benigno dei regimi politici, in apparenza, è il più maligno, in realtà. Il «principio maggioritario», che è l' essenza della democrazia, si rovescia infatti nel «principio minoritario», che è l' essenza dell' autocrazia: un' autocrazia che si appoggia su grandi numeri, ma pur sempre un' autocrazia e, per questo, più pericolosa, non meno pericolosa, del potere in mano a piccole cerchie di persone che si appoggiano solo su se stesse (...). Le oligarchie, nelle odierne società, non si costruiscono su piani paralleli, l' uno sopra l' altro. L' immagine che mi pare più appropriata è quella del «giro» di potere. Intendo con questa espressione - il giro - esattamente ciò che vogliamo dire quando, di fronte a sconosciuti dalla storia, dalle competenze e dai meriti incerti, o dai demeriti certi e dalle carriere improbabili, i quali vengono a occupare posti difficilmente concepibili per loro, ci domandiamo: a che giro appartengono? Una delle grandi divisioni della nostra società è forse proprio questa: tra chi «ha giro», e chi non ce l' ha. Divisione profonda, fatta di carriere, status personali, invidie e risentimenti che avvelenano i rapporti e corrompono i legami sociali, ma che, finché dura,è una verae propria struttura costituzionale materiale. Nei «giri» si scambiano protezione e favori con fedeltà e servizi. Questo scambio ha bisogno di «materia». Occorre disporre di risorse da distribuire come favori, per esempio: danaro facile e impieghi (Cimone e Pericle insegnano), carriere e promozioni, immunità e privilegi. Occorre, dall' altra parte, qualcosa da offrire in restituzione: dal piccolo voto (il voto «di scambio»), all' organizzazione di centinaia o migliaia di voti che si controllano per ragioni di corporazione, di corruzione, di criminalità; dalla disponibilità a corrispondere al favore ricevuto con controprestazioni, personali o per interposta persona, oggi soprattutto per sesso interposto. L' asettico «giro» in realtà è una cloaca e questo è il materiale infetto che trasporta (...). Quando poi nello scambio e nell' intreccio di favori, minacce e ricatti entrano anche organizzazioni criminali, nonè esclusa nemmeno la violenza. Non pochi delitti politici nel violento nostro Paese non si spiegano forse con l' essere venuti meno a un patto di scambio? Dove si alimenta la forza che alimenta i giri? Nella disuguaglianza e nell' illegalità. Essi tanto più si diffondono quanto maggiori sono le disuguaglianze sociali e quanto meno le stesse leggi valgono ugualmente per tutti (...). Come si proteggono i «giri»? Prima di tutto con la copertura e la segretezza. Questa struttura del potere mai come oggi è stata estesa, capillare, omnipervasiva (...). Questo è il carattere nostrano odierno del sistema oligarchico: catene verticali, quasi sempre invisibili e talora segrete, legano tra loro uomini della politica, delle burocrazie, della magistratura, delle professioni, delle gerarchie ecclesiastiche, dell' economia e della finanza, dell' università, della cultura, dello spettacolo, dell' innumerevole pletora di enti, consigli, centri, fondazioni, eccetera, che, secondo i propri principi, dovrebbero essere reciprocamente indipendenti e invece sono attratti negli stessi mulinelli del potere, corruttivi di ruoli, competenze, responsabilità. Se la cattiva democrazia è quella che si è involuta in oligarchie (...), allora per contrasto possiamo definire «buona» la democrazia dove vigono queste due virtù pubbliche: l' amore per l' uguaglianza sotto la legge comune, unito al disprezzo per arrivisti e faccendieri, e la sete di verità circa le cose comuni (...). Con questo passaggio, l' attenzione si è spostata dalla democrazia come forma o regola della politica alla democrazia come carattere degli esseri umani. In effetti, noi possiamo riferirci alla democrazia come tecnica del potere (che, come tutte le tecniche del potere, contiene comunque in sé qualcosa di minaccioso) e come concezione del vivere comune. Il limite della maggior parte dei discorsi attuali sulla democrazia sta nell' avere separato questi due aspetti e nell' avere oscurato il secondo che, invece, è il più importante, perché preliminare e condizionante. Se viene meno la democrazia come esigenza dello spirito pubblico, essa, in quanto regime politico, si può perfino suicidare «democraticamente» (...). Poiché nessuna tecnica d' organizzazione democratica del potere può funzionare se non si appoggia su società che sono esse stesse, e prima di tutto, democratiche, si comprende che è lì la garanzia ultima e nessuna istituzione, da sola, è capace di difendere la democrazia se i più non la vogliono o non ne sono interessati. Le istituzioni, pur tuttavia, sono importanti (...). Il significato profondo delle istituzioni democratiche è tutto in questo: il medesimo obbiettivo - la lotta contro le oligarchie - ma con mezzi ordinari. Quali esse siano queste istituzioni è chiaro: quelle della legalità e della trasparenza; la sovranità della legge e la libertà delle opinioni; le magistrature e l' informazione. Senza di queste, nemmeno il diritto di voto, il diritto primordiale di ogni forma di democrazia, sarebbe dotato di senso democratico, perché non sarebbe permessa l' onesta misurazione del consenso e del dissenso. La democrazia non è dunque possibile in società non democratiche, ancorché adottino le forme esteriori della democrazia. La società democratica è preliminare alla politica democratica. Si deve, allora, promuovere una pedagogia orientata a promuovere l' ethos della democrazia? Platone risponderebbe senza esitazione di sì: «Lo sai che inevitabilmente fra gli individui vi sono tanti tipi quante sono le forme di governo? Credi forse che esse spuntino da una quercia o da una pietra, anziché dal carattere ( ethos) dei cittadini, che le trascinano dalla parte verso cui essi stessi pendono?». In effetti, da molti decenni un' autentica pedagogia democratica è mancata (...). Nel momento della massima diffusione della democrazia - si potrebbe dire: nel momento della sua vittoria su ogni altro sistema di governo -, cioè nel momento dell' indifferenza per assenza di alternative, sembra essere venuta meno l' esigenza di insegnarne lo spirito. La democrazia si è sempre accompagnata alla diffusione dell' istruzione e della cultura, cioè alla liberazione dall' ignoranza e dall' analfabetismo. Ma una specifica educazione dalla democrazia? In effetti, una posizione negativa si giustifica in base alla doppia idea che la democrazia, per essere davvero tale, deve essere il «regime dell' uomo così com' è» e che ogni pedagogia o educazione imposta per cambiarlo «eticamente» - fosse anche per adeguarlo alla democrazia stessa, per creare «l' uomo nuovo» - si risolverebbe in una pratica contraria ai principi della democrazia stessa. Ma «l' uomo così com' è» non è affatto quello che è adatto alla democrazia (...). Sotto certi aspetti, la democrazia è un regime politico innaturale, cioè fortemente legato a premesse culturali che devono essere alimentate: chiede sacrifici, rinunce e dedizione personali, in vista di qualcosa di comune, al di là del raggio degli interessi personali. Non è affatto solo una tecnica certe volte migliore e altre peggiore di altre - per la protezione degli individui e dei loro interessi. È una forma di convivenza che ha a che vedere con l' etica repubblicana, con la res publica, cioè con una dimensione della vita che, per essere di tutti, non deve diventare patrimonio di nessuno. Per questo, essa è sempre a rischio e noi conosciamo bene che cosa siano state e che cosa possano sempre essere la «servitù volontaria» e la spontanea rinuncia alla libertà per il prevalere di interessi particolari. Allora? Come conciliare gli opposti: l' inaccettabilità e, al tempo stesso, la necessità di un' educazione democratica? In un solo modo: dicendo che questo compito è essenziale, ma non è dell' autorità. Esso è rimesso alla libertà. Non spetta allo Stato di svolgerlo, ma alla società. Rientra cioè nella responsabilità di ciascuno di noi, quando entra in relazione con gli altri, là dove la democrazia è atteggiamento etico che può essere diffusivo di se stesso, nel rispetto dell' autonomia degli altri (...). La democrazia, poiché non può invocare rassicurazioni metafisiche, può basarsi solo su se stessa, cioè sui suoi cittadini. Si regge o cade per virtù o vizi loro. Ma proprio per questo, quanti amano la democrazia sapendo che prima e dopo di essa c' è solo qualche forma di autocrazia, c' è cioè la perdita della libertà, devono raddoppiare gli sforzi per difenderla ed espanderla nella coscienza di quanti più è possibile.
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1.3.10
La colpa di chi fa le leggi per se stesso
di GUSTAVO ZAGREBELSKY
"Un dio o un uomo, presso di voi, è ritenuto autore delle leggi?" chiede l'Ateniese ai suoi ospiti venuti da Creta e da Sparta. "Un dio, ospite, un Dio! - così come è perfettamente giusto". Queste parole aprono il grande trattato che Platone dedica alle Leggi, i Nòmoi. Il problema dei problemi - perché si dovrebbe obbedire alle leggi - è in tal modo risolto in partenza: per il timor degli Dei. Le leggi sono sacre.
Chi le viola è sacrilego. Tra la religione e la legge non c'è divisione. I giudici sono sacerdoti e i sacerdoti sono giudici, al medesimo titolo. Oggi non è più così. Per quanto si sia suggestionati dalla parola che viene dal profondo della sapienza antica, possiamo dire: non è più così, per nostra fortuna. Abbiamo conosciuto a sufficienza l'intolleranza e la violenza insite nella legge, quando il legislatore pretende di parlare in nome di Dio. Ma, da quella scissione, nasce la difficoltà. Se la legge ha perduto il suo fondamento mistico perché non viene (più) da un Dio, ma è fatta da uomini, perché dovremmo prestarle obbedienza? Perché uomini devono obbedire ad altri uomini? Domande semplici e risposte difficili.
Forse perché abbiamo paura di chi comanda con forza di legge? Paura delle pene, dei giudici, dei carabinieri, delle prigioni? Se così fosse, dovremmo concludere che gli esseri umani meritano solo di esseri guidati con la sferza e sono indegni della libertà. In parte, tuttavia, può essere così. In parte soltanto però, perché nessuno è mai abbastanza forte da essere in ogni circostanza padrone della volontà altrui, se non riesce a trasformare la propria volontà in diritto e l'ubbidienza in dovere. Ma dov'anche regnasse la pura forza, dove regna il terrore, dove il terrorismo è legge dello Stato, anche in questo caso ci dovrà pur essere qualcuno che, in ultima istanza, applica la legge senza essere costretto dalla minaccia della pena, perché è lui stesso l'amministratore delle pene. In breve, molti possono essere costretti a obbedire alla legge: molti, ma non tutti. Ci dovranno necessariamente essere dei costrittori che costringono senza essere costretti. Ci dovrà essere qualcuno, pochi o tanti a seconda del carattere più o meno chiuso della società, per il quale la legge vale per adesione e non per costrizione. In una società democratica, questo "qualcuno" dovrebbe essere il "maggior numero possibile".
Che cosa è, dove sta, da che cosa dipende quest'adesione? Qui, ciascuno di noi, in una società libera, è interpellato direttamente, uno per uno. Se non sappiamo dare una risposta, allora dobbiamo ammettere che seguiamo la legge solo per forza, come degli schiavi, solo perché la forza fa paura. Ma, appena esistono le condizioni per violare la legge impunemente o appena si sia riusciti a impadronirsi e a controllare le procedure legislative e si possa fare della legge quel che ci piace e così legalizzare quel che ci pare, come Semiramìs, che "a vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fé licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta" (Inferno, V), allora della legge e di coloro che ancora l'invocano ci si farà beffe.
Possiamo dire, allora, che la forza della legge, se non si basa - sia permesso il banale gioco di parole - sulla legge della forza, si basa sull'interesse? Quale interesse? La moralità della legge come tale, indipendentemente da ciò che prescrive, dovrebbe stare nell'uguaglianza di tutti, nel fatto che ciascuno di noi può rispecchiarvisi come uguale all'altro. "La legge è uguale per tutti" non è soltanto un ovvio imperativo, per così dire, di "giustizia distributiva del diritto". È anche la condizione prima della nostra dignità d'esseri umani. Io rispetto la legge comune perché anche tu la rispetterai e così saremo entrambi sul medesimo piano di fronte alla legge e ciascuno di noi di fronte all'altro. Ci potremo guardare reciprocamente con lealtà, diritto negli occhi, perché non ci sarà il forte e il debole, il furbo e l'ingenuo, il serpente e la colomba, ma ci saranno leali concittadini nella repubblica delle leggi.
Questa risposta alla domanda circa la forza della legge è destinata, per lo più, ad apparire una pia illusione che solo le "anime belle", quelle che credono a cose come la dignità, possono coltivare. È pieno di anime che belle non sono, che si credono al di sopra della legge - basta guardarsi intorno, anche solo molto vicino a noi - e che proprio dall'esistenza di leggi che valgono per tutti (tutti gli altri), traggono motivo e strumenti supplementari per le proprie fortune, economiche e politiche. Sono questi gli approfittatori della legge, free riders, particolarmente odiosi perché approfittano (della debolezza o della virtù civica) degli altri: per loro, "le leggi sono simili alle ragnatele; se vi cade dentro qualcosa di leggero e debole, lo trattengono; ma se è più pesante, le strappa e scappa via" (parole di Solone; in versione popolare: "La legge è come la ragnatela; trattiene la mosca, ma il moscone ci fa un bucone"). Anche per loro c'è interesse alla legalità, ma la legalità degli altri. Poiché gli altri pagano le tasse, io, che posso, le evado. Poiché gli altri rispettano le procedure per gli appalti, io che ho le giuste conoscenze, vinco la gara a dispetto di chi rispetta le regole; io, che ho agganci, approfitto del fatto che gli altri devono attendere il loro turno, per passare per primo alla visita medica che, forse, salva la mia vita, ma condanna quella d'un altro; io, che posso manovrare un concorso pubblico, faccio assumere mio figlio, al posto del figlio di nessuno che, poveretto, è però più bravo del mio; io, che ho il macchinone, per far gli affari miei sulla strada, approfitto dei divieti che chi ha la macchinina rispetta; io, che posso farmi le leggi su misura, preparo la mia impunità nei casi in cui, altrui, vale la responsabilità.
L'ultimo episodio della vita di Socrate, alle soglie dell'autoesecuzione (la cicuta) della sentenza dell'Areopago che l'aveva condannato a morte, è l'incontro con Le Leggi. Le Leggi gli parlano. Qual è il loro argomento? Sei nato e hai condotto la tua vita con noi, sotto la nostra protezione nella città. Noi ti abbiamo fatto nascere, ti abbiamo cresciuto, nutrito ed educato, noi ti abbiamo permesso d'avere moglie e figli che cresceranno come te con noi. Tutto questo con tua soddisfazione. Infatti, non te ne sei andato altrove, come ben avresti potuto. E ora, vorresti ucciderci, violandoci, quando non ti fa più comodo? Così romperesti il patto che ci ha unito e questo sarebbe l'inizio della rovina della città, le cui leggi sarebbero messe nel nulla proprio da coloro che ne sono stati beneficiati.
Le Leggi platoniche, parlando così, chiedono ubbidienza a Socrate in nome non della paura né dell'interesse, ma per un terzo motivo, la riconoscenza. Il loro discorso, però, ha un presupposto: noi siamo state leggi benigne con te. Ma se Le Leggi fossero state maligne? Se avessero permesso o promosso l'iniquità e non avessero impedito la sopraffazione, avrebbero potuto parlare così? Il caso non poteva porsi in quel tempo, quando le leggi - l'abbiamo visto all'inizio - erano opera degli Dei. Oggi, sono opera degli uomini. Dagli uomini esse dipendono e dagli uomini dipende quindi se possano o non possano chiedere ubbidienza in nome della riconoscenza.
Certo: abbiamo visto che l'esistenza delle leggi non esclude che vi sia chi le sfrutta e viola per il proprio interesse, a danno degli altri. Ma il compito della legge, per poter pretendere obbedienza, è di contrastare l'arroganza di chi le infrange impunemente e di chi, quando non gli riesce, se ne fa una per se stesso. Se la legge non contrasta quest'arroganza o, peggio, la favorisce, allora non può più pretendere né riconoscenza né ubbidienza. Il disprezzo delle leggi da parte dei potenti giustifica analogo disprezzo da parte di tutti gli altri. L'illegalità, anche se all'inizio circoscritta, è diffusiva di se stessa e distruttiva della vita della città. Tollerarla nell'interesse di qualcuno non significa metterla come in una parentesi sperando così che resti un'eccezione, ma significa farne l'inizio di un'infezione che si diffonde tra tutti.
Qui è la grande responsabilità, o meglio la grande colpa, che si assumono coloro che fanno leggi solo per se stessi o che, avendo violate quelle comuni, pretendono impunità. Contrastare costoro con ogni mezzo non è persecuzione o, come si dice oggi, "giustizialismo", ma è semplicemente legittima difesa di un ordine di vita tra tutti noi, di cui non ci si debba vergognare.
(Questo testo sarà letto stasera da Gustavo Zagrebelsky
al Teatro della Corte di Genova, nel corso
del primo incontro del ciclo "Fare gli italiani - Grandi Parole alla ricerca
dell'identità nazionale")
"Un dio o un uomo, presso di voi, è ritenuto autore delle leggi?" chiede l'Ateniese ai suoi ospiti venuti da Creta e da Sparta. "Un dio, ospite, un Dio! - così come è perfettamente giusto". Queste parole aprono il grande trattato che Platone dedica alle Leggi, i Nòmoi. Il problema dei problemi - perché si dovrebbe obbedire alle leggi - è in tal modo risolto in partenza: per il timor degli Dei. Le leggi sono sacre.
Chi le viola è sacrilego. Tra la religione e la legge non c'è divisione. I giudici sono sacerdoti e i sacerdoti sono giudici, al medesimo titolo. Oggi non è più così. Per quanto si sia suggestionati dalla parola che viene dal profondo della sapienza antica, possiamo dire: non è più così, per nostra fortuna. Abbiamo conosciuto a sufficienza l'intolleranza e la violenza insite nella legge, quando il legislatore pretende di parlare in nome di Dio. Ma, da quella scissione, nasce la difficoltà. Se la legge ha perduto il suo fondamento mistico perché non viene (più) da un Dio, ma è fatta da uomini, perché dovremmo prestarle obbedienza? Perché uomini devono obbedire ad altri uomini? Domande semplici e risposte difficili.
Forse perché abbiamo paura di chi comanda con forza di legge? Paura delle pene, dei giudici, dei carabinieri, delle prigioni? Se così fosse, dovremmo concludere che gli esseri umani meritano solo di esseri guidati con la sferza e sono indegni della libertà. In parte, tuttavia, può essere così. In parte soltanto però, perché nessuno è mai abbastanza forte da essere in ogni circostanza padrone della volontà altrui, se non riesce a trasformare la propria volontà in diritto e l'ubbidienza in dovere. Ma dov'anche regnasse la pura forza, dove regna il terrore, dove il terrorismo è legge dello Stato, anche in questo caso ci dovrà pur essere qualcuno che, in ultima istanza, applica la legge senza essere costretto dalla minaccia della pena, perché è lui stesso l'amministratore delle pene. In breve, molti possono essere costretti a obbedire alla legge: molti, ma non tutti. Ci dovranno necessariamente essere dei costrittori che costringono senza essere costretti. Ci dovrà essere qualcuno, pochi o tanti a seconda del carattere più o meno chiuso della società, per il quale la legge vale per adesione e non per costrizione. In una società democratica, questo "qualcuno" dovrebbe essere il "maggior numero possibile".
Che cosa è, dove sta, da che cosa dipende quest'adesione? Qui, ciascuno di noi, in una società libera, è interpellato direttamente, uno per uno. Se non sappiamo dare una risposta, allora dobbiamo ammettere che seguiamo la legge solo per forza, come degli schiavi, solo perché la forza fa paura. Ma, appena esistono le condizioni per violare la legge impunemente o appena si sia riusciti a impadronirsi e a controllare le procedure legislative e si possa fare della legge quel che ci piace e così legalizzare quel che ci pare, come Semiramìs, che "a vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fé licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta" (Inferno, V), allora della legge e di coloro che ancora l'invocano ci si farà beffe.
Possiamo dire, allora, che la forza della legge, se non si basa - sia permesso il banale gioco di parole - sulla legge della forza, si basa sull'interesse? Quale interesse? La moralità della legge come tale, indipendentemente da ciò che prescrive, dovrebbe stare nell'uguaglianza di tutti, nel fatto che ciascuno di noi può rispecchiarvisi come uguale all'altro. "La legge è uguale per tutti" non è soltanto un ovvio imperativo, per così dire, di "giustizia distributiva del diritto". È anche la condizione prima della nostra dignità d'esseri umani. Io rispetto la legge comune perché anche tu la rispetterai e così saremo entrambi sul medesimo piano di fronte alla legge e ciascuno di noi di fronte all'altro. Ci potremo guardare reciprocamente con lealtà, diritto negli occhi, perché non ci sarà il forte e il debole, il furbo e l'ingenuo, il serpente e la colomba, ma ci saranno leali concittadini nella repubblica delle leggi.
Questa risposta alla domanda circa la forza della legge è destinata, per lo più, ad apparire una pia illusione che solo le "anime belle", quelle che credono a cose come la dignità, possono coltivare. È pieno di anime che belle non sono, che si credono al di sopra della legge - basta guardarsi intorno, anche solo molto vicino a noi - e che proprio dall'esistenza di leggi che valgono per tutti (tutti gli altri), traggono motivo e strumenti supplementari per le proprie fortune, economiche e politiche. Sono questi gli approfittatori della legge, free riders, particolarmente odiosi perché approfittano (della debolezza o della virtù civica) degli altri: per loro, "le leggi sono simili alle ragnatele; se vi cade dentro qualcosa di leggero e debole, lo trattengono; ma se è più pesante, le strappa e scappa via" (parole di Solone; in versione popolare: "La legge è come la ragnatela; trattiene la mosca, ma il moscone ci fa un bucone"). Anche per loro c'è interesse alla legalità, ma la legalità degli altri. Poiché gli altri pagano le tasse, io, che posso, le evado. Poiché gli altri rispettano le procedure per gli appalti, io che ho le giuste conoscenze, vinco la gara a dispetto di chi rispetta le regole; io, che ho agganci, approfitto del fatto che gli altri devono attendere il loro turno, per passare per primo alla visita medica che, forse, salva la mia vita, ma condanna quella d'un altro; io, che posso manovrare un concorso pubblico, faccio assumere mio figlio, al posto del figlio di nessuno che, poveretto, è però più bravo del mio; io, che ho il macchinone, per far gli affari miei sulla strada, approfitto dei divieti che chi ha la macchinina rispetta; io, che posso farmi le leggi su misura, preparo la mia impunità nei casi in cui, altrui, vale la responsabilità.
L'ultimo episodio della vita di Socrate, alle soglie dell'autoesecuzione (la cicuta) della sentenza dell'Areopago che l'aveva condannato a morte, è l'incontro con Le Leggi. Le Leggi gli parlano. Qual è il loro argomento? Sei nato e hai condotto la tua vita con noi, sotto la nostra protezione nella città. Noi ti abbiamo fatto nascere, ti abbiamo cresciuto, nutrito ed educato, noi ti abbiamo permesso d'avere moglie e figli che cresceranno come te con noi. Tutto questo con tua soddisfazione. Infatti, non te ne sei andato altrove, come ben avresti potuto. E ora, vorresti ucciderci, violandoci, quando non ti fa più comodo? Così romperesti il patto che ci ha unito e questo sarebbe l'inizio della rovina della città, le cui leggi sarebbero messe nel nulla proprio da coloro che ne sono stati beneficiati.
Le Leggi platoniche, parlando così, chiedono ubbidienza a Socrate in nome non della paura né dell'interesse, ma per un terzo motivo, la riconoscenza. Il loro discorso, però, ha un presupposto: noi siamo state leggi benigne con te. Ma se Le Leggi fossero state maligne? Se avessero permesso o promosso l'iniquità e non avessero impedito la sopraffazione, avrebbero potuto parlare così? Il caso non poteva porsi in quel tempo, quando le leggi - l'abbiamo visto all'inizio - erano opera degli Dei. Oggi, sono opera degli uomini. Dagli uomini esse dipendono e dagli uomini dipende quindi se possano o non possano chiedere ubbidienza in nome della riconoscenza.
Certo: abbiamo visto che l'esistenza delle leggi non esclude che vi sia chi le sfrutta e viola per il proprio interesse, a danno degli altri. Ma il compito della legge, per poter pretendere obbedienza, è di contrastare l'arroganza di chi le infrange impunemente e di chi, quando non gli riesce, se ne fa una per se stesso. Se la legge non contrasta quest'arroganza o, peggio, la favorisce, allora non può più pretendere né riconoscenza né ubbidienza. Il disprezzo delle leggi da parte dei potenti giustifica analogo disprezzo da parte di tutti gli altri. L'illegalità, anche se all'inizio circoscritta, è diffusiva di se stessa e distruttiva della vita della città. Tollerarla nell'interesse di qualcuno non significa metterla come in una parentesi sperando così che resti un'eccezione, ma significa farne l'inizio di un'infezione che si diffonde tra tutti.
Qui è la grande responsabilità, o meglio la grande colpa, che si assumono coloro che fanno leggi solo per se stessi o che, avendo violate quelle comuni, pretendono impunità. Contrastare costoro con ogni mezzo non è persecuzione o, come si dice oggi, "giustizialismo", ma è semplicemente legittima difesa di un ordine di vita tra tutti noi, di cui non ci si debba vergognare.
(Questo testo sarà letto stasera da Gustavo Zagrebelsky
al Teatro della Corte di Genova, nel corso
del primo incontro del ciclo "Fare gli italiani - Grandi Parole alla ricerca
dell'identità nazionale")
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30.1.09
La tribù dei capi carismatici
Spinelli, Zagrebelsky e Zingales discutono sulla legalità: un dibattito organizzato da Micromega su la Repubblica, 30 gennaio 2009
Con le recenti inchieste che hanno coinvolto esponenti politici di rilievo del centro-sinistra è tornata prepotentemente di attualità nel nostro paese la cosiddetta "questione morale".
GUSTAVO ZAGREBELSKY - Prima di entrare nel vivo della discussione, desidero fare una premessa. In generale, nell’affrontare questi problemi, dobbiamo tenere conto della circostanza che la politica - da sempre, ab immemorabili - è un impasto potremmo dire di idealismi e di bassure, di idealismi e corruzione. Lo è forse intrinsecamente; quindi pensare che si possa avere una politica totalmente libera da corruzione rappresenta un caso di moralismo essenzialmente antipolitico. Da questa constatazione, però, non deriva che la corruzione debba essere accettata passivamente, anche perché, oltre un certo limite, essa è destinata a minare dall’interno il regime entro il quale si diffonde. Nel nostro caso, il regime democratico. Questa premessa mi pare necessaria. La corruzione politica non è uno scandalo "di sistema". Diventa invece uno scandalo "del sistema" se si diffonde fino al punto da diventare una sua regola costitutiva e da essere accettata come tale, senza che si manifestino reazioni o, peggio, che si manifestino reazioni non nei confronti della corruzione e di coloro che ne sono autori, ma nei confronti di coloro che la mettono a nudo, la denunciano, cercano di colpirla. Qui c’è una prima domanda alla quale dobbiamo tutti una risposta, quale che sia la nostra posizione nella società e nelle istituzioni: nel nostro paese, la corruzione la si combatte o la si copre?
Secondo punto. Si ritorna a parlare di "questione morale", ma siamo tutti d’accordo nell’intendere che cosa sia la "morale" nella questione morale? Non ne sono sicuro. Inutile dire che vi sono concezioni della morale quante sono le visioni del mondo e, per restare al nostro tema, quante sono le visioni della politica. La corruzione è una questione di contraddizione tra concezione della politica e azione politica. Se cambia la concezione della politica, azioni che in una concezione sono perfettamente "morali" possono non esserlo più, e viceversa. C’è una morale politica comune, ora, qui, nel nostro paese? Guardiamo i fatti: i medesimi comportamenti, presso gli uni, provocano riprovazione; presso gli altri, nessuna riprovazione, anzi talora consenso. Ad esempio: la confusione del privato nel pubblico e del pubblico nel privato per alcuni è una gravissima prova di disprezzo delle istituzioni; per altri, è una benefica forma di modernizzazione, sburocratizzazione, perfino avvicinamento delle istituzioni e della politica alla gente. Chi è "morale" e chi "immorale"? Dipende dai punti di vista. Se i punti di vista sono lontani, il discorso sulla necessità di una vita pubblica ripulita dalla corruzione - una questione che dovrebbe unire, nel nome di un interesse comune, superiore a quello delle parti - diventa semplicemente un’occasione, un pretesto per scambiarsi accuse. In conclusione: ciò che dovrebbe essere ripristinata è la visione comune, l’idea del vivere insieme. Come si può fare appello alla morale in un paese in cui l’evasione fiscale, uno dei comportamenti eticamente più condannabili secondo un’etica repubblicana, sia accettata addirittura come esercizio di un diritto o manifestazione di furbizia?
BARBARA SPINELLI - Partirei da quanto ha detto il professor Zagrebelsky a proposito della politica, che è sempre un impasto di idealismo e bassezze o di idealismo e forme di corruzione. È vero che il potere è qualche cosa che naturalmente corrompe. Come diceva lord Acton, "il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe assolutamente". È un dato di fatto. Nella storia del liberalismo - prima ancora che cominciasse l’esperienza della democrazia - si è guardata in faccia questa realtà e da qui hanno avuto origine tutte le teorie del potere che va limitato o controbilanciato. Montesquieu dice l’essenziale quando afferma: "Perché non ci sia abuso di potere occorre che il potere fermi il potere": che cioè ci siano istituzioni, organismi che facciano da contrappeso. Da qui è nata poi la separazione dei poteri, e da qui è nato anche il quarto potere, quello della stampa, che è un altro potere chiamato ad arginare il potere.
Più avanti avremo modo di parlare di che cosa sia la morale in politica: sono convinta anch’io che essa sia la questione centrale nell’Italia contemporanea. Eugenio Scalfari ha spiegato d’altronde come lo sia quasi da principio, nella sua storia. La cornice fondamentale che impone un comportamento corretto in politica è però costituita sempre dalla possibilità che il potere fermi il potere. Solo la separazione dei poteri può garantire che la corruzione venga fermata, proprio perché il potere tende intrinsecamente a farsi assoluto e dunque a corrompere assolutamente, andando verso la crescente occupazione dello spazio pubblico da parte di singoli soggetti come i partiti, gli interessi particolari, e chiunque non abbia come obiettivo il bene comune o lo Stato, ma la promozione del proprio vantaggio e del proprio bene parziale. Chiunque parli di questione morale - o di giustizia che funzioni - in questo momento storico, nell’Italia di oggi, deve ormai preoccuparsi quasi sempre di spiegare che non è un moralista, che non è un giustizialista; così come deve sistematicamente spiegare, se difende la laicità, che non è un laicista. In questo momento, chi domanda comportamenti eticamente corretti in politica si trova in una posizione difensiva.
LUIGI ZINGALES - Tutto quello che è stato detto finora mi sembra giustissimo. Però prima ancora di una questione morale, io parlerei di una questione legale in Italia, che non interessa solo la politica ma anche il mondo degli affari. In Italia il delitto paga, e paga molto. Tanzi è stato condannato, però non si sa se andrà mai in galera, anzi è probabile che non farà nemmeno un anno di galera nella sua vita. Fiorani è in Sardegna che si diverte, fa la bella vita. In Italia praticamente nessuno va in galera qualsiasi cosa faccia. O meglio, in galera ci vanno solo i poveracci, perché non hanno un buon avvocato e non sanno tirare a lungo le cose.
ZAGREBELSKY - Naturalmente questione morale e questione legale sono strettamente legate. La legge è pur sempre un riflesso di un modo di concepire la vita sociale, secondo un punto di vista che è denso di contenuto etico, che rinvia a un’idea di vita buona, anche se è la legge più permissiva, più liberale del mondo. La libertà comporta un’etica della libertà. Ma in Italia la corruzione politico-amministrativa - e con questa alludo alla corruzione dei meccanismi della pubblica amministrazione come l’alterazione delle gare pubbliche, la compravendita di provvedimenti della pubblica autorità, insomma a tutti quei reati che hanno come vittime non singole persone concrete, ma la società nel suo complesso - viene considerata molto poco grave. Quando il soggetto passivo è "il pubblico", la coscienza etica si affievolisce. Sembra che ci sia un’idea pervasiva, che ha corrotto le nostre coscienze, secondo la quale ciò che è di tutti - ciò che è pubblico - per questo è di nessuno, non merita di essere difeso, può essere oggetto di spoliazione privata. E così da noi chi viene preso con le "mani nel sacco" sa di aver fatto, in fondo, ciò che molti altri, se ne avessero la possibilità, farebbero. Molte denunce, molte iniziative giudiziarie sono in realtà poco più che un omaggio ipocrita alla virtù. Ma basta lasciar passare un poco di tempo e tutto ritornerà come prima, anzi, in certi casi, peggio di prima. Quanti casi sapremmo indicare di persone incappate in "incidenti" giudiziari che ne sono usciti, in un modo o in un altro, rafforzati negli ambienti in cui operavano e continuano poi a operare?
Nel nostro paese i crimini dei "colletti bianchi" - come si diceva una volta - sono sostanzialmente impunibili, perché tra condoni, indulti, norme che accorciano i termini di prescrizione eccetera, è praticamente impossibile arrivare a sentenze di condanna e poi all’esecuzione delle sentenze. E questa, secondo me, non è causa di corruzione, ma conseguenza di un certo modo di vedere le cose, quando di mezzo c’è "solo" l’interesse pubblico. Ritorno al mio chiodo fisso: quando parliamo di morale, forse fra noi tre c’è un certo accordo sul modo di concepirla, ma nel nostro paese?
Barbara Spinelli faceva riferimento alla grande idea di Montesquieu del potere che arresta il potere, radicata nella convinzione che il potere è, in sé, corruttivo. Il potere corrotto, per Montesquieu, è quello troppo forte, smodato. I regimi sani, per lui, sono i regimi moderati. Ma questa è una, una soltanto, concezione della buona politica, una concezione liberale. Oggi hanno preso piede idee e pratiche politiche che Max Weber avrebbe definito carismatiche. Il capo carismatico, quello al quale i suoi adepti affidano fideisticamente le proprie sorti e dal quale si attendono tutto il bene possibile, non sa che farsi dei limiti, dei contropoteri eccetera. Li considera degli impacci, delle forme di corruzione del potere ch’egli vuole forte perché grande è l’attesa che gli adepti ripongono nel loro salvatore. Ecco, ancora una volta, la relatività dei punti di vista. Perfino l’imbroglio, la corruzione, il furto, il delitto, si giustificano quando la causa è grande e i leader carismatici non si accontentano di una piccola politica: vogliono il potere di fare tutto perché i fini che sbandierano sono grandi, storici, epocali, perché i nemici contro cui combattere sono potenti, pericolosi, subdoli. Perfino il "bossismo", la caricatura del regime carismatico (bossismo non nel senso di Bossi, ma del potere del "boss"), ha bisogno di ideali per giustificarsi e per giustificare l’uso spregiudicato di ogni mezzo possibile.
Nel nostro paese le reazioni all’illegalità sono così diverse proprio perché diverse sono le concezioni delle relazioni politiche e sociali alle quali - consciamente o inconsciamente - ci si ispira. Se si vuole, con una semplificazione, per l’una "il fine non giustifica i mezzi", mentre per l’altra, altrettanto classica, "il fine giustifica i mezzi".
La Repubblica (eddyburg)
Con le recenti inchieste che hanno coinvolto esponenti politici di rilievo del centro-sinistra è tornata prepotentemente di attualità nel nostro paese la cosiddetta "questione morale".
GUSTAVO ZAGREBELSKY - Prima di entrare nel vivo della discussione, desidero fare una premessa. In generale, nell’affrontare questi problemi, dobbiamo tenere conto della circostanza che la politica - da sempre, ab immemorabili - è un impasto potremmo dire di idealismi e di bassure, di idealismi e corruzione. Lo è forse intrinsecamente; quindi pensare che si possa avere una politica totalmente libera da corruzione rappresenta un caso di moralismo essenzialmente antipolitico. Da questa constatazione, però, non deriva che la corruzione debba essere accettata passivamente, anche perché, oltre un certo limite, essa è destinata a minare dall’interno il regime entro il quale si diffonde. Nel nostro caso, il regime democratico. Questa premessa mi pare necessaria. La corruzione politica non è uno scandalo "di sistema". Diventa invece uno scandalo "del sistema" se si diffonde fino al punto da diventare una sua regola costitutiva e da essere accettata come tale, senza che si manifestino reazioni o, peggio, che si manifestino reazioni non nei confronti della corruzione e di coloro che ne sono autori, ma nei confronti di coloro che la mettono a nudo, la denunciano, cercano di colpirla. Qui c’è una prima domanda alla quale dobbiamo tutti una risposta, quale che sia la nostra posizione nella società e nelle istituzioni: nel nostro paese, la corruzione la si combatte o la si copre?
Secondo punto. Si ritorna a parlare di "questione morale", ma siamo tutti d’accordo nell’intendere che cosa sia la "morale" nella questione morale? Non ne sono sicuro. Inutile dire che vi sono concezioni della morale quante sono le visioni del mondo e, per restare al nostro tema, quante sono le visioni della politica. La corruzione è una questione di contraddizione tra concezione della politica e azione politica. Se cambia la concezione della politica, azioni che in una concezione sono perfettamente "morali" possono non esserlo più, e viceversa. C’è una morale politica comune, ora, qui, nel nostro paese? Guardiamo i fatti: i medesimi comportamenti, presso gli uni, provocano riprovazione; presso gli altri, nessuna riprovazione, anzi talora consenso. Ad esempio: la confusione del privato nel pubblico e del pubblico nel privato per alcuni è una gravissima prova di disprezzo delle istituzioni; per altri, è una benefica forma di modernizzazione, sburocratizzazione, perfino avvicinamento delle istituzioni e della politica alla gente. Chi è "morale" e chi "immorale"? Dipende dai punti di vista. Se i punti di vista sono lontani, il discorso sulla necessità di una vita pubblica ripulita dalla corruzione - una questione che dovrebbe unire, nel nome di un interesse comune, superiore a quello delle parti - diventa semplicemente un’occasione, un pretesto per scambiarsi accuse. In conclusione: ciò che dovrebbe essere ripristinata è la visione comune, l’idea del vivere insieme. Come si può fare appello alla morale in un paese in cui l’evasione fiscale, uno dei comportamenti eticamente più condannabili secondo un’etica repubblicana, sia accettata addirittura come esercizio di un diritto o manifestazione di furbizia?
BARBARA SPINELLI - Partirei da quanto ha detto il professor Zagrebelsky a proposito della politica, che è sempre un impasto di idealismo e bassezze o di idealismo e forme di corruzione. È vero che il potere è qualche cosa che naturalmente corrompe. Come diceva lord Acton, "il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe assolutamente". È un dato di fatto. Nella storia del liberalismo - prima ancora che cominciasse l’esperienza della democrazia - si è guardata in faccia questa realtà e da qui hanno avuto origine tutte le teorie del potere che va limitato o controbilanciato. Montesquieu dice l’essenziale quando afferma: "Perché non ci sia abuso di potere occorre che il potere fermi il potere": che cioè ci siano istituzioni, organismi che facciano da contrappeso. Da qui è nata poi la separazione dei poteri, e da qui è nato anche il quarto potere, quello della stampa, che è un altro potere chiamato ad arginare il potere.
Più avanti avremo modo di parlare di che cosa sia la morale in politica: sono convinta anch’io che essa sia la questione centrale nell’Italia contemporanea. Eugenio Scalfari ha spiegato d’altronde come lo sia quasi da principio, nella sua storia. La cornice fondamentale che impone un comportamento corretto in politica è però costituita sempre dalla possibilità che il potere fermi il potere. Solo la separazione dei poteri può garantire che la corruzione venga fermata, proprio perché il potere tende intrinsecamente a farsi assoluto e dunque a corrompere assolutamente, andando verso la crescente occupazione dello spazio pubblico da parte di singoli soggetti come i partiti, gli interessi particolari, e chiunque non abbia come obiettivo il bene comune o lo Stato, ma la promozione del proprio vantaggio e del proprio bene parziale. Chiunque parli di questione morale - o di giustizia che funzioni - in questo momento storico, nell’Italia di oggi, deve ormai preoccuparsi quasi sempre di spiegare che non è un moralista, che non è un giustizialista; così come deve sistematicamente spiegare, se difende la laicità, che non è un laicista. In questo momento, chi domanda comportamenti eticamente corretti in politica si trova in una posizione difensiva.
LUIGI ZINGALES - Tutto quello che è stato detto finora mi sembra giustissimo. Però prima ancora di una questione morale, io parlerei di una questione legale in Italia, che non interessa solo la politica ma anche il mondo degli affari. In Italia il delitto paga, e paga molto. Tanzi è stato condannato, però non si sa se andrà mai in galera, anzi è probabile che non farà nemmeno un anno di galera nella sua vita. Fiorani è in Sardegna che si diverte, fa la bella vita. In Italia praticamente nessuno va in galera qualsiasi cosa faccia. O meglio, in galera ci vanno solo i poveracci, perché non hanno un buon avvocato e non sanno tirare a lungo le cose.
ZAGREBELSKY - Naturalmente questione morale e questione legale sono strettamente legate. La legge è pur sempre un riflesso di un modo di concepire la vita sociale, secondo un punto di vista che è denso di contenuto etico, che rinvia a un’idea di vita buona, anche se è la legge più permissiva, più liberale del mondo. La libertà comporta un’etica della libertà. Ma in Italia la corruzione politico-amministrativa - e con questa alludo alla corruzione dei meccanismi della pubblica amministrazione come l’alterazione delle gare pubbliche, la compravendita di provvedimenti della pubblica autorità, insomma a tutti quei reati che hanno come vittime non singole persone concrete, ma la società nel suo complesso - viene considerata molto poco grave. Quando il soggetto passivo è "il pubblico", la coscienza etica si affievolisce. Sembra che ci sia un’idea pervasiva, che ha corrotto le nostre coscienze, secondo la quale ciò che è di tutti - ciò che è pubblico - per questo è di nessuno, non merita di essere difeso, può essere oggetto di spoliazione privata. E così da noi chi viene preso con le "mani nel sacco" sa di aver fatto, in fondo, ciò che molti altri, se ne avessero la possibilità, farebbero. Molte denunce, molte iniziative giudiziarie sono in realtà poco più che un omaggio ipocrita alla virtù. Ma basta lasciar passare un poco di tempo e tutto ritornerà come prima, anzi, in certi casi, peggio di prima. Quanti casi sapremmo indicare di persone incappate in "incidenti" giudiziari che ne sono usciti, in un modo o in un altro, rafforzati negli ambienti in cui operavano e continuano poi a operare?
Nel nostro paese i crimini dei "colletti bianchi" - come si diceva una volta - sono sostanzialmente impunibili, perché tra condoni, indulti, norme che accorciano i termini di prescrizione eccetera, è praticamente impossibile arrivare a sentenze di condanna e poi all’esecuzione delle sentenze. E questa, secondo me, non è causa di corruzione, ma conseguenza di un certo modo di vedere le cose, quando di mezzo c’è "solo" l’interesse pubblico. Ritorno al mio chiodo fisso: quando parliamo di morale, forse fra noi tre c’è un certo accordo sul modo di concepirla, ma nel nostro paese?
Barbara Spinelli faceva riferimento alla grande idea di Montesquieu del potere che arresta il potere, radicata nella convinzione che il potere è, in sé, corruttivo. Il potere corrotto, per Montesquieu, è quello troppo forte, smodato. I regimi sani, per lui, sono i regimi moderati. Ma questa è una, una soltanto, concezione della buona politica, una concezione liberale. Oggi hanno preso piede idee e pratiche politiche che Max Weber avrebbe definito carismatiche. Il capo carismatico, quello al quale i suoi adepti affidano fideisticamente le proprie sorti e dal quale si attendono tutto il bene possibile, non sa che farsi dei limiti, dei contropoteri eccetera. Li considera degli impacci, delle forme di corruzione del potere ch’egli vuole forte perché grande è l’attesa che gli adepti ripongono nel loro salvatore. Ecco, ancora una volta, la relatività dei punti di vista. Perfino l’imbroglio, la corruzione, il furto, il delitto, si giustificano quando la causa è grande e i leader carismatici non si accontentano di una piccola politica: vogliono il potere di fare tutto perché i fini che sbandierano sono grandi, storici, epocali, perché i nemici contro cui combattere sono potenti, pericolosi, subdoli. Perfino il "bossismo", la caricatura del regime carismatico (bossismo non nel senso di Bossi, ma del potere del "boss"), ha bisogno di ideali per giustificarsi e per giustificare l’uso spregiudicato di ogni mezzo possibile.
Nel nostro paese le reazioni all’illegalità sono così diverse proprio perché diverse sono le concezioni delle relazioni politiche e sociali alle quali - consciamente o inconsciamente - ci si ispira. Se si vuole, con una semplificazione, per l’una "il fine non giustifica i mezzi", mentre per l’altra, altrettanto classica, "il fine giustifica i mezzi".
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