L'attività di un sodalizio nel sistema pubblico televisivo per condizionare l'opinione pubblica e controllare tutta l'informazione. Al servizio di un solo uomo. Il presidente della Vigilanza Zavoli: fare chiarezza sulle telefonate inquietanti. Lei: nessun giudizio sommario
di GIUSEPPE D'AVANZO
I DOCUMENTI sonori che le inchieste di Repubblica/l'Espresso vanno pubblicando nella sezione dedicata del sito dimostrano qualche fatto ostinatissimo.
In Rai, nel sistema pubblico televisivo, è stata all'opera - e nessuno può escludere che ancora lo sia, se solo si guarda a quel che combina ogni sera il direttore del Tg1 - un sodalizio che, al servizio di un solo uomo, proprietario di Mediaset e capo del governo, ha manipolato l'informazione. Ha corrotto il linguaggio. Ha falsificato la realtà. Ha concordato l'agenda dell'attenzione pubblica con il network concorrente. Ha schedato, discriminato e danneggiato i discordi, ovunque fossero in quell'azienda: nelle redazioni, sul palcoscenico, tra i funzionari e dirigenti della Rai.
Il manipolo di infedeli (li si può definire così? O come altro li si può definire?) ha tradito i più elementari principi di correttezza aziendale e, quel che più conta, ha ingannato i telespettatori, i cittadini, l'opinione pubblica.
È questo inganno lo scandalo perché - con un'informazione che nasconde i fatti, li manipola e li confonde, li omette o addirittura li sopprime - la libertà d'opinione viene umiliata, la possibilità del cittadino di formarsi in autonomia una convinzione sullo "stato delle cose" diventa una burla.
A fronte di questo scandalo, è uno scandalo doppio l'indifferenza che vuole nascondere quel che è avvenuto e ancora avviene. Sono di palese evidenza le trascuratezze complici della politica, i silenzi colpevoli degli attori istituzionali. A cominciare dalla magistratura. Per dire meglio, dalla procura di Roma sempre all'altezza dell'antica definizione di "porto delle nebbie".
L'inchiesta che consente di raccogliere le conversazioni del drappello di uomini di Berlusconi al lavoro, nel suo interesse, nel corpaccione della Rai nasce a Milano. S'indaga per una bancarotta fraudolenta. Quando i pubblici ministeri ascoltano quelle conversazioni saltano sulla sedia. La notizia di reato è limpida. Ipotizzano l'abuso d'ufficio, per cominciare. Impacchettano ogni cosa - intercettazioni e brogliacci - e spediscono i documenti a Roma, competente per territorio.
Nella Capitale, l'affare è assegnato al dipartimento della pubblica amministrazione della Procura, diretto dall'"aggiunto" Achille Toro. La toga, oggi nei guai per aver violato il segreto istruttorio a vantaggio dei corrotti e corruttori del "sistema Protezione Civile", è sempre prudente quando in ballo ci sono interessi e destini politici. Lo sarà anche in questo caso. Prima di mettersi in movimento - e nonostante le intercettazioni confermino in modo nitido gli abusi - l'inchiesta s'affloscia in una frettolosa archiviazione. È soltanto la prima omissione, il primo nascondimento.
Oggi con sotto gli occhi le interferenze dirette e indirette di Berlusconi e dei suoi uomini sulla programmazione e l'informazione della Rai qualcosa Viale Mazzini doveva muovere. Anche soltanto per dimostrare di essere ancora in vita. È un paradosso fragoroso: se oggi il direttore generale Lorenza Lei e il consiglio d'amministrazione, presieduto da Paolo Garimberti, possono presentarsi davanti alla commissione parlamentare di vigilanza con in mano una mossa, una replica, una qualche reazione allo scandalo, lo devono non alla loro personale volontà di fare chiarezza, ma alla determinazione di un alto dirigente (Gianfranco Comanducci), oggi vicedirettore generale, di uscire pulito dall'"affaire".
È per sua iniziativa che la Rai ha messo in movimento la struttura aziendale dell'internal auditing che condurrà un'indagine interna. "Sia ben chiaro - dice però la Lei - che non mi presterò e non consentirò che l'azienda possa vedere pregiudicata la propria immagine sulla base di processi sommari, prima ancora che siano accertate eventuali responsabilità sulla base di fatti puntualmente dimostrati".
Non si capisce quale dimostrazione puntuale attenda ancora Lorenza Lei. I documenti sonori resi pubblici da Repubblica danno ragionevolmente prova di tre circostanze.
1. I dirigenti piovuti in Rai da Mediaset o addirittura dalla segreteria di Berlusconi (come Deborah Bergamini) concordano con i dirigenti Mediaset (come Mauro Crippa) il palinsesto in modo da non danneggiare gli ascolti del network privato del Cavaliere.
2. I dirigenti della Rai di provenienza Mediaset definiscono con il capo azienda (Flavio Cattaneo) e alcune direzioni giornalistiche la manipolazione dell'informazione come accade con l'occultamento della sconfitta di Berlusconi alle Regionali del 2005.
3. Quel sodalizio politico-professionale, che chiamiamo per semplificazione giornalistica "Struttura Delta", è organizzato e guidato direttamente da Silvio Berlusconi (è con "il Dottore" che definisce le linee strategiche del lavoro) e ha, tra l'altro, la missione di fare della Rai un'articolazione del partito di Forza Italia.
Ora non interessano i "processi sommari". Né importa il destino personale della squadriglia di infedeli, sempre che facciano un passo indietro e non coltivino l'ambizione di restare ai vertici dell'azienda pubblica. Quel che conta è comprendere e neutralizzare il sistema di comando che il tycoon di Mediaset e capo del governo ha imposto al servizio pubblico radiotelevisivo e chiedersi se le tossine di quegli anni avvelenano ancora la governance della Rai.
Per venirne a capo è necessario sapere che cos'è la "Struttura Delta". Prima che un sodalizio, la "Struttura Delta" è un dispositivo, un metodo di lavoro che consente di disegnare la trama stessa della realtà, di eliminare ogni differenza tra ciò che accade e ciò che la politica vuole raccontare. E' questo il lavoro della "Struttura Delta". Per dirla con uno slogan, la sua missione è rendere impossibile separare i fatti dalle costruzioni ideologiche o dalla pubblicità politica. Chi ricorda, per fare solo un esempio, il 2001 elettorale quando i telegiornali raccontavano le città italiane attraversate da bande assassine di malavitosi mentre Berlusconi, con il sostegno della Lega, incardinava la sua offerta politica nella sicurezza in pericolo?
Il lavoro della "Struttura Delta" non è altro che l'estensione all'informazione Rai e quindi al discorso pubblico dei vecchi comitati editoriali della Fininvest. E' noto. Una volta al mese, "i principali responsabili e attori della comunicazione del gruppo" si incontravano ad Arcore con il Cavaliere per "un franco e approfondito scambio di informazioni e di idee e tra gli opinion makers".
Vediamo quali sono i presenti in una riunione per molti versi storica (le notizie sono tratte da Passionaccia di Enrico Mentana). È il 20 marzo del 1993 e per la prima volta Berlusconi sostiene che "l'attuale situazione è favorevole come non mai per chi provenendo da successi imprenditoriali voglia dedicare i propri talenti al governo della cosa pubblica". È l'annuncio che il Cavaliere vuole farsi leader politico. Quel giorno lo ascoltano, nella rituale riunione mensile, il fratello Paolo, Letta, Confalonieri, Dell'Utri e Del Debbio (allora in Publitalia), i mondadoriani (Tatò, amministratore delegato; Mauri, direttore dei periodici; Monti, Panorama; Briglia e Donelli, Epoca; Bernasconi e Vanni dei femminili; Orlando, il Giornale; Vesigna, Sorrisi e Canzoni), i televisivi (il capo delle produzioni di Roma Vasile, Costanzo, Ferrara, Fede, Gori, Mentana). Con il tempo si aggiungeranno Paolo Liguori, direttore di Studio Aperto, Paolo Guzzanti che avrebbe condotto un talk show televisivo, Vittorio Sgarbi e Giuseppe Dotter, il direttore de La Notte.
Nel tempo sono cambiati i nomi e gli incarichi, non il metodo. Ora immaginiamo la squadra di Berlusconi, che già controlla buona parte dell'informazione e dell'intrattenimento, allargata al direttore generale della Rai, ai direttori di Rai 1 e Rai 2, ai direttori del Tg1 e del Tg2, come a dire quasi del tutto all'altra metà dell'informazione e dell'intrattenimento. Questa "squadra", questa "Struttura" consente a Berlusconi, presidente del Consiglio, di decidere buona parte dell'attenzione pubblica perché il 40 per cento non legge un giornale mentre tutti gli italiani (98.5 per cento) guardano la televisione e per il 70 per cento il telegiornale è la sola e unica finestra sul mondo.
Il Cavaliere si ritrova così tra le mani il controllo pieno dell'agenda dell'informazione. Decide quel che avrà la posizione principale nelle news televisive e sulle prime pagine dei giornali e, quel che più conta, stabilisce ciò che il Paese saprà di se stesso e che cosa gli sta accadendo. Ordina quel di cui discuterà o di che cosa non si discuterà.
È di questo dominio incondizionato sull'attenzione pubblica e sulla realtà che parlano i documenti sonori resi pubblici da Repubblica. Sollevano una questione politica decisiva perché, come scrisse Carlo Azeglio Ciampi nel messaggio alle Camere del 23 luglio 2002, "la garanzia del pluralismo e dell'imparzialità dell'informazione costituisce strumento essenziale per la realizzazione di una democrazia compiuta".
Quel che il dispositivo della "Struttura Delta" mette in gioco è quella garanzia e dunque la qualità della nostra democrazia, la sua compiutezza, il diritto di informazione garantito dall'articolo 21 della Costituzione. E' un diritto che può dirsi soddisfatto, si legge in una sentenza della Corte Costituzionale (155/2002), "dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie - così da porre il cittadino in condizione di compiere le proprie valutazioni avendo presente punti di vista e orientamenti culturali e politici differenti - e dall'obiettività e dall'imparzialità delle dati forniti, e infine dalla completezza e dalla correttezza dell'informazione".
È impossibile anche per un mago conciliare queste parole con l'inganno imposto ai cittadini dalla posizione dominante della "Struttura Delta". Lo scandalo è qui. Interpella la Rai, certo, ma anche la politica e chi ha a cuore le parole della Costituzione.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
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9.7.11
Rai, lo scandalo della Struttura Delta così Berlusconi ha ingannato gli italiani
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13.7.10
Quei commenti da Bar Sport
Aldo Grasso
Alla Rai sono da tempo abituati a suonarsela e a contarsela da soli; eppure, questa volta, sarà difficile negare il mezzo disastro della spedizione dei Mondiali in Sudafrica. Con tutta quella gente in allegra trasferta, alla faccia della crisi! Stiamo parlando di telecronache, commenti, notti «mondiali», non di ascolti: roba da filodrammatica, non degna di un Servizio pubblico.
Stiamo parlando dei commenti di Salvatore Bagni, uno che sa tutto di calcio ma che è completamente privo di autorevolezza: le sue osservazioni sono quelle tipiche che si sentono in un qualsiasi Bar Sport della riviera romagnola, le sue contraddizioni si manifestano più veloci di una ripartenza, e certe sue espressioni appaiono degne del rosso diretto (un conto è dire «forza d’inerzia», un conto è dire «finerzia », cioè inattività, passività, tutto il contrario di quello che sta succedendo in campo: «l’inerzia del gioco è ora passata a favore della Spagna »).
Non che i commenti di Fulvio Collovati o Beppe Dossena (l’unico ex torinista con l’aria antipatica) fossero migliori, anzi (domanda interessante: chi l’ha scelti e con quali criteri?). Speriamo solo che i criteri con cui è stata decisa la spedizione sudafricana non siano i soliti vigenti in Rai, cioè politici: però qualcuno dovrebbe dirci cosa ci facevano a Johannesburg Ubaldo Righetti, Carlo Longhi, Daniele Tombolini, Sandro Mazzola, Serse Cosmi e gli irreparabili Marino Bartoletti e Ivan Zazzaroni.
Le liti quotidiane fra Tombolini e Collovati restano fra le cose più stomachevoli che la Rai ha saputo regalarci. Stiamo parlando, ovviamente, anche del triste teatrino inscenato ogni sera a piazza di Siena tra Bisteccone Galeazzi e Maurizio Costanzo. Solo il rispetto per l’età ci impedisce di infierire e accodarci allo stuolo dei maramaldi. Però ci piace sottolineare che in Svizzera hanno trasmesso tutto le partite del Mondiale commentandole sobriamente da studio.
Alla Rai sono da tempo abituati a suonarsela e a contarsela da soli; eppure, questa volta, sarà difficile negare il mezzo disastro della spedizione dei Mondiali in Sudafrica. Con tutta quella gente in allegra trasferta, alla faccia della crisi! Stiamo parlando di telecronache, commenti, notti «mondiali», non di ascolti: roba da filodrammatica, non degna di un Servizio pubblico.
Stiamo parlando dei commenti di Salvatore Bagni, uno che sa tutto di calcio ma che è completamente privo di autorevolezza: le sue osservazioni sono quelle tipiche che si sentono in un qualsiasi Bar Sport della riviera romagnola, le sue contraddizioni si manifestano più veloci di una ripartenza, e certe sue espressioni appaiono degne del rosso diretto (un conto è dire «forza d’inerzia», un conto è dire «finerzia », cioè inattività, passività, tutto il contrario di quello che sta succedendo in campo: «l’inerzia del gioco è ora passata a favore della Spagna »).
Non che i commenti di Fulvio Collovati o Beppe Dossena (l’unico ex torinista con l’aria antipatica) fossero migliori, anzi (domanda interessante: chi l’ha scelti e con quali criteri?). Speriamo solo che i criteri con cui è stata decisa la spedizione sudafricana non siano i soliti vigenti in Rai, cioè politici: però qualcuno dovrebbe dirci cosa ci facevano a Johannesburg Ubaldo Righetti, Carlo Longhi, Daniele Tombolini, Sandro Mazzola, Serse Cosmi e gli irreparabili Marino Bartoletti e Ivan Zazzaroni.
Le liti quotidiane fra Tombolini e Collovati restano fra le cose più stomachevoli che la Rai ha saputo regalarci. Stiamo parlando, ovviamente, anche del triste teatrino inscenato ogni sera a piazza di Siena tra Bisteccone Galeazzi e Maurizio Costanzo. Solo il rispetto per l’età ci impedisce di infierire e accodarci allo stuolo dei maramaldi. Però ci piace sottolineare che in Svizzera hanno trasmesso tutto le partite del Mondiale commentandole sobriamente da studio.
24.4.09
Se lo stato non vuole incassare il dividendo digitale
di Tommaso Valletti
L'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha approvato i criteri per la completa digitalizzazione delle reti televisive nazionali. Ma in Italia non esiste una politica coerente sulle frequenze. E mentre all'estero i governi mettono all'asta senza limitazioni quelle liberate dalla tecnologia digitale, da noi la competizione riguarda solo tre canali e sarà riservata agli operatori televisivi. Di sicuro, la delibera danneggia lo sviluppo economico e inficia il pluralismo. Perché Rai e Mediaset consolidano ulteriormente le loro posizioni.
L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha approvato, l’8 aprile, i criteri per la completa digitalizzazione delle reti televisive nazionali. La delibera prevede ventuno reti nazionali e definisce le procedure per la messa a gara del dividendo digitale. Il presidente Corrado Calabrò ha aggiunto che “in linea con quanto avviene in tutta Europa, la procedura pubblica sarà del tipo beauty contest”. Il sottosegretario alle Comunicazioni, Paolo Romani, ha espresso la propria soddisfazione dopo l’emanazione della delibera che “rappresenta il primo passo formale di un percorso intrapreso in piena sintonia con la Commissione europea dopo mesi di intenso e costruttivo confronto. (…) Il percorso così delineato rappresenta un ulteriore stimolo all’azione lineare, coerente e costruttiva intrapresa da questo governo per lo sviluppo della comunicazione nel nostro paese, avviato con la progressiva digitalizzazione del comparto radiotelevisivo e con le misure favorevoli allo sviluppo della banda larga”. (1)
COS'È IL DIVIDENDO DIGITALE
Nulla di tutto ciò è vero. Non è vero che vi sia stato confronto. Non è vero che in tutta Europa si assegni il dividendo digitale con un beauty contest. Non è vero che queste misure favoriscano lo sviluppo della banda larga. Non è vero che nel nostro paese vi sia mai stata una linea coerente per lo sviluppo della comunicazione, in modo particolare, per quello che riguarda le frequenze elettromagnetiche.Ma andiamo con ordine. Innanzi tutto, di cosa stiamo parlando? Il passaggio dalla tv analogica alla tv digitale permette di utilizzare meno banda grazie alla maggiore efficienza delle tecniche digitali rispetto a quelle analogiche. Dunque, gli attuali canali, quando trasmessi con tecniche digitali, hanno bisogno di minori frequenze, liberando le vecchie, che possono essere assegnate ad altri usi e utilizzatori: è questo il cosiddetto “dividendo digitale”.
COSA ACCADE ALL'ESTERO
Le norme comunitarie, in verità molto generiche, impongono trasparenza e neutralità tecnologica nell’uso dello spettro. In concreto, ciò consiste in procedure a evidenza pubblica e non sottoposte a discriminazione nell’assegnazione.Il Regno Unito ha deciso di allocare due terzi delle frequenze legate al passaggio dall’analogico al digitale a servizi radiotelevisivi, ma le procedure di assegnazione non sono note. Il restante terzo, un blocco comunque assai sostanzioso di 112 MHz, sarà messo all’asta senza vincoli sulle tecnologie o sugli utilizzi. L'analisi del governo britannico ha infatti concluso che quelle frequenze sono molto preziose e potenzialmente appetibili anche agli operatori mobili, o ai operatori fissi per la banda larga, o ad altri ancora. In mancanza di informazioni precise sui singoli business plan dei vari operatori, il governo farà l’unica cosa che abbia un senso economico: un’asta, senza restrizioni, assicurando che i diritti di proprietà siano rispettati e non si abbiano interferenze.Anche la Francia sicuramente consentirà agli operatori mobili di concorrere per il dividendo digitale: uno studio commissionato dal governo stima a 25 miliardi di euro il beneficio di non limitare l’allocazione ai soli servizi televisivi. Il governo tedesco ha da poco annunciato che parte del dividendo digitale sarà utilizzato per offrire servizi wireless a banda larga. Per entrambi i paesi, tuttavia, non sono ancora note le modalità di assegnazione.Negli Stati Uniti, circa un anno fa, sono state vendute all’asta frequenze a 700 MHz, molto vicine a quelle di cui stiamo parlando ora in Italia. In quell’asta sono stati incassati 19 miliardi di dollari per licenze vinte soprattutto da Verizon e AT&T, ma anche da nuovi operatori. Si trattava comunque della settantatreesima asta tenuta dalla Fcc a partire dal 1994 e oggi siamo già arrivati a settantanove: ecco un esempio di politica seria e capillare sulle frequenze. (2)
IL CASO ITALIA
E l’Italia? Continuiamo con le solite critiche al nostro paese? Purtroppo sì, e a ragion veduta. In Italia non esiste una politica coerente sulle frequenze. Pur senza entrare nel merito del far west delle tv private e delle continue procedure di infrazione che la Comunità europea ci commina, non si è mai voluto comprendere il valore economico delle frequenze elettromagnetiche e il costo legato a una loro assegnazione inefficiente. Si sono effettuate due aste: una nel 2000 per l’Umts e una l’anno passato per il Wi-Max. Ma sono due casi che purtroppo non hanno fatto scuola. Il 40 per cento delle frequenze è in mano al ministero della Difesa che non paga nulla per il loro utilizzo. E potrebbe anche non utilizzarle affatto. Nel Regno Unito, per esempio, il ministero della Difesa paga per le frequenze, il che ha comportato risparmi e la restituzione di quelle inutilizzate. Eppure, seguendo alcuni passi elementari, lo Stato italiano potrebbe incassare 2 miliardi di euro all’anno, oltre a liberare risorse che favoriscono lo sviluppo economico. (3)La delibera sul dividendo digitale prevede che quattro canali siano dati a Rai, quattro a Mediaset, tre a Telecom Italia, due a ReteA e uno a Europa TV. Quanto ai restanti cinque canali, alcuni dettagli portano a pensare che a Rai e Mediaset sarà assegnato un ulteriore canale a testa. Restano quindi solo tre canali su cui sarà effettuato un beauty contest limitato a operatori televisivi. Nulla di preciso si sa a proposito delle frequenze per le 500 tv private, anche se è facile prevedere che si troveranno anche quelle prima o poi, sempre gratis o quasi.La delibera danneggia sicuramente lo Stato e dunque i cittadini: non porterà ad alcun incasso, salvo briciole. Danneggia lo sviluppo economico, perché non abbiamo alcuna idea di come sono stati selezionati gli operatori prescelti. Di sicuro, colpisce tutti gli operatori che non siano televisivi, perché gli operatori mobili, ad esempio, non potranno concorrere per ottenere frequenze di cui sono assetati. Di certo inficia il pluralismo, visto che Rai e Mediaset consolidano ulteriormente le loro posizioni.
(1) Vedi anche Beauty contest per l’assegnazione delle frequenze in linea con gli altri Paesi Ue.(2) http://wireless.fcc.gov/auctions/default.htm?job=auctions_home.(3) C. Cambini, A. Sassano e T. Valletti (2007), Le concessioni sullo spettro delle frequenze, in U. Mattei, E. Reviglio e S. Rodotà (a cura di), “Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica”, Il Mulino, Bologna.
lavoce.it
L'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha approvato i criteri per la completa digitalizzazione delle reti televisive nazionali. Ma in Italia non esiste una politica coerente sulle frequenze. E mentre all'estero i governi mettono all'asta senza limitazioni quelle liberate dalla tecnologia digitale, da noi la competizione riguarda solo tre canali e sarà riservata agli operatori televisivi. Di sicuro, la delibera danneggia lo sviluppo economico e inficia il pluralismo. Perché Rai e Mediaset consolidano ulteriormente le loro posizioni.
L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha approvato, l’8 aprile, i criteri per la completa digitalizzazione delle reti televisive nazionali. La delibera prevede ventuno reti nazionali e definisce le procedure per la messa a gara del dividendo digitale. Il presidente Corrado Calabrò ha aggiunto che “in linea con quanto avviene in tutta Europa, la procedura pubblica sarà del tipo beauty contest”. Il sottosegretario alle Comunicazioni, Paolo Romani, ha espresso la propria soddisfazione dopo l’emanazione della delibera che “rappresenta il primo passo formale di un percorso intrapreso in piena sintonia con la Commissione europea dopo mesi di intenso e costruttivo confronto. (…) Il percorso così delineato rappresenta un ulteriore stimolo all’azione lineare, coerente e costruttiva intrapresa da questo governo per lo sviluppo della comunicazione nel nostro paese, avviato con la progressiva digitalizzazione del comparto radiotelevisivo e con le misure favorevoli allo sviluppo della banda larga”. (1)
COS'È IL DIVIDENDO DIGITALE
Nulla di tutto ciò è vero. Non è vero che vi sia stato confronto. Non è vero che in tutta Europa si assegni il dividendo digitale con un beauty contest. Non è vero che queste misure favoriscano lo sviluppo della banda larga. Non è vero che nel nostro paese vi sia mai stata una linea coerente per lo sviluppo della comunicazione, in modo particolare, per quello che riguarda le frequenze elettromagnetiche.Ma andiamo con ordine. Innanzi tutto, di cosa stiamo parlando? Il passaggio dalla tv analogica alla tv digitale permette di utilizzare meno banda grazie alla maggiore efficienza delle tecniche digitali rispetto a quelle analogiche. Dunque, gli attuali canali, quando trasmessi con tecniche digitali, hanno bisogno di minori frequenze, liberando le vecchie, che possono essere assegnate ad altri usi e utilizzatori: è questo il cosiddetto “dividendo digitale”.
COSA ACCADE ALL'ESTERO
Le norme comunitarie, in verità molto generiche, impongono trasparenza e neutralità tecnologica nell’uso dello spettro. In concreto, ciò consiste in procedure a evidenza pubblica e non sottoposte a discriminazione nell’assegnazione.Il Regno Unito ha deciso di allocare due terzi delle frequenze legate al passaggio dall’analogico al digitale a servizi radiotelevisivi, ma le procedure di assegnazione non sono note. Il restante terzo, un blocco comunque assai sostanzioso di 112 MHz, sarà messo all’asta senza vincoli sulle tecnologie o sugli utilizzi. L'analisi del governo britannico ha infatti concluso che quelle frequenze sono molto preziose e potenzialmente appetibili anche agli operatori mobili, o ai operatori fissi per la banda larga, o ad altri ancora. In mancanza di informazioni precise sui singoli business plan dei vari operatori, il governo farà l’unica cosa che abbia un senso economico: un’asta, senza restrizioni, assicurando che i diritti di proprietà siano rispettati e non si abbiano interferenze.Anche la Francia sicuramente consentirà agli operatori mobili di concorrere per il dividendo digitale: uno studio commissionato dal governo stima a 25 miliardi di euro il beneficio di non limitare l’allocazione ai soli servizi televisivi. Il governo tedesco ha da poco annunciato che parte del dividendo digitale sarà utilizzato per offrire servizi wireless a banda larga. Per entrambi i paesi, tuttavia, non sono ancora note le modalità di assegnazione.Negli Stati Uniti, circa un anno fa, sono state vendute all’asta frequenze a 700 MHz, molto vicine a quelle di cui stiamo parlando ora in Italia. In quell’asta sono stati incassati 19 miliardi di dollari per licenze vinte soprattutto da Verizon e AT&T, ma anche da nuovi operatori. Si trattava comunque della settantatreesima asta tenuta dalla Fcc a partire dal 1994 e oggi siamo già arrivati a settantanove: ecco un esempio di politica seria e capillare sulle frequenze. (2)
IL CASO ITALIA
E l’Italia? Continuiamo con le solite critiche al nostro paese? Purtroppo sì, e a ragion veduta. In Italia non esiste una politica coerente sulle frequenze. Pur senza entrare nel merito del far west delle tv private e delle continue procedure di infrazione che la Comunità europea ci commina, non si è mai voluto comprendere il valore economico delle frequenze elettromagnetiche e il costo legato a una loro assegnazione inefficiente. Si sono effettuate due aste: una nel 2000 per l’Umts e una l’anno passato per il Wi-Max. Ma sono due casi che purtroppo non hanno fatto scuola. Il 40 per cento delle frequenze è in mano al ministero della Difesa che non paga nulla per il loro utilizzo. E potrebbe anche non utilizzarle affatto. Nel Regno Unito, per esempio, il ministero della Difesa paga per le frequenze, il che ha comportato risparmi e la restituzione di quelle inutilizzate. Eppure, seguendo alcuni passi elementari, lo Stato italiano potrebbe incassare 2 miliardi di euro all’anno, oltre a liberare risorse che favoriscono lo sviluppo economico. (3)La delibera sul dividendo digitale prevede che quattro canali siano dati a Rai, quattro a Mediaset, tre a Telecom Italia, due a ReteA e uno a Europa TV. Quanto ai restanti cinque canali, alcuni dettagli portano a pensare che a Rai e Mediaset sarà assegnato un ulteriore canale a testa. Restano quindi solo tre canali su cui sarà effettuato un beauty contest limitato a operatori televisivi. Nulla di preciso si sa a proposito delle frequenze per le 500 tv private, anche se è facile prevedere che si troveranno anche quelle prima o poi, sempre gratis o quasi.La delibera danneggia sicuramente lo Stato e dunque i cittadini: non porterà ad alcun incasso, salvo briciole. Danneggia lo sviluppo economico, perché non abbiamo alcuna idea di come sono stati selezionati gli operatori prescelti. Di sicuro, colpisce tutti gli operatori che non siano televisivi, perché gli operatori mobili, ad esempio, non potranno concorrere per ottenere frequenze di cui sono assetati. Di certo inficia il pluralismo, visto che Rai e Mediaset consolidano ulteriormente le loro posizioni.
(1) Vedi anche Beauty contest per l’assegnazione delle frequenze in linea con gli altri Paesi Ue.(2) http://wireless.fcc.gov/auctions/default.htm?job=auctions_home.(3) C. Cambini, A. Sassano e T. Valletti (2007), Le concessioni sullo spettro delle frequenze, in U. Mattei, E. Reviglio e S. Rodotà (a cura di), “Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica”, Il Mulino, Bologna.
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