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11.7.11

Spread, Rating e short selling Le parole chiave per capire la crisi

Di seguito un glossario dei termini più utilizzati per capire l’attacco della speculazione contro l’euro:

BTP-BUND – Sono titoli di Stato pluriennali italiani (Btp, buoni del tesoro poliennali) e tedeschi (Bund). Con le loro emissioni i due stati si finanziano sui mercati. Il loro rendimento, che viene fissato con un’asta, è un indice della salute finanziaria e della credibilità dei due paesi. Questa mattina sul mercato secondario il Btp decennale ha raggiunto il massimo spread (vedi voce) con i Bund tedeschi: questo significa non solo che per l’Italia diventa più caro ripagare il debito pubblico (vicino al 120% del Pil), ma anche che le previsioni dei mercati sulla salute finanziaria del paese sono negative.

SPREAD – E’ una misura del rischio di insolvenza associato a un titolo di stato e, di conseguenza, della salute finanziaria di un Paese. Tecnicamente è il differenziale, valutato dal mercato, tra il rendimento di quel titolo e il rendimento di un titolo corrispondente di uno Stato considerato privo di rischio, come la Germania. Questa mattina lo spread tra i Btp decennali e i Bund tedeschi a 10 anni ha superato i 280 punti. E’ un record dall’introduzione dell’euro e indica un aumento del costo per l’Italia di finanziarsi sui mercati. Nuovi picchi hanno raggiunto anche gli spread di Portogallo (1.048 punti) e Irlanda (1.019 punti), ma anche la Francia (62,3 punti) è al massimo livello da marzo 2009.

RATING – Le agenzie di rating sono società private indipendenti che valutano il rischio associato a un titolo o a chi lo emette, sia un ente privato o pubblico, come uno Stato. Il loro giudizio è sintetizzato nel rating, un punteggio (espresso in lettere e cifre) che rappresenta la capacità dell’emittente di far fronte ai propri impegni e ha un enorme impatto sulle decisioni degli investitori. Le principali agenzie di rating – Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch – sono oggetto di forti critiche per il loro ruolo nella crisi. L’Unione europea e l’Fsb sono al lavoro a una riforma per limitare la loro influenza sui mercati.

SOSPENSIONE TITOLI – Per evitare turbolenze eccessive sui mercati, al variare dei prezzi di un titolo oltre una certa soglia (che per le azioni è del 10%) le negoziazioni su quel titolo vengono automaticamente sospese. La sospensione può avvenire anche su decisione discrezionale della Consob. Alla sospensione segue un’asta di volatilità per fissare un nuovo prezzo. Per esempio, questa mattina le azioni della Cir sono state sospese per eccesso di ribasso. In seguito all’asta di volatilità sono state riammesse agli scambi.

VENDITE ALLO SCOPERTO – Le vendite allo scoperto (o ‘short selling’) sono operazioni che sfruttano la possibilità, prevista sui mercati finanziari, di vendere titoli senza averne l’effettivo possesso e di acquistarli solo in seguito per consegnarli alla controparte. Di solito sono legate ad attese – o a speculazioni – su un prezzo in calo e possono rappresentare un ‘pericolo’ e una fonte di ulteriore instabilità dei mercati, se effettuate da grandi investitori come gli hedge fund. Per questo ieri la Consob ha imposto un obbligo di comunicazione per le vendite allo scoperto di dimensioni importanti. L’obbligo scatta per le operazioni che raggiungono lo 0,2% del capitale della società e, successivamente, a ogni variazione pari o superiore allo 0,1% del capitale.

CDS – I Credit default swap (Cds) sono strumenti finanziari derivati che funzionano come un’assicurazione. Chi compra un Cds, infatti, si impegna a pagare al venditore un premio in cambio del rimborso, solo in caso di default, del valore dell’obbligazione oggetto dell’insolvenza (di solito un titolo di Stato). Vengono quotati in termini di spread (vedi voce) e il loro valore è una misura dell’affidabilità dei titoli sottostanti (come il rating, vedi voce). Nascono come derivati di copertura dal rischio ma si sviluppano come strumento speculativo per scommettere sul possibile fallimento di uno Stato o di un emittente privato. Il Parlamento europeo ha approvato la scorsa settimana una relazione in cui ha chiesto maggiori regole e più trasparenza per il mercato dei Cds.

DEFICIT/PIL - Il rapporto deficit/pil è una misura fondamentale del rigore nei conti pubblici di uno Stato. E’ data dal rapporto tra il saldo tra le entrate (principalmente il prelievo fiscale) e le uscite (la spesa pubblica e gli interessi pagati sul debito) di uno Stato e il suo prodotto interno lordo (Pil). All’origine della manovra triennale in discussione al Parlamento c’è l’impegno assunto in sede europea ad azzerare il rapporto deficit-Pil nel 2014. Per il 2011, invece, l’Unione Europea prevede per l’Italia un rapporto del -4,0% (inferiore alla media dell’Eurozona che è del -4,3%) che convive però con un debito pubblico pregresso pari al 120,3% del Pil e secondo solo a quello della Grecia. I criteri fissati a Maastricht per essere ammessi nell’area euro prevedevano un rapporto deficit/Pil inferiore al 3% e un debito pubblico inferiore al 60% del Pil.

PAREGGIO DI BILANCIO – Il pareggio di bilancio è l’obiettivo della manovra, da raggiungere nel 2014. Equivale a un rapporto defict/Pil (vedi voce) pari a zero e la sua credibilità è una variabile fondamentale nell’attacco speculativo di questi giorni, che sfrutta la debolezza del Governo e del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, intervenuto venerdì per tranquillizzare i mercati, non a caso ha definito “credibili il pareggio del bilancio nel 2014 e l’avvio di una tendenza al calo del rapporto debito/pil”. La riduzione del rapporto deficit/Pil è considerata l’unico modo per ridurre lo stock del debito pubblico.

30.4.10

Chi dà i voti (e li sbaglia)

di Massimo Gaggi

«La grande crisi della finanza globale? Il frutto dell’esplosione di un sistema finanziario- ombra cresciuto come un gigantesco party alcolico senza regole» pieno di ragazzi ubriachi «fatti entrare dalle agenzie di "rating" che all’ingresso distribuivano carte d'identità false». Così Paul McCulley di Pimco, il più grande fondo obbligazionario del mondo, descrive le genesi di una tempesta che, nel 2008, ha portato l’intero sistema creditizio mondiale sull’orlo dell’autodistruzione. I colpevoli sono molti, ma un ruolo particolare l’hanno avuto strane creature private con una funzione pubblica: le agenzie che con i loro voti decretano l’affidabilità di un titolo obbligazionario emesso da una società, ma anche dei titoli del debito pubblico di decine di Stati sovrani. Dovevano essere giudici competenti e imparziali e invece hanno promosso (a raffica) e bocciato (quasi mai) sulla base più della loro convenienza privata che di valutazioni oggettive. Due anni fa, concedendo il massimo dei voti alle obbligazioni-salsiccia di moda a Wall Street, hanno aperto la strada verso il disastro. Oggi, con bocciature intempestive del debito di alcuni Paesi europei, rischiamo di rendere ingestibile una crisi che da Atene si sta già propagando fino alla penisola iberica. Bocciature, peraltro, dettate più da una volontà di autoconservazione e dal timore di essere accusati di inerzia che dal cambiamento di dati che erano e sono sotto i loro occhi.

Un downgrading ha senso se l’agenzia, grazie alla sua professionalità, a una superiore capacità d’analisi, capisce in anticipo che la posizione di un Paese si sta deteriorando. Intervenire quando i numeri sono già noti in tutta la loro gravità e il mercato ha già reagito, chiedendo maggiori interessi sui titoli di Stato emessi da Paesi con conti pubblici in disordine, aumenta solo la confusione e rischia di vanificare i tentativi dei governi di correre ai ripari. Un giudizio competente e indipendente sull’affidabilità degli investimenti sicuramente serve, ma si può continuare a lasciare una funzione pubblica tanto delicata nelle mani di società private che le gestiscono in modo così irresponsabile? Non è certo il caso di nazionalizzare questa funzione, ma non conforta di certo vedere le banche centrali o agenzie federali come la Sec (l’istituto che vigila sulla Borsa Usa)—che sicuramente dispongono di professionalità interne e autorevolezza superiori a quelle delle agenzie di «rating»—affidarsi a loro per i giudizi sulla base dei quali vengono selezionati gli investimenti più rilevanti. Certo, lo fanno in base alle regole che i governi si sono dati e che sono rispecchiate anche dagli accordi di Basilea. Forse è ora di prendere atto che non è più possibile tenere in piedi un sistema di «rating » diffusosi a partire dagli anni 70, limitandosi a piccoli correttivi.

Da anni si discute dei conflitti d’interesse che affliggono Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch, i tre oligopolisti del «rating». All’inizio di questo decennio la legge americana Sarbanes-Oxley ha cercato di regolarli più strettamente dopo lo scandalo Enron i cui titoli venivano ancora giudicati un buon investimento quattro giorni prima della sua bancarotta. Correttivi inutili, vista la facilità con la quale l’aurea «tripla A» è stata concessa ancora nel 2006-2007 a una marea di emissioni di titoli basati su mutui «subprime», ad alto rischio. La Commissione del Congresso Usa che venerdì scorso ha «torchiato» in un’audizione i capi di queste agenzie, accusati di aver anteposto il profitto e il volume del giro d’affari delle loro società al rigore delle analisi, ha accertato che il 93 per cento dei titoli che avevano ricevuto il massimo voto di affidabilità, sono stati declassati a «spazzatura». La gravità della crisi del debito sovrano di un numero crescente di Stati richiede un monitoraggio serio e azioni di stabilizzazione, non l'agitazione di agenzie che sembrano muoversi, ormai, come variabili impazzite.