22.2.05

«Non c’è rancore. Usa ed Europa oggi possono spartirsi i compiti»

Cancelliere Schröder, come descriverebbe il rapporto personale con George W. Bush? «Ho sempre detto che mi piace discutere con il presidente Bush, è una persona con la quale si riesce a comunicare bene, indipendentemente dalle divergenze d’opinione che abbiamo avuto in passato. Non c'è alcun tipo di riserva personale tra noi».
Secondo i sondaggi molti tedeschi non si fidano di Bush. Si potrà invertire la tendenza?
«Non sono i sondaggi a orientare le relazioni tra Germania e Stati Uniti. Il nostro rapporto di collaborazione deve fondarsi sulla fiducia: è un imperativo imprescindibile per qualsiasi governo razionale. Il nostro è un governo razionale».
A che punto sono le relazioni transatlantiche?
«Sono convinto che oggi ciascuno conosca le reali aspettative e possibilità dell'altro. Non capita più che qualcuno si aspetti troppo o sottovaluti l'impegno della controparte. È, questa, un’ottima piattaforma sulla quale intavolare una discussione sulla spartizione internazionale dei compiti, oggi più realizzabile che mai. Prevedo che la visita di Bush avrà successo».
Nel dopoguerra in Germania raramente c’è stato un atteggiamento così negativo verso degli Usa. L’avversione all’America favorisce la popolarità politica?
«Questo ragionamento non funziona... Pensiamo ai sogni dei nostri ragazzi, dove studierebbero se potessero scegliere? La maggior parte in America. Mia figlia ascolta le canzoni in testa alle classifiche americane. Equiparare opposizione alla guerra in Iraq e antiamericanismo è totalmente sbagliato».
Il prossimo banco di prova delle relazioni Usa-Ue sarà l’Iran?
«Condividiamo gli stessi obiettivi con gli Stati Uniti. Soltanto gli strumenti con i quali realizzarli restano oggetto di discussione. Le potenze europee contano sui negoziati, credo che questo sia l’atteggiamento vincente. Perché i negoziati abbiano successo, occorre offrire qualcosa. Nel nostro caso, sono in gioco cooperazione economica e sicurezza».
Per molti americani, gli europei devono essere pronti ad assumere posizioni rigide con Teheran in caso di mancato rispetto dei patti e a trasmettere la questione iraniana al Consiglio di Sicurezza Onu.
«Il grilletto automatico è sempre pericoloso. Credo nel successo dei negoziati, ma non escludo ulteriori passaggi».
In quali circostanze riterrebbe giustificabile un'azione militare contro l'Iran?
«Sono contrario all'intervento militare, ma non amo fare speculazioni».
Perché Berlino è favorevole alla revoca dell'embargo sulle armi alla Cina, quando Taiwan è ancora sotto la minaccia militare cinese?
«Occorre comprendere perché l'Unione europea abbia posto l'embargo. Non per ragioni di politica estera o di sicurezza. Si trattò piuttosto di una reazione al massacro di piazza Tienanmen nel 1989. Dobbiamo domandarci se l'embargo sia ancora opportuno, viste le trasformazioni interne alla leadership di Pechino e i moderati progressi nel processo di liberalizzazione. Noi crediamo di no: l’embargo potrebbe essere revocato nella prima metà del 2005. Resta il fatto che non abbiamo la minima intenzione di procurare armi alla Cina».
I piani europei incontrano forti resistenze del Congresso Usa. La revoca inasprirà le relazioni transatlantiche?
«In America il dibattito è aperto. Non riesco a immaginare che i rapporti transatlantici ne possano risentire seriamente».
Ritiene si stia assistendo a una deriva antidemocratica in Russia?
«L'Occidente farebbe meglio a sforzarsi di comprendere la situazione nella quale si trova il presidente russo Vladimir Putin. Da cosa è partito? 75 anni di regime comunista, una fase di declino statale durata dieci anni. Ecco perché il suo primo obiettivo è restituire allo Stato un ruolo di garante della sicurezza per cittadini e investitori. Parimenti, si trova a dover gestire un conflitto (in Cecenia, ndr ) che non ha iniziato. Non bisogna sottovalutare la necessità di un’evoluzione democratica. Non posso fare a meno di pensare, tuttavia, che Vladimir Putin abbia raggiunto risultati apprezzabili, più di quanto l’Occidente non veda».
L’Occidente confonde questi tentativi di ricostruzione dello Stato con tendenze dispotiche?
«Nessuno allude a tendenze dispotiche».
Ha cambiato opinione sul conflitto iracheno?
«No e non lo farò, ma la guerra è ormai un pezzo di storia. Ciò che conta è quel che ne è venuto. Europa e America nutrono un comune interesse allo sviluppo democratico dell'Iraq. Interesse che condivido, anche se mi accusano d’incoerenza. Mi chiedo quali siano gli interessi del mio Paese. Sono convinto che dobbiamo contribuire alla stabilità di tutto il Medio Oriente».
Sarebbe contrario all'apertura di un ufficio dell'Ue a Bagdad?
«Se la Commissione Ue giudicherà di dover assicurare la propria presenza a Bagdad, non avremo nulla in contrario».

The Wall Street
Journal Europe
(traduzione
di Maria Serena Natale)
Marc Champion

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George e Jacques insieme «Fuori i siriani dal Libano»

«Invitare Chirac nel mio ranch? Cerco un bravo cowboy» «Questa cena dimostra l’importanza del nostro rapporto»

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BRUXELLES - Seduti uno accanto all’altro, davanti a un finto fondale di Bruxelles, i due presidenti fanno di tutto per sprigionare se non amicizia, almeno vera comprensione. Alla fine, dopo quasi due anni di recriminazioni reciproche, l’americano George Bush e il francese Jacques Chirac riescono addirittura a firmare una «nota congiunta». E’ un appello secco (Bush avrebbe preferito un’intimazione) alla Siria perché richiami le truppe dal Libano (oltre 14 mila soldati). L’inchiostro della Casa Bianca si riconosce nell’aggettivo «immediato» aggiunto alla parola «ritiro»; la penna dell’Eliseo, invece, è visibile in quel lungo riferimento alle Nazioni Unite, che avrebbe fatto venire l’orticaria al Bush I. «Sosteniamo l’inchiesta dell’Onu sull’attentato terroristico contro Rafik Hariri (ex premier libanese)», recita il comunicato, che, con tutta probabilità, oggi sarà sottoscritto dagli altri 24 capi di Stato e di governo europei. Ma Chirac si è preso la libertà di anticipare tutti, «rubando la scena» a Tony Blair e anche a Silvio Berlusconi, gli alleati del tempo di guerra iracheno, gli interlocutori privilegiati che solo oggi incontreranno, in privato, il presidente americano. Bush, rilassato e a suo agio nel salottino dell’ambasciata statunitense, a un certo punto se n’è uscito al naturale. Una giornalista chiede al presidente statunitense: «Visto che i vostri rapporti sono così buoni, inviterà Chirac nel suo ranch nel Texas?». Bush inclina leggermente la testa e accenna un sorriso: «In effetti sto cercando un buon cowboy». Sguardi interrogativi, mentre Chirac annuisce. E infatti, a fine serata, salta fuori che Washington e Parigi stanno preparando da tempo la visita di «Chirac-cow boy», negli Stati Uniti. Si stanno cercando spazi nelle agende, ma il viaggio dovrebbe avvenire entro la fine dell’anno. Bush, in fondo, ieri lo ha preparato con queste parole: «E’ la mia prima cena sul suolo europeo da quando sono stato rieletto e la faccio con Jacques Chirac: questo significa qualcosa no? Significa quanto sia importante questo rapporto per me, personalmente, e quanto lo sia per il mio Paese». Fuori si gela, ma da qualche ora quattromila manifestanti gridano da ore slogan cattivi («Bush assassino»), reggendo striscioni e cartelli che, nel 2003 e nel 2004, avrebbe potuto confezionare lo stesso Chirac («Stop Bush», «Americani via dall’Iraq»). Ora, però, il capo di Stato francese non ha altre scelte: se vuole davvero tornare al centro del gioco politico europeo, non può che riprendere il dialogo con gli Stati Uniti. Sarebbe stato tutto più facile se gli elettori americani gli avessero spedito John Kerry, ci ha sperato fino all’ultimo. Ma c’è ancora Bush e con Bush bisogna rimettersi a fare i conti.
Il lavorio diplomatico bilaterale, perfezionato con la visita del segretario di Stato Condoleezza Rice, sembra aver dato i frutti attesi. I due leader scartano accuratamente i dossier controversi e valorizzano i punti di intesa (fino all’anno scorso avrebbero fatto esattamente il contrario). Al centro dell’universo di Bush ci sono le esigenze del dopoguerra iracheno: ci vorrebbe più impegno dell’Europa, soldati, armi, attrezzature. Ma Chirac dice di essere disponibile, come sforzo massimo, a spendere 15 milioni di euro per addestrare 1.500 gendarmi, non a Bagdad, sia chiaro, ma nel confortevole Quatar. Inoltre Parigi consentirà oggi al segretario generale della Nato, Jaap de Hoop Sheffer di presentare come un grande successo il modesto aumento degli esperti (da 110 a 200-300) inviati per addestrare gli ufficiali dell’esercito iracheno. Anche Bush, per ora, si deve accontentare. Come dovrà fare pure per i programmi nucleari dell’Iran. Nel corso delle due orette passate a tavola, Chirac ha spiegato che i «negoziatori», cioè i ministri degli Esteri di Francia, Gran Bretagna e Germania, non hanno fretta, anche se gli americani vorrebbero tagliare corto. L’altra area di contrasto è l’embargo alla Cina. I due capi di Stato ne hanno accennato brevemente, poi hanno preferito prendere nota delle posizioni ancora distanti e «lasciare maturare» il confronto. Le visioni comuni, invece, «la musica» come l’ha definita Javier Solana, possono risultare efficaci altrove. Con la Russia, per esempio, nel Medio Oriente e, appunto sul nuovo fronte Siria-Libano. Le ricadute politiche del nuovo corso potrebbero dare una mano anche alla cooperazione economica, dove non mancano le grane, come l’ambiente, «lo sviluppo sostenibile». Bush e Chirac hanno solo elencato i titoli, rimandandoli al vertice G8 di luglio in Scozia. Si è fatto tardi: per Bush e Chirac è già andata bene così.

Giuseppe Sarcina
http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=ESTERI&doc=CHIRAC