Tassisti con ambizioni letterarie, sergenti addetti all'addestramento di reclute, malati di tubercolosi, coppie sull'orlo di un matrimonio sbagliato, bambini difficili: i personaggi dell'autore di «Revolutionary Road» si rendono visibili attraverso lo schermo del loro isolamento. E l'autore americano, tradotto da minimum fax, li racconta innestando la lezione di Fitzgerald su quella di Flaubert
Emanuele Trevi
Forse è un po' esagerata l'affermazione di Kurt Vonnegut, che definisce Undici solitudini di Richard Yates (prefazione di Paolo Cognetti, trad. di Maria Lucioni, minimum fax, pp.261, euro 10,00) addirittura «la migliore raccolta di racconti mai pubblicata da un autore americano». Quello che è certo, in ogni modo, è che si tratta di un'ulteriore dimostrazione della grandezza di questo scrittore nato nel 1926 e morto, dopo una vita non facile segnata da alcolismo e depressione, nel 1992. Spetta alla minimum fax il merito di aver riscoperto l'opera di Yates, non del tutto inedita ma rimasta sostanzialmente inosservata qui in Italia, iniziando a ripubblicarla a partire dal capolavoro del 1961, Revolutionary Road, che è anche il suo libro d'esordio, e proponendo in seguito Disturbo della quiete pubblica, uscito nel 1975. Ma anche negli Stati Uniti sembra in corso una rivalutazione postuma, che fa perno, più che sulla critica in senso stretto, sull'ammirazione professata da molti scrittori, come Richard Ford, Michael Chabon, Tobias Wolff. L'essere spesso considerato uno «scrittore per scrittori» a corto di un grande pubblico dovette essere un altro dei crucci che afflissero la vita di Yates, assieme a quello, ben più grave e paralizzante, della coincidenza tra il primo libro e il suo capolavoro, pubblicato a trentacinque anni e di fatto rimasto ineguagliato.
Undici solitudini uscì a Boston da Little & Brown nel 1962, un anno dopo Revolutionary Road, a confermare la presenza di un nuovo e straordinario talento sulla scena letteraria americana. Yates iniziò a collaborare con dei racconti a riviste letterarie negli anni cinquanta, e dunque questo libro contiene le prime prove della sua arte narrativa. Per rubare l'espressione a Thomas Pynchon (anche lui la usa a proposito dei racconti giovanili), si tratta di un vero e proprio slow learning, il lento apprendistato di uno scrittore alla ricerca del suo timbro, e impegnato a saggiare nel concreto le strategie di rappresentazione che gli dettano l'istinto e la cultura. Quanto a quest'ultimo punto, Yates stesso in più d'una occasione ha dichiarato di aver innestato la lezione di Fitzgerald su quella, fondamentale, di Flaubert. Pienamente flaubertiane, infatti, sono le premesse del suo libro d'esordio: Revolutionary Road è la Madame Bovary di una middle class nevrotica e alcolizzata, che vive nei placidi e lindi sobborghi familiari dove è facile far crescere i bambini e i vicini sono tutti amici e tutti simili, almeno in apparenza. I maschi, la mattina, abbandonano i sobborghi per andare a lavorare a Manhattan. Così come la signora Bovary è identica a migliaia di altre mogli di medici di provincia, anche i coniugi Wheeler sono gente perfettamente normale. Non fosse, tanto per l'eroina di Flaubert quanto per i suoi tragici epigoni inventati da Yates, che per un particolare: il veleno fatale dell'immaginazione, tanto più fatale quanto più debole è l'organismo mentale che deve sostenerlo e assimilarlo. Di questo pessimismo antropologico offrono già alcune splendide miniature certi racconti di Undici solitudini, forse con più efficacia dove Yates è già padrone della sua formidabile terza persona che quando usa la prima. Ma in tutti i racconti di questo libro c'è almeno qualche pagina già magistrale.
La loneliness che fin dal titolo dà unità alla raccolta più che fornirne l'argomento (che in effetti risulterebbe molto generico e pretestuosamente valido per tutto) è considerata e trattata da Yates come una tecnica narrativa, una possibilità della rappresentazione verbale. La solitudine, in altre parole, non è un sentimento, e tantomeno un valore incarnato da un personaggio o da una situazione. Non si carica di nessun significato particolare perché tutti i significati le convengono alla stessa maniera e con gli stessi diritti. Sergenti addetti all'addestramento di reclute, malati di tubercolosi in sanatorio, giovani coppie sull'orlo di un matrimonio sbagliato, bambini difficili, tassisti con ambizioni letterarie - le creature solitarie di Yates ci si rendono visibili e credibili solo attraverso lo schermo del loro isolamento. Paradossalmente, ciò che li condanna all'infelicità è anche ciò che (sul piano della scrittura) li rende vivi e possibili sul piano estetico. Molti lettori di Yates sono rimasti impressionati dalla sua impassibilità di narratore, da una sostanziale indifferenza al dolore senza riscatto delle sue creature.
Effettivamente, si può sospettare con buone ragioni una certa dose di sadismo in questo tipo di atteggiamento dello scrittore di fronte ai suoi propri fantasmi. In generale, potremmo considerare il sadismo una specie di padre nobile - e di eterno presupposto implicito - di ogni tipo di naturalismo. Nei racconti di Yates il ritmo necessario e implacabile che connette le cause agli effetti finisce sempre per ricordare, più che una semplice spiegazione logica del mondo, una kafkiana macchina per la tortura. E forse, viene da pensare leggendo questi bellissimi racconti, i più grandi scrittori sono quelli che suscitano in noi, di fronte al pathos delle situazioni, sentimenti di ambivalenza. Vorremmo sostituirci allo scrittore, e penetrando nello spazio della pagina, scrollarli per le spalle, i suoi poveri eroi, avvertirli della brutta figura o della catastrofe imminenti. E nello stesso tempo, godiamo della loro rovina, la magia della prosa di Yates è lì per farcela apprezzare come giusta e necessaria. Yates è sadico, tecnicamente sadico anche in questo: allo spessore vischioso dell'identificazione preferisce la distanza della scena, la sua lieve irrealtà, la sua isteria sempre imminente. Quanto al regista, egli lascia che le cose vadano come devono andare, e sorveglia imperterrito l'agghiacciante precisione dei particolari.
ilmanifesto.it
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