Nella critica dialogica, che non parla delle opere, ma alle opere, il filo conduttore fra la prima stagione di storico della letteratura e il successivo approdo alla storia del pensiero e delle culture. Un incontro con lo studioso bulgaro che ieri a Torino ha ricevuto il premio Grinzane Cavour
Francesca Borrelli
Quando Tzvetan Todorov cominciò a interessarsi di letteratura viveva ancora in Bulgaria e a scuola lo avevano educato a una critica che, prima ancora di analizzare un testo, sapeva già qual era il senso che bisognava rintracciarvi, e ne misurava il valore sulla base dell'aderenza alla squallida armonia prestabilità dagli imperativi ideologici. La teoria della letteratura, che allora, era parte irrinunciabile del programma di uno studente di filologia, si riduceva a inseguire nelle opere due indizi di qualità: «lo spirito del popolo» e «lo spirito del partito», prerogativa - quest'ultima - che si mostrava in tutto il suo fulgore solo tra le pagine di quegli autori che, perciò, godevano dei più sentiti apprezzamenti.
La provvidenziale reazione di Todorov, prima ancora di approdare in Francia, dove arrivò nel 1963, in piena ebbrezza strutturalista, fu quella di trovare un rifugio mentale nelle teorie dei Formalisti russi, che in appena quindici anni di attività rivoluzionarono il panorama della critica affermando il valore autonomo della parola: né semplice sostituto dell'oggetto nominato, né serbatoio di emozioni, né rimando a altra realtà che non sia quella del proprio peso e del proprio valore. Fu allora che, per la prima volta, Todorov cominciò a riflettere sul fatto che né la pretesa di possedere la verità, alla quale lo avevano educato in gioventù, né la rinuncia a cercarla alla quale era approdato con la critica immanente dei Formalisti soddisfacevano le sue esigenze di interrogare i testi; e con la scoperta di Michail Bachtin, al quale dedicò nell'81 una monografia, abbracciò quella «critica dialogica» che implica nella scrittura un atto di comunicazione, estendendo questo metodo alla storia delle idee e delle culture, cui consacrò la sua seconda stagione. Oggetto privilegiato della indagine divenne quella che, in suo libro, sintetizzò come La vita comune (Pratiche, 1998), ossia la socialità come definizione stessa della condizione umana, dalla quale passò a una ricapitolazione delle ideologie dominanti (in Noi e gli altri, Einaudi, 1991) e, ancora, a una articolata radiografia del secolo tragico, interrogandosi sulle possibili rifondazioni dell'etica dopo l'esperienza dei gulag e dei campi nazisti (in Di fronte all'estremo, Garzanti, 1992) e sulle implicazioni storiche e ideologiche dello scontro tra totalitarismo e democrazia nel XX secolo (in Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, 2001). Del tutto coerente con la ricerca dei fondamenti intellettuali e morali che stanno alla base della nostra vita comune, l'ultimo libro di Todorov (uscito da poco per Garzanti) si rivolge allo Spirito dell'illuminismo e alle proiezioni sulla contemporaneità dei dibattiti che lo hanno animato. Su alcuni passaggi di questa lunga parabola torneremo, approfittando della presenza di Tzvetan Todorov a Torino, dove ieri ha ricevuto il premio Grinzane Cavour.
Lei ha individuato in due incontri, uno con Arthur Koestler, l'altro con Isaiah Berlin due momenti epifanici di una svolta nella sua vita. L'autore di «Buio a mezzogiorno» la risvegliò dal fatalismo politico cui l'aveva consegnata la sua infanzia nella Bulgaria stalinista; mentre Berlin l'ha aiutata a abbandonare una idea di letteratura come puro insieme di strutture. Sono rimasti questi gli autori cui deve di più anche il suo lavoro degli ultimi anni?
Per quel che riguarda la mia giovinezza, aggiungerei tra gli incontri che più hanno influenzato il corso delle mie idee quello con Roman Jakobson. Lo vidi una prima volta in Bulgaria quando ancora ci abitavo, e da allora nessuno ha destato in me una impressione altrettanto forte. Quel che più mi attraeva era il fatto che, nella sua persona, il rigore scientifico si combinava strettissimamente con la passione per la poesia e per l'arte, due elementi quasi sempre dissociati l'uno dall'altro. Conobbi Arthur Koestler e Isaiah Berlin molti anni più tardi, quando avevo già letto i loro libri; con entrambi l'incontro fu breve e tuttavia furono capaci di scombussolarmi le idee, di cambiare le mie convinzioni, di determinare il mio incontro con la politica, che non ha mai preso la forma della militanza in un partito bensì quella della partecipazione al dibattito pubblico. Da un certo punto in avanti, però, a guidare il mio lavoro è stato soprattutto l'esempio di Germaine Tillion, la ricerca di una approssimazione alla verità e alla giustizia incarnata in questa figura esemplare di quanto è stato fatto di meglio nel corso del XX secolo, almeno in Francia. Contrariamente a ciò che si legge sulla copertina del suo libro pubblicato in Italia dalle edizioni Medusa, Alla ricerca del vero e del giusto, Germaine Tillion non è morta; ha compiuto cent'anni nel maggio scorso, trainando in questo secolo una lezione di vita alla quale mi sento particolarmente grato. La sua era una forma di impegno che non poteva restare estranea all'azione. Scese in campo la prima volta all'indomani della occupazione nazista della Francia, militando in una rete della Resistenza, e per questo venne messa in prigione; fu poi internata in un campo nazista, dal quale uscì nel '45. Dopo una lunga assenza dalla scena pubblica vi ricomparve nel '54, all'inizio della guerra di Algeria, dove già l'avevano portata i suoi studi di etnologa. Fino al '62 si spese in ogni modo per aiutare le vittime di entrambe le parti, per sottrarle alla tortura, per salvarle dalle esecuzioni, per metterle in guardia dai continui attentati. Se è vero che fu Koestler a risvegliare il mio interesse per la politica, devo a Germaine Tillion il fatto di avermi aiutato a indirizzare meglio, con il suo esempio, la mia sensibilità per la vita pubblica.
Se si cercasse un filo che leghi la sua prima stagione di teorico della letteratura, sotto il segno del formalismo, al suo approdo alla storia del pensiero e delle culture, lo si potrebbe probabilmente cogliere nella sua predilezione per la «critica dialogica»: quella fatta propria da Michail Bachtin, quella che «non parla delle opere ma alle opere». È d'accordo?
Direi di sì, è anche la mia ipotesi; fermo restando il fatto che proprio dal pensiero di Bachtin ho imparato come gli autori non siano i migliori interpreti delle loro opere e come ogni cultura, ogni idea si riveli al meglio nel confronto con altre culture e altre idee. Quanto al mio ruolo, invece, quello in cui più mi riconosco l'ho sintetizzato in una sorta di autobiografia che ho intitolato Devoirs et délices, da una frase di Rousseau secondo cui si può avere accesso alle cose sia tramite il dovere che tramite il piacere. Il mio ruolo - dicevo - è quello del passeur, di colui che traghetta le persone da una riva all'altra: ossia di chi cerca di mettere in relazione, dunque di fare dialogare - come voleva Bachtin - le lingue, le idee, le discipline, le diverse culture. E, in effetti, quando guardo al mio percorso sono colpito da un elemento anacronistico: mi sembra di essere un uomo di un'epoca anteriore, proprio perché mi sono interessato di pressoché tutte le scienze umane. Naturalmente, questo orientamento enciclopedico sconta il prezzo che consiste nel non approfondire mai nulla; ma ha anche il vantaggio di allargare la mente, di farti vedere cosa succede al di là dei tuoi confini. Dal punto di vista politico, quel che più mi interessa, al momento, è la costruzione dell'Europa, la questione delle identità nazionali; ma della mia prima stagione non ho rinnegato nulla. Quando arrivai in Francia, e per il periodo immediatamente successivo, pensavo che si sarebbe dovuto trovare un mezzo per leggere i testi in modo più sistematico, più rigoroso, e questo metodo me lo forniva lo strutturalismo. Poi arrivò un giorno in cui lo scopo del mio lavoro non si limitò più all'apprendimento dei mezzi con cui leggere un'opera letteraria, e cominciai così a servirmi del sapere metodico che avevo acquisito per provare a indagare il mondo intorno a me. Ciò che prima era un fine l'ho fatto diventare un mezzo, ho fatto di quel che era un approdo uno strumento. Ma la letteratura è tutt'altro che scomparsa dal mio orizzonte, tanto è vero che i miei ultimi due libri, entrambi non ancora tradotti in italiano, si intitolano Les aventuriers de l'absolu e La littérature en péril: il primo l'ho scritto per cercare di capire e di valutare il progetto di tre grandi scrittori - Rainer Maria Rilke, Oscar Wilde e Marina Cvetaeva - che hanno organizzato la loro vita come un'opera d'arte; il secondo saggio riguarda, invece, i pericoli che corre una certa concezione della letteratura, a mio avviso estrememente angusta: quella derivata da una perversa interpretazione dell'eredità strutturalista, che concentrandosi solo sulla costruzione dei testi, dimentica come la letteratura riguardi le verità essenziali della vita e di noi stessi.
Nella sua lunga analisi dei principali avvenimenti del XX secolo, che ha svolto soprattutto nel suo saggio «Memoria del bene tentazione del male», lei assegna una importanza centrale alla comparsa di quel regime politico fino a allora inedito che è il totalitarismo: di questo bisogna scongiurare il ritorno. Non altrettanto esplicita, nel suo libro, è la risposta alla domanda che lei si fa nella prima pagina: «che cosa bisogna conservare di questo secolo?».
Bisognerebbe salvaguardare, intanto, l'esempio di alcuni destini individuali, che pur essendo stati drammaticamente segnati dalle tragedie dei totalitarismi, non hanno convertito lo spavento in paralisi e, perciò, hanno saputo nutrire le nostre vite. Penso a Primo Levi, a Vasilij Grossman, alla stessa Germaine Tillion di cui prima le parlavo, a Margarete Buber-Neumann, a David Rousset e a altri ancora il cui esempio dovrebbe accompagnare i secoli a venire. Naturalmente, del '900 vale la pena di conservare alcune scoperte scientifiche e tecnologiche, ma forse soprattutto il cambiamento di status delle donne, perché ha determinato il passaggio alla scena pubblica di una serie di valori prima relegati alla vita privata: valori dissimulati e marginalizzati durante tutto il corso della storia europea, dalla educazione dei ragazzi alla coltivazione dei legami tra gli individui, oggi in primo piano grazie alla magnifica eredità che ci hanno lasciato le donne del XX secolo.
A proposito di eredità del XX secolo, lei si riferisce più volte, nei suoi libri, al pensiero psicoanalitico, ma in realtà di Freud sembra salvare solo il linguista, l'autore del «Motto di spirito». In altre parole, la interessa il senso costante e universale della tecnica di interpetazione simbolica, mentre la coinvolge di meno ciò che si può trarre dalla tecnica fondata sulle libere associazioni di pensiero. È così?
Sì è così, ma questo dipende dall'orientamento generale dei miei interessi, che sono di certo più attratti dalla filosofia morale e politica che non dalla analisi delle pulsioni inconsce. Naturalmente, spero di avere tesaurizzato le mie letture di Freud e mi auguro che ne siano rimaste tracce nel mio lavoro - anche recentemente ho ripreso in mano L'avvenire di una illusione e Il disagio della civiltà; ma resta il fatto che Freud non è stato, per me, un autore decisivo come lo è stato, per esempio, Bachtin.
Come giustifica, nella sua parabola di studioso, un ritorno di interesse verso l'Illuminismo tale da dedicargli il suo ultimo libro?
Il pretesto che ha funzionato come punto di avvio me lo ha fornito la Biblioteca nazionale francese, organizzando una grande esposizione sull'Illuminismo e sul significato della sua lezione per il mondo attuale, della quale mi ha affidato la supervisione. Il lavoro è durato due anni e si è poi trasformato in un libro. Ma la ragione che sta alle spalle del mio interesse riguarda il fatto che, dopo la fine del conflitto tra i totalitarismi e la democrazia, sebbene questa ne sia uscita vittoriosa siamo entrati in un'epoca per nulla tranquilla e pacificata, in cui molte tra le idee dell'Illuminismo tornano a esserci utili e a acquisire attualità e nella analisi dei conflitti che oppongono, per esempio, le diverse religioni o quel che accade in una guerra come quella dell'Iraq.
ilmanifesto.it
La provvidenziale reazione di Todorov, prima ancora di approdare in Francia, dove arrivò nel 1963, in piena ebbrezza strutturalista, fu quella di trovare un rifugio mentale nelle teorie dei Formalisti russi, che in appena quindici anni di attività rivoluzionarono il panorama della critica affermando il valore autonomo della parola: né semplice sostituto dell'oggetto nominato, né serbatoio di emozioni, né rimando a altra realtà che non sia quella del proprio peso e del proprio valore. Fu allora che, per la prima volta, Todorov cominciò a riflettere sul fatto che né la pretesa di possedere la verità, alla quale lo avevano educato in gioventù, né la rinuncia a cercarla alla quale era approdato con la critica immanente dei Formalisti soddisfacevano le sue esigenze di interrogare i testi; e con la scoperta di Michail Bachtin, al quale dedicò nell'81 una monografia, abbracciò quella «critica dialogica» che implica nella scrittura un atto di comunicazione, estendendo questo metodo alla storia delle idee e delle culture, cui consacrò la sua seconda stagione. Oggetto privilegiato della indagine divenne quella che, in suo libro, sintetizzò come La vita comune (Pratiche, 1998), ossia la socialità come definizione stessa della condizione umana, dalla quale passò a una ricapitolazione delle ideologie dominanti (in Noi e gli altri, Einaudi, 1991) e, ancora, a una articolata radiografia del secolo tragico, interrogandosi sulle possibili rifondazioni dell'etica dopo l'esperienza dei gulag e dei campi nazisti (in Di fronte all'estremo, Garzanti, 1992) e sulle implicazioni storiche e ideologiche dello scontro tra totalitarismo e democrazia nel XX secolo (in Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, 2001). Del tutto coerente con la ricerca dei fondamenti intellettuali e morali che stanno alla base della nostra vita comune, l'ultimo libro di Todorov (uscito da poco per Garzanti) si rivolge allo Spirito dell'illuminismo e alle proiezioni sulla contemporaneità dei dibattiti che lo hanno animato. Su alcuni passaggi di questa lunga parabola torneremo, approfittando della presenza di Tzvetan Todorov a Torino, dove ieri ha ricevuto il premio Grinzane Cavour.
Lei ha individuato in due incontri, uno con Arthur Koestler, l'altro con Isaiah Berlin due momenti epifanici di una svolta nella sua vita. L'autore di «Buio a mezzogiorno» la risvegliò dal fatalismo politico cui l'aveva consegnata la sua infanzia nella Bulgaria stalinista; mentre Berlin l'ha aiutata a abbandonare una idea di letteratura come puro insieme di strutture. Sono rimasti questi gli autori cui deve di più anche il suo lavoro degli ultimi anni?
Per quel che riguarda la mia giovinezza, aggiungerei tra gli incontri che più hanno influenzato il corso delle mie idee quello con Roman Jakobson. Lo vidi una prima volta in Bulgaria quando ancora ci abitavo, e da allora nessuno ha destato in me una impressione altrettanto forte. Quel che più mi attraeva era il fatto che, nella sua persona, il rigore scientifico si combinava strettissimamente con la passione per la poesia e per l'arte, due elementi quasi sempre dissociati l'uno dall'altro. Conobbi Arthur Koestler e Isaiah Berlin molti anni più tardi, quando avevo già letto i loro libri; con entrambi l'incontro fu breve e tuttavia furono capaci di scombussolarmi le idee, di cambiare le mie convinzioni, di determinare il mio incontro con la politica, che non ha mai preso la forma della militanza in un partito bensì quella della partecipazione al dibattito pubblico. Da un certo punto in avanti, però, a guidare il mio lavoro è stato soprattutto l'esempio di Germaine Tillion, la ricerca di una approssimazione alla verità e alla giustizia incarnata in questa figura esemplare di quanto è stato fatto di meglio nel corso del XX secolo, almeno in Francia. Contrariamente a ciò che si legge sulla copertina del suo libro pubblicato in Italia dalle edizioni Medusa, Alla ricerca del vero e del giusto, Germaine Tillion non è morta; ha compiuto cent'anni nel maggio scorso, trainando in questo secolo una lezione di vita alla quale mi sento particolarmente grato. La sua era una forma di impegno che non poteva restare estranea all'azione. Scese in campo la prima volta all'indomani della occupazione nazista della Francia, militando in una rete della Resistenza, e per questo venne messa in prigione; fu poi internata in un campo nazista, dal quale uscì nel '45. Dopo una lunga assenza dalla scena pubblica vi ricomparve nel '54, all'inizio della guerra di Algeria, dove già l'avevano portata i suoi studi di etnologa. Fino al '62 si spese in ogni modo per aiutare le vittime di entrambe le parti, per sottrarle alla tortura, per salvarle dalle esecuzioni, per metterle in guardia dai continui attentati. Se è vero che fu Koestler a risvegliare il mio interesse per la politica, devo a Germaine Tillion il fatto di avermi aiutato a indirizzare meglio, con il suo esempio, la mia sensibilità per la vita pubblica.
Se si cercasse un filo che leghi la sua prima stagione di teorico della letteratura, sotto il segno del formalismo, al suo approdo alla storia del pensiero e delle culture, lo si potrebbe probabilmente cogliere nella sua predilezione per la «critica dialogica»: quella fatta propria da Michail Bachtin, quella che «non parla delle opere ma alle opere». È d'accordo?
Direi di sì, è anche la mia ipotesi; fermo restando il fatto che proprio dal pensiero di Bachtin ho imparato come gli autori non siano i migliori interpreti delle loro opere e come ogni cultura, ogni idea si riveli al meglio nel confronto con altre culture e altre idee. Quanto al mio ruolo, invece, quello in cui più mi riconosco l'ho sintetizzato in una sorta di autobiografia che ho intitolato Devoirs et délices, da una frase di Rousseau secondo cui si può avere accesso alle cose sia tramite il dovere che tramite il piacere. Il mio ruolo - dicevo - è quello del passeur, di colui che traghetta le persone da una riva all'altra: ossia di chi cerca di mettere in relazione, dunque di fare dialogare - come voleva Bachtin - le lingue, le idee, le discipline, le diverse culture. E, in effetti, quando guardo al mio percorso sono colpito da un elemento anacronistico: mi sembra di essere un uomo di un'epoca anteriore, proprio perché mi sono interessato di pressoché tutte le scienze umane. Naturalmente, questo orientamento enciclopedico sconta il prezzo che consiste nel non approfondire mai nulla; ma ha anche il vantaggio di allargare la mente, di farti vedere cosa succede al di là dei tuoi confini. Dal punto di vista politico, quel che più mi interessa, al momento, è la costruzione dell'Europa, la questione delle identità nazionali; ma della mia prima stagione non ho rinnegato nulla. Quando arrivai in Francia, e per il periodo immediatamente successivo, pensavo che si sarebbe dovuto trovare un mezzo per leggere i testi in modo più sistematico, più rigoroso, e questo metodo me lo forniva lo strutturalismo. Poi arrivò un giorno in cui lo scopo del mio lavoro non si limitò più all'apprendimento dei mezzi con cui leggere un'opera letteraria, e cominciai così a servirmi del sapere metodico che avevo acquisito per provare a indagare il mondo intorno a me. Ciò che prima era un fine l'ho fatto diventare un mezzo, ho fatto di quel che era un approdo uno strumento. Ma la letteratura è tutt'altro che scomparsa dal mio orizzonte, tanto è vero che i miei ultimi due libri, entrambi non ancora tradotti in italiano, si intitolano Les aventuriers de l'absolu e La littérature en péril: il primo l'ho scritto per cercare di capire e di valutare il progetto di tre grandi scrittori - Rainer Maria Rilke, Oscar Wilde e Marina Cvetaeva - che hanno organizzato la loro vita come un'opera d'arte; il secondo saggio riguarda, invece, i pericoli che corre una certa concezione della letteratura, a mio avviso estrememente angusta: quella derivata da una perversa interpretazione dell'eredità strutturalista, che concentrandosi solo sulla costruzione dei testi, dimentica come la letteratura riguardi le verità essenziali della vita e di noi stessi.
Nella sua lunga analisi dei principali avvenimenti del XX secolo, che ha svolto soprattutto nel suo saggio «Memoria del bene tentazione del male», lei assegna una importanza centrale alla comparsa di quel regime politico fino a allora inedito che è il totalitarismo: di questo bisogna scongiurare il ritorno. Non altrettanto esplicita, nel suo libro, è la risposta alla domanda che lei si fa nella prima pagina: «che cosa bisogna conservare di questo secolo?».
Bisognerebbe salvaguardare, intanto, l'esempio di alcuni destini individuali, che pur essendo stati drammaticamente segnati dalle tragedie dei totalitarismi, non hanno convertito lo spavento in paralisi e, perciò, hanno saputo nutrire le nostre vite. Penso a Primo Levi, a Vasilij Grossman, alla stessa Germaine Tillion di cui prima le parlavo, a Margarete Buber-Neumann, a David Rousset e a altri ancora il cui esempio dovrebbe accompagnare i secoli a venire. Naturalmente, del '900 vale la pena di conservare alcune scoperte scientifiche e tecnologiche, ma forse soprattutto il cambiamento di status delle donne, perché ha determinato il passaggio alla scena pubblica di una serie di valori prima relegati alla vita privata: valori dissimulati e marginalizzati durante tutto il corso della storia europea, dalla educazione dei ragazzi alla coltivazione dei legami tra gli individui, oggi in primo piano grazie alla magnifica eredità che ci hanno lasciato le donne del XX secolo.
A proposito di eredità del XX secolo, lei si riferisce più volte, nei suoi libri, al pensiero psicoanalitico, ma in realtà di Freud sembra salvare solo il linguista, l'autore del «Motto di spirito». In altre parole, la interessa il senso costante e universale della tecnica di interpetazione simbolica, mentre la coinvolge di meno ciò che si può trarre dalla tecnica fondata sulle libere associazioni di pensiero. È così?
Sì è così, ma questo dipende dall'orientamento generale dei miei interessi, che sono di certo più attratti dalla filosofia morale e politica che non dalla analisi delle pulsioni inconsce. Naturalmente, spero di avere tesaurizzato le mie letture di Freud e mi auguro che ne siano rimaste tracce nel mio lavoro - anche recentemente ho ripreso in mano L'avvenire di una illusione e Il disagio della civiltà; ma resta il fatto che Freud non è stato, per me, un autore decisivo come lo è stato, per esempio, Bachtin.
Come giustifica, nella sua parabola di studioso, un ritorno di interesse verso l'Illuminismo tale da dedicargli il suo ultimo libro?
Il pretesto che ha funzionato come punto di avvio me lo ha fornito la Biblioteca nazionale francese, organizzando una grande esposizione sull'Illuminismo e sul significato della sua lezione per il mondo attuale, della quale mi ha affidato la supervisione. Il lavoro è durato due anni e si è poi trasformato in un libro. Ma la ragione che sta alle spalle del mio interesse riguarda il fatto che, dopo la fine del conflitto tra i totalitarismi e la democrazia, sebbene questa ne sia uscita vittoriosa siamo entrati in un'epoca per nulla tranquilla e pacificata, in cui molte tra le idee dell'Illuminismo tornano a esserci utili e a acquisire attualità e nella analisi dei conflitti che oppongono, per esempio, le diverse religioni o quel che accade in una guerra come quella dell'Iraq.
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