26.7.07

Ci sono i rom. E il comune abbatte la fabbrica storica

Pavia, avviata la demolizione dei capannoni Snia, gioiello architettonico. Stop della magistratura
di GIAN ANTONIO STELLA
E se i rom avessero occupato la Chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro, il Broletto o il Ponte Coperto? Ecco cosa ti domandi, nel vedere a Pavia le macerie di quello che era fino a ieri uno dei monumenti di archeologia industriale più affascinanti d’Italia: l’antico stabilimento della Snia Viscosa. Demolito dalle ruspe perché il sindaco diessino non sapeva più cosa fare per cacciare gli «zingari» che avevano occupato l’area. C’è chi dirà: non era mica il Colosseo! Non era mica una cappella gotica! Non era mica un castello medievale! Verissimo. È la tesi dello scrittore Mino Milani, autore del romanzo «Fantasma d’amore» dal quale Dino Risi trasse il film omonimo con Marcello Mastroianni: «La necessità di abbattere la Snia trascende dalla storicità degli edifici. Non si tratta di chiese o monumenti, ma di ruderi abbandonati da decenni». Opinione condivisa giorni fa sul Corriere da Pietro Trivi, consigliere comunale di Forza Italia: «Che valore storico possono avere dei vecchi capannoni trasformati dai rom in una bidonville? Per la città quella ex fabbrica è solo un buco nero che crea problemi ai residenti».
Verissimo anche questo. Come è sempre successo nella storia (si pensi alle rovine della reggia di caccia dei Savoia a Venaria Reale che sta per essere restituita al suo splendore ma che fu a lungo occupata negli anni del boom economico da immigrati veneti e siciliani, pugliesi e romagnoli) gli antichi capannoni, scrostati e crepati e aggrediti dalla vegetazione, erano stati invasi negli ultimi tempi da un numero crescente di rom. I quali si erano adattati a vivere in condizioni spaventose. Niente servizi igienici. Bambini abbandonati tra le macerie. Avvisaglie di una ripresa di quella tubercolosi che pareva sconfitta da decenni. Accumulo di quintali e tonnellate di immondizia.
Un degrado progressivo e apparentemente inarrestabile. Tale da scoraggiare il Comune, che dopo alcuni tentativi si era di fatto rassegnato all’impotenza. Da spingere gli operatori sociali a rinunciare a mettere piede nel ghetto, dove tra i 260 «zingari» accampati alla meno peggio c’erano almeno 74 ragazzini mai coinvolti in un progetto scolastico. Da esasperare gli spazzini al punto che, mandati a portar via almeno un po’ di tonnellate di spazzatura, si erano ribellati all’idea di entrare nel complesso industriale abbandonato: «C’è il pericolo i muri crollino».
Insomma: che tirasse un’aria sempre più pesante, con rischi sanitari per tutta la popolazione dei dintorni, è innegabile. E neppure gli oppositori più critici della giunta unionista, come l’ex sindaco Elio Veltri che pure accusa l’amministrazione comunale di non aver fatto abbastanza, si sognano di negare l’evidenza: il problema andava risolto. Ma mai come in questo caso c’era il rischio di buttare via, con l’acqua sporca, il bambino. Perché il «monumento industriale» della Snia è (era?) davvero bello.
Lo aveva detto il grande architetto Vittorio Gregotti, che una manciata di anni fa aveva progettato per il Comune il piano regolatore spiegando che quegli edifici, soprattutto i più belli allineati lungo viale Monte Grappa, nel quartiere di San Pietro in Verzolo, andavano sottratti al degrado, recuperati, restituiti alla città che avrebbe potuto portarci una parte dell’Università. Lo aveva ribadito Italia Nostra, che aveva mandato un drammatico appello alla Sovrintendenza ai beni ambientali e architettonici chiedendo che almeno sui pezzi più pregiati del grande stabilimento fondato nel 1905 per produrre seta artificiale su una grande area (appetita dai padroni dell’edilizia) di 240 mila metri quadri tra la Ferrovia e il Ticino, fosse posto finalmente il vincolo ufficiale già prefigurato da Gregotti. Lo aveva implorato Legambiente. E lo stesso Veltri in una lettera angosciata al vice-premier e ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli, in cui ricordava come l’amministrazione pavese avesse già consentito negli ultimi anni due profonde ferite (una strada e una tangenziale) al parco della Vernavola dove nel 1525 si scontrarono gli eserciti di Francesco I e di Carlo V e minacciasse ora di costruire un grande parcheggio sotto la splendida chiesa romanica di San Primo. E ancora decine e decine di volontari trascinati da Giovanni Giovannetti, che col consigliere comunale Irene Campari (indipendente di sinistra in dissenso con la giunta di sinistra) e con Paolo Ferloni di Italia Nostra si erano spinti a presentare un esposto alla magistratura denunciando «il "partito del mattone"» deciso a «buttare giù tutto, anche le cornici dentellate, anche gli ornamenti e le archeggiature in cotto dipinto» di una testimonianza essenziale del ruolo di Pavia, che «nel secolo scorso, con Milano, è stata a lungo la città più industrializzata della Lombardia».
Niente da fare. Il sindaco Piera Capitelli l’aveva detto: «Per gli occupanti dell’area a Pavia non c’è più posto». Pugno di ferro: «Non abbiamo mai potuto affrontare il problema delle demolizioni ma ora che c’è il sospetto che alcuni edifici siano pericolanti lo dovremo affrontare». I rom, i rischi igienici, l’odore dell’immondizia accumulata? «Il problema si risolverà con l’abbattimento dei capannoni», aveva rincarato l’assessore ai Servizi Sociali Francesco Brendolise. E i vincoli? «Non sono della Sovrintendenza ma del piano regolatore. E se vi fossero problemi di stabilità potrebbe essere superato». Quanto alle preoccupazioni di chi denuncia «colate di cemento» in «una città che continua a perdere abitanti», il sindaco era stato chiaro: «Per il boom edilizio non posso che essere felice. Porta lavoro, attua una parte del programma e risponde all’esigenza abitativa: la città è stata ferma per troppo tempo».
E così ieri mattina, benedette dai proprietari dell’area (tra i quali spicca la «Tradital» di Luigi Zunino, indicato nella lunga estate calda delle scalate bancarie come uno che trattava affari con Stefano Ricucci e Danilo Coppola) le ruspe si sono presentate a sorpresa sul posto e hanno cominciato ad abbattere il primo dei quattro capannoni. Il più bello, forse. Finché non sono arrivati, per conto della magistratura, gli agenti: fermi tutti, sospendete. Un intervento che al sindaco non è piaciuto per niente: «L’ordinanza di demolizione l’ho firmata perché esistono concreti pericoli di crollo negli edifici in cui è nata la bidonville. Come Sindaco devo badare all’incolumità dei residenti e l’ex Snia non è sicura. Tra l’altro non vi sono vincoli architettonici imposti dalla sovrintendenza e ogni tentativo di dimostrare il contrario è solo strumentale...». Credeva di avercela fatta, ormai. E se un domani l’avessero rimproverata d’aver buttato giù quella «cattedrale industriale»? Uffa...

corriere.it

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