Sayed Parwez Kaambakhsh, 23 anni, era in carcere da tre mesi. Aveva diffuso testi sui diritti delle donne
Sayed Parwez Kaambakhsh, 23 anni, era in carcere da tre mesi. Appello della comunità internazionale a Karzai per salvarlo Condannato alla pena capitale con l'accusa di avere offeso Maometto e il verbo del Corano. In Afghanistan può ancora capitare a un giornalista sette anni dopo la caduta del regime talebano. Di certo è accaduto a Sayed Parwez Kaambakhsh, 23enne studente alla scuola di giornalismo a Mazar- i-Sharif, nel Nord del Paese, e neo-assunto in un quotidiano locale. Secondo i giudici, l'imputato avrebbe definito il Profeta «un assassino e un adultero» e soprattutto avrebbe difeso il diritto delle donne ad avere più partner maschili. «Se un uomo secondo il Corano può sposare sino a quattro mogli, perché una donna non può avere quattro mariti?», chiedeva un articolo trovato da Sayed su Internet e da lui diffuso tra gli studenti dell’Università di Balkh. Parole di fuoco, temi delicatissimi, che secondo i giudici in primo grado sono immediatamente punibili con la morte.
Il giovane giornalista ha comunque diritto a due ricorsi in appello. E lo stesso presidente Hamid Karzai per legge in un caso del genere dispone della piena facoltà di modificare la sentenza. A detta dei giornalisti locali, tra l'altro, la vicenda sarebbe molto più complessa e vedrebbe coinvolto il fratello dell'accusato, Sayed Yaqub Ibrahimi (il quale nega con fermezza che questi sia responsabile di alcuna dichiarazione blasfema), che da tempo sarebbe impegnato in un pericoloso braccio di ferro con Piram Qul, noto signore della guerra e membro del parlamento. «Si colpiscono i due fratelli per affossare la nuova stampa liberale, che sempre più di frequente mette in dubbio il potere dei vecchi signori della guerra. A Kabul un fatto del genere sarebbe stato subito denunciato. Lo stesso presidente Karzai è intervenuto più volte di persona a difesa dei giornalisti. Ma oggi più che mai il potere centrale è debole, fiacco, non arriva nelle province, dove gli uomini forti dell'era talebana restano in sella», sostengono nei circoli giornalistici della capitale. Nella primavera scorsa il procuratore generale dello Stato, Abdul Jabar Sabet, era intervenuto personalmente per cercare di imporre la censura contro Tolo, la più diffusa televisione privata.
Ma, dopo alcune brevi colluttazioni tra giornalisti e forze dell'ordine a Kabul, Sabet era stato costretto a tornare sui suoi passi. Eppure le accuse di blasfemia sono certamente più difficili da combattere. Nei tre casi noti per gli ultimi sei anni, quasi tutti gli imputati e i loro famigliari hanno dovuto lasciare il Paese. Non aiuta la crescita dell'influenza dei mullah e delle corti religiose locali di fronte alla crisi del governo centrale e le continue accuse di corruzione e nepotismo nei confronti dei suoi rappresentanti. Di recente il governo ha persino accolto la richiesta dei circoli religiosi affinché venissero censurati i film indiani ritrasmessi dalle tv private afghane, giudicati «immorali». In ogni caso i maggiori responsabili delle organizzazioni della stampa afghana sono già corsi a chiedere aiuto a Karzai. Dichiara Rahimullah Samander, direttore dell'Associazione dei Giornalisti Indipendenti: «Le accuse contro Sayed sono scioccanti. Di lui si deve occupare un'apposita commissione di giornalisti».
Lorenzo Cremonesi
corriere.it
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