26.7.08

Quel dossier in mano ai magistratie il ruolo della libera stampa

di Giuseppe D'Avanzo

Non sorprende che l'affaire Telecom abbia provocato una contesa molto aspra. Quel che delude e confonde i lettori è come se ne parla e di che cosa si discute. C'è chi si industria a disegnare scenari - senza capo né coda - alimentati dalle pigre chiacchiere di Transatlantico. Lungo il corridoio di Montecitorio, i "nominati" in Parlamento almanaccano, congetturano, epperò accusano. Non sanno niente. Non hanno letto niente (non le carte dell'affaire e nemmeno con cura le cronache), ma dell'ultimo capitolo del "caso" (l'intervista di Tavaroli) spiegano la genesi, gli attori, trame e intrighi immaginati spesso confondendo la notte con il giorno, il sopra con il sotto, nella convinzione che le loro dicerie, ripetute tre o quattro volte, assumano la qualità di prove storiche.
Quelle parole libere sono presentate al lettore addirittura come "retroscena" e chi le combina finge di non sapere che, lontano dai fatti, i quadri si possono comporre a mano libera sostenendo una cosa e il suo contrario e il contrario del contrario in un caleidoscopio di luci sempre ingannevoli e mai veritiere. Lo spettacolo, pare, si riconosce soltanto un obbligo: "far conoscere il mondo noioso dell'incomprensibile obbligatorio".
C'è poi chi (il Corriere della Sera) si trova nelle mani l'ambiguità dell'affaire e ne è spaventato, intimorito. Vuole soprattutto aggirare ciò che è accaduto. Per farlo, ha bisogno di qualche cosmesi per censurare quel che ritiene una lettura gonfia di pregiudizi e scettica perché non vede nella polvere, come vorrebbe, l'avversario (Marco Tronchetti Provera). In questo quadro manipolato, chi sospende ogni giudizio (come Repubblica) avrebbe per l'avventuroso critico un "doppio standard": i pubblici ministeri sono "buoni" se azzoppano l'antagonista, "cattivi" se lo scagionano. È una soporifera litania, molto datata. Per rendersi oggi decente ha bisogno di una falsificazione e di due omissioni.
Deve attribuire, a chi racconta il "caso", "un avversario". Deve rappresentare Tronchetti Provera come target di un'aggressione mediatica. E' falso. Tronchetti non è l'obiettivo di nessun assalto. E' purtroppo il presidente di Telecom e Pirelli negli anni in cui nasce e prospera, nel corpo di quelle società, un abusivo "servizio segreto di un paese di media potenza" che compila migliaia di dossier illegali contro "i nemici" e anche "gli amici" (politici, economici, finanziari, istituzionali) delle due aziende.
Tronchetti era consapevole di queste pratiche o gli "spioni" hanno approfittato della sua trascuratezza? Non si può omettere di ricordare ai propri lettori che la questione, per il momento, divide il pubblico ministero dal giudice per le indagini preliminari. Per il pm, la responsabilità di Tronchetti è soltanto "amministrativa" (è stato negligente, si è lasciato prendere la mano da quei ceffi). Per il giudice, va valutata anche una sua diretta responsabilità penale (il lavoro di Tavaroli e delle sue spie "tende a beneficiare non già l'azienda, ma il proprietario di controllo"; i dossier "rispondevano a esigenze della proprietà aziendale").
Non c'è un pregiudiziale "doppio standard". La doppia lettura degli avvenimenti è interna al processo, è nelle "carte". Non è sollecitata da un malanimo contro Tronchetti. È, come si dice, un fatto.
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Sono proprio i fatti che, in questa storia, si preferisce omettere. Anche chi non li nasconde sembra concludere che non abbiano poi molta importanza. Come se non ci fosse più bisogno di accertare che cosa è accaduto, di riflettere su quel che è accaduto. Come se non fosse necessario o doveroso, se vuoi informare, sapere e raccontare come nel nostro Paese si formano le decisioni; chi decide; perché; dove; dietro a quali interessi, con quale volontà di potenza e metodi. È questa del "caso Telecom" la sola cosa importante, la sola di cui valga la pena occuparsi (ce ne scuseranno Tronchetti e Fassino) perché è una storia che parla della natura del potere italiano.
Come hanno osservato analisti più acuti dell'avventuroso critico, anche la "verità" di Giuliano Tavaroli può essere, a questo proposito e nonostante l'ambiguità della sua testimonianza, utile a rappresentare l'affresco di quel potere, i protagonisti e le figurine, la tavolozza dei colori, il teatro, il canovaccio. Vi si colgono una geografia e paradigmi che dimostrano quanto concreta sia diventata oggi la profetica chiaroveggenza di Guy Debord, la sua analisi lucida e severa delle miserie e della servitù di una società moderna (La società dello spettacolo).
In questa storia si vedono all'opera "un numero sempre maggiore di uomini formati per agire nel segreto; istruiti ed esercitati a non far altro. Sono distaccamenti speciali di uomini armati di archivi segreti riservati, cioè di osservazioni e analisi segrete. E altri sono armati di varie tecniche per lo sfruttamento e la manipolazione di questi affari segreti". Si scorgono in controluce ovunque "reti di influenza" coerenti con le nuove condizioni di una proficua gestione degli affari economici, la naturale conseguenza del movimento di concentrazione dei capitali.
L'affaire Telecom è, allora, una domanda a cui nessuno vuole dare una risposta: come si formano, nel cuore del potere italiano, i "legami di dipendenza e di protezione"?
È bizzarro che nessuno si chieda perché il piduista Luigi Bisignani, ancora oggi, possa attraversare la scena pubblica e decidere (come tutti nelle consorterie del potere sanno e dicono) delle nomine più prestigiose. In base a quale autorità? E' curioso che nessuno si sorprenda che Gianni Letta (sottosegretario alla presidenza del Consiglio) accetti di discutere con un dirigente della Kroll (la più grande agenzia d'investigazione privata del mondo) "un'operazione di discredito contro Tronchetti" e non lo sbatta fuori dal suo studio, non inviti subito il ministro dell'Interno ad annullare la licenza di quell'agenzia. Perché?
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"Il vero è sempre un momento del falso" in questo mondo di spie e di aziende che li lasciano fare per distrazione o li utilizzano con sapienza. Come non sappiamo ancora quali siano le responsabilità di Tronchetti, noi non sappiamo se i Ds abbiano mai avuto conti all'estero con la firma di Piero Fassino, come sostiene Tavaroli. L'affermazione ha provocato un putiferio e qualche questione di metodo. Quale controllo è stato effettuato? Quel che dice Tavaroli è sostenuto da un dossier a disposizione della magistratura? Quei dossier saranno usati nel processo oppure ritenuti inammissibili come prove?
Sono interrogativi ragionevoli. Il dossier esiste - alto una spanna, contiene i nomi dei beneficiari (non solo quello di Fassino), i cognomi dei prestanome - ed è nelle mani dei pubblici ministeri (naturalmente l'esistenza di un dossier non è l'automatica conferma di un reato).
Altra questione è se potrà essere utilizzato in un'indagine. Con un decreto legge del 22 settembre 2006, convertito in legge due mesi dopo, il governo Prodi ha disposto che "il pubblico ministero disponga la secretazione dei documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni. Il loro contenuto non può essere utilizzato. Entro quarantotto ore, il pubblico ministero chiede al giudice per le indagini preliminari di disporne la distruzione".
La legge è apparsa dubbia da un punto di vista costituzionale al giudice di Milano (lede i diritti della vittima dello spionaggio) e sarà ora la Consulta a decidere l'utilizzabilità o la distruzione di quel dossier. Come ha spiegato una fonte vicina all'inchiesta a Repubblica, già il 26 gennaio del 2007 il dossier sui Ds è ora un "fascicolo in C". La formula è criptica, ma la cosa non è poi molto complicata. Dal troncone d'una inchiesta si stralciano alcune posizioni aprendo un fascicolo di "Atti relativi a...". Questo è il fascicolo in C: permette al pubblico ministero di tenere in parcheggio l'iniziativa penale senza pregiudicarla con i tempi stretti dell'istruttoria, del processo e della prescrizione.
Sono atti che, in qualsiasi momento, a ogni occasione utile, possono uscire dal parcheggio con un'ipotesi di reato quando questa viene individuata e sostenuta da un'apprezzabile fonte di prova. Il dossier è già stato materia di interrogatorio per indagati e testimoni.
Sorprende, allora, la sorpresa di Fassino e in generale del Partito democratico. Marco Mancini, capo del controspionaggio, il 14 dicembre del 2006, ha riferito alla procura di Milano che "nel 2003 seppe che Cipriani (investigatore privato pagato da Telecom) era in condizione di avere concretamente nomi di società all'estero riconducibili a personaggi della sinistra specificatamente ai Ds". Mancini corse da Pollari (allora direttore del Sismi) che lo "invitò a parlare con il senatore Nicola Latorre (Ds) il quale mi disse che erano fesserie".
Consideriamo le parole di Mancini bubbole (Latorre nega di aver mai saputo di un dossier). In ogni caso, i leader della Quercia, se leggono i giornali, hanno saputo di quelle accuse 17 mesi fa, quando Repubblica ne ha dato conto. Non si ha notizia che, in quel tempo, si siano mossi gli avvocati di partito. Come, oggi, non si ha notizia di una querela per diffamazione di Tronchetti contro il capo della sua security, che lo accusa di aver commissionato lo spionaggio dei leader dei Ds.
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Aggiustata qualche data e qualche ricordo, si può concludere che l'ira furibonda provocata dall'intervista di Giuliano Tavaroli non riguarda il suo racconto (della cui ambiguità, Repubblica ha avvertito i lettori), ma la stessa possibilità di raccontare, la stessa possibilità di lasciare accesa una luce su un affaire che disegna le debolezze del nostro capitalismo, i deficit della nostra politica, l'opacità del loro intreccio, le "reti d'influenza" e i "legami di dipendenza e di protezione" del potere italiano.
Da questo punto di vista, l'applauso corale che ha accolto Fassino alla Camera è degno di attenzione. Annuncia una brutta stagione per l'informazione imputata di essere, quando fa il suo lavoro, soltanto "disinformazione". Era già accaduto quando Repubblica svelò lo scandalo di "Telekom Serbija" e poco dopo quando svelò la maligna macchinazione di una commissione parlamentare contro Prodi e Fassino.
Anche in questo caso ci aiuta Debord. "La disinformazione è nominata soltanto dove occorre mantenere la passività. Dove la disinformazione è nominata, non esiste. Dove esiste, non la si nomina".
larepubblica.it

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