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2.4.19

Parole

Giovanni De Mauro (Internazionale)

Nessun fornitore o utilizzatore di un servizio interattivo telematico sarà trattato come un editore o un portavoce delle informazioni prodotte da un altro fornitore di contenuto”. Queste sono le 26 parole che rendono possibile la diffusione di contenuti violenti su internet. E queste sono anche le 26 parole che consentono a internet di essere un posto libero, aperto, accessibile a tutti. Nel bene e nel male, senza queste parole internet oggi sarebbe molto diversa ed è probabile che Facebook, Google, YouTube, Twitter e Amazon non esisterebbero.

Sono nascoste nella sezione 230 del Communications decency act approvato dal congresso degli Stati Uniti nel 1996. Il presidente era Bill Clinton (e in Italia il premier era Lamberto Dini: per dire quant’era diverso il mondo). Il problema era evitare che i primi fornitori d’accesso a internet, CompuServe e Prodigy, fossero ritenuti responsabili per quello che i loro utenti scrivevano nei bulletin board, nelle chatroom e nelle newsletter. L’idea fu di considerarli non editori, ma intermediari. Come una biblioteca, che non può essere denunciata per i libri che ospita. Più di altre legislazioni al mondo, la sezione 230 ha protetto la libertà di espressione in rete. Ma a un costo che molti trovano troppo alto, soprattutto oggi che non serve più a favorire la crescita di una tecnologia appena nata.

Se n’è tornato a parlare dopo gli attentati in Nuova Zelanda, quando il terrorista che ha ucciso 50 persone in due moschee ha messo online il video della strage. Facebook e YouTube hanno cercato di limitarne la diffusione, senza riuscirci del tutto, e il video è stato visto da migliaia di persone e continua a circolare. “Perché tolleriamo una tecnologia che può essere usata per seminare odio e violenza alla velocità della luce e su scala mondiale?”. La domanda di John Thornhill sul Financial Times è legittima. Ma il confine tra controllo e censura è sottile. E attraversarlo può essere pericoloso.

12.9.11

Scuola: ha fatto l'Italia, può renderla multiculturale

Tullio De Mauro

Un geniale architetto e urbanista italiano, Luigi Piccinato, per sdrammatizzare il contrasto tra città e campagna ripeteva un bon mot: «Tutte le città sono nate in campagna». Quando si parla di alieni, forestieri, migranti, meticci, vale la pena ricordare che siamo tutti alieni e forestieri per qualcuno, tutti abbiamo il dna di qualcuno venuto da fuori, foresto, nel luogo in cui siamo e dunque tutti siamo un po’ meticci, basta risalire a volte anche poco nel tempo e nelle generazioni.

La bimbetta che con aria solenne dice: «Noi a casa nostra facciamo così» e si riferisce a qualche azione assolutamente comune, ma poi è attenta e curiosa al nuovo e all’ignoto, o il grande, famoso discorso con cui, secondo Tucidide, Pericle esaltava l’orgoglio di essere ateniesi perché cittadini di una città sempre pronta a ospitare gli altri venuti da fuori, riflettono l’ambivalenza che ci accompagna. Siamo noi perché altri, anche assai diversi da noi, ci hanno fatto e fanno così come siamo: vale per le singole persone e per i grandi gruppi umani.

Le mille e mille lingue del mondo riflettono questa ambivalenza. Chi viene da fuori fu, per i Latini, partendo dalla stessa etimologia, hospes e hostis, «ospite» e «nemico». L’estraneo fu ekhthròs e xénos, «esterno» per i Greci, ma poi si dicevano xénia i regali, tipicamente da destinare inizialmente a chi veniva da fuori. Nella Roma primitiva, quelli di fuori porta, stanziati al di là dell’originaria cinta muraria, in opposizione ai nativi interni, gli inquilini, furono detti exquilini. Ma poi le mura si ampliarono e l’Esquilino divenne uno dei sacri Sette Colli. Del resto, sta nei miti delle origini di Roma il deliberato meticciato. E nella parola italiana ospite, «ospitante» e «ospitato», vive ancora un’antica e non rara ambivalenza etimologica altrettanto presente in altre lingue: sembra certo che in latino hospes sia stato dapprima il «padrone di casa che accoglie gli hostes stranieri», l’ospitante, e solo poi l’ospitato.

Se le migrazioni non segnassero la storia del genere umano saremmo ancora arrampicati sugli alberi di una savana nel centro dell’Africa, incerti se scendere e camminare dritti sul suolo. Alcuni milioni di anni fa scegliemmo – scelsero per noi – di scendere. E da allora le generazioni successive di ominidi, ormai bipedi deambulanti, a ondate successive lasciarono il cuore dell’Africa per diffondersi nei continenti. Ultimi, un po’ più di duecentomila anni fa – già il fuoco veniva acceso e sfruttato e spento e riacceso in Asia ed Europa, già vi erano tecniche sofisticate per costruire strumenti preziosi al vivere, già tutti gli altri ominidi sapevano comunicare e istruire per segni – gli homines sapientes sapientes, quali noi dovremmo onorarci di essere; attraverso il Sinai, intorno a centomila anni fa passarono in Asia e in Europa, in tempi più recenti, attraverso le Aleutine, si spinsero nel continente americano. E sempre conservarono l’ambivalenza: formavano gruppi diversi per sopperire solidalmente alle necessità del vivere e ciascun gruppo, nato da altri, tornava ad aprirsi e fondersi con altri ancora; costruivano lingue diverse per parlare tra loro nel gruppo, ma ogni lingua era ed è la chiave per entrare in ogni altra e capirla, e dalle altre lingue trae ricchezza di espressioni e di nuovi significati.

Questa storia naturale del migrare sta scritta nella struttura più profonda della nostra specie e nella lunga storia di cui siamo figlie e figli. Non dovremmo mai dimenticarlo. Qua e là nell’Europa di oggi c’è chi cerca di dimenticarlo e farlo dimenticare. C’è chi alimenta la paura di altri nuovi e la sfrutta per carpire qualche voto. Capita perfino in Paesi che sono stati e sono Paesi di larga e civile ospitalità, dalla Francia ai Paesi scandinavi. E capita in Italia. Ma non capita in generale nelle nostre scuole.

Bisogna, per la verità, dire che lo sfruttamento a fini elettorali delle paure è cominciato in Italia relativamente tardi. Sergio Mattarella, ministro dell’Istruzione del sesto governo Andreotti, tra il 1989 e il 1991, mentre era ormai chiaro ai più attenti che l’Italia, antico Paese di emigrazione, stava diventando, anzi era diventata terra di immigrazione, emanò un primo testo normativo, una «circolare», indirizzata alle scuole perché predisponessero quanto era necessario all’accoglienza dei bimbi e ragazzi immigrati o figli di immigrati. Le scuole già erano su questa lunghezza d’onda e, anche se forse più nessuno ricorda quel benemerito atto, lo sono rimaste. E un altro tratto importante del ceto dirigente è il comportamento delle università, che dagli anni Novanta, e in qualche caso già anni prima, si sono attrezzate per studiare sistematicamente gli aspetti demografici, sociologici, linguistici e educativi della crescente immigrazione, da Pavia a Siena (l’Università per Stranieri), da Bergamo e Venezia (Università Ca’ Foscari) a Napoli e «Roma Tre», da Palermo all’udinese Centro per il Plurilinguismo, per ricordare almeno alcuni dei centri più attivi.

Vinicio Ongini va al concreto e viaggia attraverso le scuole italiane documentando difficoltà, scacchi e successi della scuola multiculturale. Chi, dall’informazione corrente, è frastornato da notizie di casi di xenofobia farebbe bene a seguirlo nel suo viaggio, a leggere i suoi concreti e suggestivi «casi di studio».

Non è l’unico aspetto per cui la scuola non si può dire che rifletta meccanicamente tendenze e umori appariscenti nella società o, per dir meglio, se riflette la società è capace di espungere e spurgare quanto c’è in essa di deteriore. Prendete il caso della lettura. Ormai dagli anni Sessanta possiamo seguire i progressi (lenti, è vero) dell’abitudine alla lettura nel nostro Paese. E a ogni indagine si verifica che bambini e giovani leggono assai più delle generazioni anziane. Le alte percentuali, quasi europee, di lettura di libri non scolastici tra ragazze e ragazzi declinano tra gli adulti che hanno varcato la soglia dei trent’anni. Queste percentuali positive non possono avere altra matrice che l’impegno educativo delle scuole. Oppure prendete il caso della comprensione dei testi. Fanno notizia, ma danno luogo a sciocchezze (anche di qualche ministro), i dati periodici che l’OCSE accerta e diffonde ogni tre anni sulle capacità di comprensione di testi tra i quindicenni. Alti lai perché il 40% dei ragazzi mostra difficoltà di comprensione. Certo, bisognerà che migliorino. Ma attenzione: gli adulti con analoghe difficoltà, tra i 18 e i 65 anni, non sono il 40%, sono una percentuale che, secondo l’ultima indagine comparativa internazionale, raggiunge e supera l’80%. Il doppio dei ragazzi a scuola. Se la scuola registrasse meccanicamente le (in)competenze degli adulti dealfabetizzati e non leggenti, le percentuali OCSE dovrebbero darci l’80% di ragazzi in difficoltà. Il 40% di scarto esprime l’enorme lavoro in salita che la nostra scuola sa fare e fa. Potrebbe aumentare se ci decidessimo a investire di più nella e per la scuola: di più in termini di finanziamento e di più in termini di attenzione simpatetica, circostanziata e fattiva come quella, esemplare, di Vinicio Ongini.

Se un rimprovero si può muovere alla nostra scuola è che non sempre essa è ben consapevole di quanto ha fatto, sa fare e fa per l’intero Paese. Il libro di Ongini, tra gli altri meriti, può essere d’aiuto, può stimolare il giusto orgoglio della nostra scuola pubblica.

19.9.08

Un intervento di Tullio De Mauro

Tratto da INTERNAZIONALE n. 762, 19 settembre 2008

FRANCESCO DE SANCTIS non fu solo un grande studioso di letteratura. A due riprese gli toccò il compito di ministro della pubblica istruzione. E sapeva bene cosa intendeva la volta che, scoraggiato, esclamò: "Chi parla di scuola in Italia è condannato all'eternità". Un secolo e mezzo dopo bisogna dire che questo non è più interamente vero. Vediamo perché.

Nell'enorme apparato dell'istruzione vi sono segmenti che negli ultimi quarant'anni hanno conosciuto un rinnovamento profondo con esiti positivi oggettivamente misurabili.

Il succo delle idee pedagogiche di Giuseppe Lombardo Radice, affidato nel 1913 alle sue Lezioni di didattica, e il confronto con le migliori scuole primarie di altri paesi hanno ispirato tra gli anni sessanta e ottanta un movimento di idee e di esperienze che si è tradotto nel 1985 in una radicale revisione dei programmi della scuola elementare, dei suoi metodi didattici e dell' organizzazione del lavoro. Fu merito del ministro Franca Falcucci evitare che tutto ciò restasse sulla carta e realizzare un aggiornamento a tappeto di tutti i già bravi insegnanti elementari. il risultato è scritto nelle indagini comparative internazionali: in uscita dalla scuola elementare gli alunni e le alunne delle nostre elementari si collocano per bravura ai primi posti nel mondo, tra i top ten e, talora, tra i top five. I provvedimenti restrittivi dell'attuale ministro rischiano di compromettere questi risultati, ma maestre e maestri hanno tutta l'aria di sapere comunque continuare sulla loro strada.

Ma questo è dir poco, se non si tiene conto del fatto che ancora negli anni cinquanta la maggioranza della popolazione adulta, il 59,2 per cento, non aveva la licenza elementare. Nei nostri anni la scuola elementare ha saputo diventare la scuola del 100 per cento delle bambine e dei bambini e ciò in stretto legame con il profondo rinnovamento dei contenuti e dei metodi.

Modello planetario

L'espansione quantitativa delle elementari e il loro successo si legano a due altri fatti innovativi e positivi. La scuola prevalementare pubblica, statale e comunale, dagli anni sessanta in poi ha fatto grandi passi in avanti nel suo progressivo diffondersi, accanto alle scuole private religiose. Documenti importanti ne hanno regolato la vita. L'organizzazione delle scuole dell'infanzia di Reggio Emilia, progettate da un uomo geniale, Loris Malaguzzi, si è imposta come un modello da seguire, un modello di riconosciuta eccellenza planetaria. Generalizzare del tutto la scuola dell'infanzia resta un obiettivo, pur non lontano, ancora da raggiungere. Ma, rispetto a cento o cinquanta anni fa, il salto in positivo è stato enorme e in molte parti d'Italia ha spianato la via alla scuola elementare.

Altro grande fatto innovativo, che De Sanctis non poteva immaginare, è stato l'allineamento all'Europa nel creare una scuola di base unitaria per "almeno otto anni". Nel 1939 questo era stato un progetto già del ministro fascista Giuseppe Bottai, ma fu travolto dalla guerra. Nel 1948 la costituzione sancì gli "almeno otto anni" di istruzione. Dovettero passare quindici anni perché la media unificata decollasse e altri quindici perché nuovi programmi la mettessero all'altezza dei suoi compiti nuovi di scuola di tutte e tutti. Mancò e manca tuttavia un riassetto della formazione degli insegnanti pari a quello conosciuto nelle elementari. Si stima che tra il 18 e il 25 per cento dei ragazzi che terminano le medie inferiori abbia gravi lacune e, in aggiunta, una percentuale consistente non raggiunge la licenza media. Diversamente dalle scuole dell'infanzia e dalle elementari, la scuola media funziona a regime ridotto.

L'eternità di Francesco De Sanctis si riaffaccia e ci soffoca se si guarda alla scuola secondaria superiore. Qualcuno, per parere informato, parla di "scuola gentiliana". In realtà, la deep structure della secondaria fu concepita da studiosi e intellettuali liberali e socialisti ai primi del novecento. Giovanni Gentile, legato culturalmente a quei gruppi, ebbe la possibilità di tradurla in una riorganizzazione d'insieme durante il primo gabinetto Mussolini (1922-1925). Forse era una cattiva scuola, come con veemenza sostenne Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere, destinata a perpetuare l'immobilità sociale del paese. Forse non era malvagia, come pensano i laudatores da pagina culturale. Certo era una scuola pensata per quelle percentuali esigue di popolazione che, raggiunto il tetto delle elementari, riuscivano a proseguire verso le secondarie: figli (più che figlie) dei ceti borghesi già istruiti. A questi si offrivano due canali: uno alto, i licei, e uno mediobasso, gli istituti tecnici.

I successori di Gentile, ritiratosi dopo il delitto Matteotti, provvidero subito a manomettere l'impianto gentiliano, cominciando a creare quel vero dedalo di opzioni e percorsi e diplomi di cui è incerto perfino il numero (1207) che caratterizza la secondaria superiore italiana. Qua e là singole sezioni e interi istituti, dal liceo Ariosto di Ferrara al Vittorio Emanuele di Palermo, dal Mamiani di Roma al Parini di Milano, sfruttando la concessione di sperimentazioni ammesse dagli anni ottanta, realizzano isole di eccellenza. Ma al di fuori di poche aree (Trento, Val d'Aosta) le indagini comparative internazionali e gli studi più attenti (come quelli di Giancarlo Gasperoni o Benedetto Vertecchi) segnalano la mancanza di uno standard decente nei risultati e cadute di livello che si vorrebbero dire inammissibili. Ma ci sono.

Il fatto è che le classi politiche che si sono succedute dal dopoguerra a oggi non hanno saputo mettere mano alla realizzazione di un ripensamento radicale di contenuti e metodi della scuola superiore. C'è una novella di Pirandello che mette in fila i verbali del consiglio comunale di Milocca in cui dal 1880 al 1930 si discusse di come portare l'energia elettrica nel comune senza mai portarla. La secondaria superiore è la Milocca della nostra scuola. Chi legge le denunce fatte dai primi del novecento sul pessimo stato d'insegnamenti e apprendimenti di matematica, italiano, latino, può cambiare le date e assumerle come documenti di oggi e condirle con i tristi numeri delle statistiche comparative internazionali che si succedono dal 1971 e che solo negli ultimi due o tre anni ottengono un po' d'attenzione nella stampa.

Tutto è cambiato dai primi del novecento: i saperi, le tecniche, le professioni, gli assetti sociali e produttivi. La Milocca liceale resta quella pensata cent'anni fa per i giovinetti di civil condizione. Ora finalmente è affollata, come nelle altre parti del mondo, dalla quasi totalità delle leve anagrafi che. Ma, diversamente che in altre parti del mondo, i ragazzi vengono da famiglie senza libri a casa per 1'80 per cento, senza abitudine alla lettura di libri e giornali per il 60 o 70 per cento, con gravi fenomeni di analfabetismo di ritorno per il 70 o 80 per cento. Spiegare a tutti Cartesio o gli integrali è una mission impossible. Non usciremo da Milocca senza renderci conto di ciò e senza porvi riparo, come avviene nel resto d'Europa, con un sistema nazionale di educazione degli adulti.

27.8.08

De Mauro: scuola, Sud indietro di secoli

«Magari fosse di due anni il ritardo che separa il Sud dal Nord nell'istruzione: in realtà è un ritardo epocale. Accumulato grazie a un'intera classe politica». Tullio De Mauro, linguista, intellettuale di sinistra ed ex ministro della Pubblica istruzione nel governo Amato 2, interviene nel dibattito sulle dichiarazioni del ministro Maria Stella Gelmini con un'analisi destinata a far discutere, soprattutto nell'opposizione. L'analisi è il frutto di un suo studio sui «dislivelli linguistici».
L'opposizione accusa il ministro Gelmini di bistrattare i professori del Sud. La maggioranza lo difende perché mette in luce i mali della scuola.
«La contrapposizione segue un'uscita poco felice del ministro, peraltro subito rettificata. Ma non mi pare di veder delinearsi due politiche alternative che mettano l'istruzione al centro dello sviluppo della società italiana».
Secondo l'Ocse Pisa, nel Nordest gli studenti sono sopra la media, mentre al Sud scendono a meno 70. Per il presidente dell'Invalsi Piero Cipollone, il gap equivale a un ritardo di 2 anni.
«Magari. Cipollone viene dall'Ufficio Studi di Bankitalia, raro centro d'attenzione ai problemi dell'investimento in cultura. Purtroppo lui e i sostenitori dell'ipotesi "due anni di ritardo" sono ottimisti. Il Sud conosce punte di eccellenza, certo, ma questo non c'entra. Dove gli allievi non raggiungono lo standard il ritardo non è misurabile in anni: è un ritardo epocale».
Nel suo saggio sui dislivelli linguistici, lei traccia un quadro ben più allarmante di quello descritto dalla Gelmini.
Secondo ricerche internazionali attendibili infatti un terzo degli italiani risulta completamente analfabeta e un altro terzo rischia di diventarlo.
«Con Saverio Avveduto, presidente dell'Unione Nazionale Lotta contro l'Analfabetismo, abbiamo spesso ricordato la regola del "meno cinque". Da adulti, se le conoscenza acquisite a scuola non vengono tenute attive, regrediamo di 5 anni rispetto ai livelli massimi raggiunti in gioventù. Apriamo i fascicoli dell'Istat sulla lettura e l'annuario Observa sulla cultura scientifica e scopriamo che i lettori veri sono il 30% della popolazione. Gli stili di vita e la mancanza di istituzioni adeguate (come i centri di pubblica lettura) tolgono agli adulti, anche i pochi laureati, il gusto di imparare cose nuove».
Un altro aspetto del suo saggio che colpisce è il divario tra la scuola elementare italiana — considerata «eccellente » nel confronto internazionale — e la scuola superiore. A che cosa si deve questo gap?
«A due ragioni. La prima: le famiglie riescono a seguire il cammino scolastico dei figli fino alle elementari. Poi vanno in tilt. La seconda: la scuola elementare negli anni Ottanta ha conosciuto una profonda riforma di contenuti e metodi, probabilmente l'unica, realizzata dal ministro democristiano Franca Falcucci mediante un grande ciclo di ri-formazione degli insegnanti elementari».
E per la scuola superiore?
«Tanto chiasso, ma nessuna riforma è mai stata realizzata, anche se nell'opinione pubblica si è fissata l'idea che di riforme ne siano state fatte a decine. Proprio no: salvo sperimentazioni e tentativi, la scuola superiore è rimasta ferma alla riforma Gentile».
Che cosa servirebbe?
«Innanzitutto un sistema di istruzione permanente degli adulti. Inoltre la diffusione di biblioteche e centri di lettura. Proprio come in Trentino e Val d'Aosta: guarda caso le due aree che tirano in alto i dati Ocse della scuola del Nord».
Edoardo Segantini
corriere.it

6.6.08

L'Italia e gli zingari

“E a proposito di rom”: nell’organizzazione favolistica che i telegiornali
danno al succedersi delle notizie (se così possono chiamarsi)
negli ultimi giorni almeno tre volte è capitato di sentire
questa frase usata per legare tra loro fatti di varia luttuosità e violenza
privi, nei tre casi, di un nesso specifico con gli zingari (in
un paio con rumeni e immigrati). Anche questo è un modo mascalzonesco
per ispessire il sordido zoccolo di pregiudizi su cui
sembra poggiare oggi il nostro paese, e che non da oggi è il
fondaccio da cui germinano imprese criminali di discriminazione
e persecuzioni. Ma oggi lo zoccolo sembra aver raggiunto
uno spessore senza precedenti. Un anno fa, dopo la morte dei
quattro bimbi zingari nell’accampamento di Livorno, SkyTg24
promosse un sondaggio. Si chiedeva: “Infuria la
polemica sui campi nomadi. Secondo te i rom
nelle nostre comunità vanno integrati o isolati?”.
“Isolati”, rispose il 79 per cento; “integrati”, il restante
21 per cento. Ora, un anno dopo, O Vurdòn,
un sito di cultura romanì curato da Sergio
Franzese, professore di sociologia a Lecce, pubblica
un sondaggio della Stampa tra i suoi lettori
(un’élite, per regione, censo, abitudine alla lettura):
“Siete d’accordo con il progetto, adottato dal
comune di Torino, di aiutare i nomadi in regola
con il permesso di soggiorno a trovare casa concedendo,
come avviene per altri cittadini, sgravi
dell’Ici al proprietario che accetta il contratto?”. È bello sapere
che un comune italiano si comporta in modo civile. Meno belle
sono le risposte (pubblicate il 13 maggio): solo il 15 per cento si
è detto d’accordo, l’85 per cento si è detto contrario.
È un paradosso nazionale, uno di quelli che rendono dificilmente
leggibile il nostro paese. In Europa l’Italia è di gran
lunga il paese con il più alto indice di diversità linguistica nativa:
ha una presenza ancora viva dei diversi dialetti tra il 60 per
cento della popolazione, ha 14 minoranze linguistiche di antico
insediamento (due milioni di persone) e solo di recente ha
adottato un’unica lingua, l’italiano, nell’uso parlato quotidiano.
Non è solo un dato sociologico-linguistico. Come vide uno
dei nostri massimi studiosi del novecento, Gianfranco Contini,
questa diversità è “visceralmente” unita al costruirsi della tradizione
letteraria italiana. Non solo: prima di ogni convenzione
internazionale, l’articolo 6 della costituzione del 1948 volle dare
spazio e riconoscimento alla diversità delle minoranze linguistiche.
Questa diversità non è nata oggi o solo da qualche secolo. Se
anche altri paesi d’Europa e del mondo sono stati attraversati
da ondate di migranti d’altre lingue e stirpi, l’Italia, più di ogni
altro (un paragone forse è l’India), i migranti li ha accolti. Per la
sua geograia tormentata e fratta ha offerto loro nicchie e plaghe
più estese già dalla preistoria, ha lasciato che si fondesserono tre volte è capitato di sentire
questa frase usata per legare tra loro fatti di varia luttuosità e violenza
privi, nei tre casi, di un nesso speciico con gli zingari (in
un paio con rumeni e immigrati). Anche questo è un modo mascalzonesco
per ispessire il sordido zoccolo di pregiudizi su cui
sembra poggiare oggi il nostro paese, e che non da oggi è il
fondaccio da cui germinano imprese criminali di discriminazione
e persecuzioni. Ma oggi lo zoccolo sembra aver raggiunto
uno spessore senza precedenti. Un anno fa, dopo la morte dei
quattro bimbi zingari nell’accampamento di Livorno, SkyTg24
promosse un sondaggio. Si chiedeva: “Infuria la
polemica sui campi nomadi. Secondo te i rom
nelle nostre comunità vanno integrati o isolati?”.
“Isolati”, rispose il 79 per cento; “integrati”, il restante
21 per cento. Ora, un anno dopo, O Vurdòn,
un sito di cultura romanì curato da Sergio
Franzese, professore di sociologia a Lecce, pubblica
un sondaggio della Stampa tra i suoi lettori
(un’élite, per regione, censo, abitudine alla lettura):
“Siete d’accordo con il progetto, adottato dal
comune di Torino, di aiutare i nomadi in regola
con il permesso di soggiorno a trovare casa concedendo,
come avviene per altri cittadini, sgravi
dell’Ici al proprietario che accetta il contratto?”. È bello sapere
che un comune italiano si comporta in modo civile. Meno belle
sono le risposte (pubblicate il 13 maggio): solo il 15 per cento si
è detto d’accordo, l’85 per cento si è detto contrario.
È un paradosso nazionale, uno di quelli che rendono difficilmente
leggibile il nostro paese. In Europa l’Italia è di gran
lunga il paese con il più alto indice di diversità linguistica nativa:
ha una presenza ancora viva dei diversi dialetti tra il 60 per
cento della popolazione, ha 14 minoranze linguistiche di antico
insediamento (due milioni di persone) e solo di recente ha
adottato un’unica lingua, l’italiano, nell’uso parlato quotidiano.
Non è solo un dato sociologico-linguistico. Come vide uno
dei nostri massimi studiosi del novecento, Gianfranco Contini,
questa diversità è “visceralmente” unita al costruirsi della tradizione
letteraria italiana. Non solo: prima di ogni convenzione
internazionale, l’articolo 6 della costituzione del 1948 volle dare
spazio e riconoscimento alla diversità delle minoranze linguistiche.
Questa diversità non è nata oggi o solo da qualche secolo. Se
anche altri paesi d’Europa e del mondo sono stati attraversati
da ondate di migranti d’altre lingue e stirpi, l’Italia, più di ogni
altro (un paragone forse è l’India), i migranti li ha accolti. Per la
sua geografia tormentata e fratta ha offerto loro nicchie e plaghe
più estese già dalla preistoria, ha lasciato che si fondessero
con le popolazioni già insediate fino in buona parte a dissolversi
in esse lentamente e lasciando tracce soltanto nella varietà
delle parlate. Quest’è l’Italia, un melting pot storico millenario,
che potrebbe, che dovrebbe avere la fierezza di questa sua diversità
interna, costitutiva. E invece non ce l’ha.
Le mezzecalzette intellettuali non risparmiano silenzi e
ostilità per la diversità linguistica. La povera gente, ma anche
parte dei ceti benestanti, le segue, da Udine a Livorno, da Napoli
a Milano. Nel paese delle reali diversità storiche
e linguistiche l’ostilità soffia verso tutto ciò
che appare diverso: perfino le varietà d’uso dell’italiano,
perfino i dialetti nazionali ne vengono
colpiti e, poi, a crescere, le minoranze linguistiche
di antico insediamento, le minoranze di nuova
immigrazione e, su tutti e più di tutti, gli zingari.
Ai molti di loro che, come i loro fratelli, cercano
una residenza stabile e si sedentarizzano, dal Piemonte
al Molise, non si perdona di non essere più
nomadi e a chi di loro è ancora vagante non si perdona
il nomadismo. Privi di uno standard scritto
unitario, le loro parlate sono molteplici e mal afferrabili.
Orrore, orrore nel paese degli analfabeti. Li teniamo
ai margini e però rimproveriamo loro di essere marginali.
In romanì, cioè nelle parlate zingare, porajmos “devastazione”
designa per eccellenza il tentativo nazista di sterminare nei
lager gli zingari già perseguitati da tempo (perseguitati anche
dal nostro patrio fascismo, come hanno mostrato gli studi di
Mirella Karpati, Giovanna Boursier e altri). È l’equivalente di
shoah. Si calcola che mezzo milione di zingari d’ogni paese ne
siano stati vittima. La tentazione del porajmos è tra noi, non
sottovalutiamola. Rimbalza in internet in questi giorni una
vecchia poesia attribuita da alcuni a Bertolt Brecht, ma che in
realtà è del pastore Martin Niemöller, morto pochi anni fa. Anche
il testo circola con delle varianti, ma il senso comunque è
chiaro. Ritraducendo dal tedesco: “Quando presero gli ebrei,
non dissi niente; non ero in effetti un ebreo./ Quando presero
gli zingari, non dissi niente: non ero in effetti uno zingaro./
Quando presero i comunisti, non dissi niente, mica ero comunista./
Quando presero gli omosessuali, non dissi niente: mica
ero un omosessuale./ Quando presero i socialisti, non dissi nulla:
non ero un socialista./ Quando presero me, non c’era più
nessuno che avrebbe potuto dire qualcosa”
internazionale.it

13.3.08

Analfabeti d’Italia

di Tullio De Mauro (Internazionale)

Un’analisi terrorizzante della capacità degli italiani di comprendere ciò che viene scritto e detto. Un pericolo per la democrazia?

"Cinque italiani su cento tra i 14 e i 65 anni non sanno distinguere una lettera da un'altra, una cifra dall'altra. Trentotto lo sanno fare, ma riescono solo a leggere con difficoltà una scritta e a decifrare qualche cifra. Trentatré superano questa condizione ma qui si fermano: un testo scritto che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quotidiana, è oltre la portata delle loro capacità di lettura e scrittura, un grafico con qualche percentuale è un'icona incomprensibile. Secondo specialisti internazionali, soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea. Questi dati risultano da due diverse indagini comparative svolte nel 1999-2000 e nel 2004-2005 in diversi paesi. Ad accurati campioni di popolazione in età lavorativa è stato chiesto di rispondere a questionari: uno, elementarissimo, di accesso, e cinque di difficoltà crescente. Si sono così potute osservare le effettive capacità di lettura, comprensione e calcolo degli intervistati, e nella seconda indagine anche le capacità di problem solving. I risultati sono interessanti per molti aspetti. Sacche di popolazione a rischio di analfabetismo (persone ferme ai questionari uno e due) si trovano anche in società progredite. Ma non nelle dimensioni italiane (circa l'80 per cento in entrambe le prove). Tra i paesi partecipanti all'indagine l'Italia batte quasi tutti. Solo lo stato del Nuevo Léon, in Messico, ha risultati peggiori. I dati sono stati resi pubblici in Italia nel 2001 e nel 2006. Ma senza reazioni apprezzabili da parte dei mezzi di informazione e dei leader politici.
Nelle ultime settimane, però, alcuni mezzi di informazione hanno parlato con curiosità del fatto che parecchi laureati italiani uniscono la laurea a un sostanziale, letterale analfabetismo. Questa curiosità vagamente moralistica è meglio di niente? No, non è meglio, se porta a distrarre l'attenzione dalla ben più estesa e massiccia presenza di persone incapaci di leggere, scrivere e far di conto (quello che in inglese chiamiamo illiteracy e innumeracy e in italiano diciamo, complessivamente, analfabetismo). È notevole che l'analfabetismo numerico (l'incapacità di cavarsela con una percentuale o con un grafico) non abbia neanche un nome usuale nella nostra lingua.
È grave non saper leggere, scrivere e far di conto? Per alcuni millenni - dopo che erano nati e si erano diffusi sistemi di scrittura e cifrazione - leggere, scrivere e far di conto furono un bene di cui si avvantaggiava l'intera vita sociale: era importante che alcuni lo sapessero fare per garantire proprietà, conoscenze, pratiche religiose, memorie di rilievo collettivo, amministrazione della giustizia. Ma nelle società aristocratiche a base agricola, purché ci fossero alcuni letterati, la maggioranza poteva fare tranquillamente a meno di queste capacità. I saperi essenziali venivano trasmessi oralmente e perfino senza parole. Anche i potenti potevano infischiarsene, purché disponessero di scribi depositari di quelle arti. Carlo v poteva reggere un immenso impero, ma aveva difficoltà perfino a fare la firma autografa. Le cose sono cambiate in tempi relativamente recenti almeno in alcune aree del mondo. Dal cinquecento in parte d'Europa la spinta della riforma protestante, con l'affermarsi del diritto-dovere di leggere direttamente Bibbia e Vangelo senza mediazioni del clero, si è combinata con una necessità creata dal progredire di industrializzazione e urbanizzazione: quella del possesso diffuso di un sapere almeno minimo. In seguito è sopravvenuta l'idea che tutti i maschi abbienti, poi tutti i maschi in genere, infine perfino le donne, potessero avere parte nelle decisioni politiche. La "democrazia dei moderni" e i movimenti socialisti hanno fatto apparire indispensabile che tutti imparassero a leggere, scrivere e far di conto. Il solo saper parlare non bastava più. E in quelle che dagli anni settanta del novecento chiamiamo pomposamente "società postmoderne" o "della conoscenza”; leggere, scrivere e far di conto servono sempre, ma per acquisire livelli ben più alti di conoscenza necessari oggi all'inclusione, anzi a sopravvivere in autonomia.
L'analfabetismo italiano ha radici profonde. Ancora negli anni cinquanta il paese viveva soprattutto di agricoltura e poteva permettersi di avere il 59.2 per cento della popolazione senza titolo di studio e per metà totalmente analfabeta (come oggi il 5 per cento). Fuga dai campi, bassi costi della manodopera, ingegnosità (gli "spiriti vitali" evocati dal presidente Napolitano) lo hanno fatto transitare nello spazio di una generazione attraverso una fase industriale fino alla fase postindustriale. Nonostante gli avvertimenti di alcuni (da Umberto Zanotti Bianco o Giuseppe Di Vittorio a Paolo Sylos Labini), l'invito a investire nelle conoscenze non è stato raccolto né dai partiti politici né dalla mitica "gente". Secondo alcuni economisti il ristagno produttivo italiano, che dura dagli anni novanta, è frutto dei bassi livelli di competenza. Ma nessuno li ascolta; e nessuno ascolta neanche quelli che vedono la povertà nazionale di conoscenze come un fatto negativo anzitutto per il funzionamento delle scuole e per la vita sociale e democratica".