Le spese per il personale sono passate in cinque anni da 5,7 a 8 miliardi
Il caso limite di Celano, sui monti della Marsica: un corso di ingegneria agroindustriale con 7 prof per 17 ragazzi
Zero, zero, zero, zero, zero... È tutta lì, la fotografia della follia dell'Università italiana. Nella ripetizione per 33 volte, nella casella «immatricolati» di altrettanti «atenei» distaccati, del numero «0». Neppure un nuovo iscritto. Manco uno. Prova provata che la decisione megalomane e cocciuta di volere a tutti i costi almeno un corso di laurea sotto il campanile era totalmente sballata. Il dato, che conferma le denunce più allarmate, è contenuto nel Rapporto annuale 2008 sul nostro sistema universitario.
Il rapporto (i cui dati sono del 2007, qua e là aggiornati fino alla primavera scorsa) viene presentato oggi da Mariastella Gelmini. E possiamo scommettere che accenderà un dibattito infuocato. Perché delle due l'una: o queste cifre sono corrette (e se è così in molti casi serve un lanciafiamme) o lo sono solo in parte. E in questo caso il quadro sarebbe paradossalmente ancora più grave. Ogni numero del documento, infatti, risulta ufficialmente fornito alla banca dati del Miur dagli stessi atenei. Il rapporto, si capisce, offre una carrellata su un sacco di cose. Dice che gli studenti stranieri sono al massimo il 7,1% (a Trieste) e si inabissano allo 0,1 a Messina. Riconosce che la spesa media per ogni giovane iscritto negli atenei statali è di 8.032 euro contro i 15.028 che vengono spesi in Austria o i 23.137 in Svizzera. Spiega che siamo «al terzo posto al mondo, e addirittura al primo in Europa, per accessibilità, cioè per il numero di università (e relativi studenti) che si trovano tra le prime 500 università», ma che al contrario scivoliamo al 30˚ «per Flagship, ovvero per la qualità delle primissime università». Denuncia che le spese per il personale sono passate dal 2001 al 2006 da 5 miliardi e 764 milioni di euro a quasi 8 miliardi. Annota che l'età media dei docenti si è inesorabilmente alzata ancora.
LE CLASSIFICHE Riporta le classifiche mondiali elaborate dalla Quacquarelli Symonds, secondo le quali abbiamo solamente 10 università nelle prime 200 d'Europa (contro 47 del Regno Unito, 37 della Germania, 19 della Francia o 12 dell'Olanda, che ha un quarto dei nostri abitanti) e per di più queste, ad eccezione del Politecnico di Milano, di Padova e della Federico II di Napoli, perdono nel 2008 nuove posizioni rispetto alla già scoraggiante hit-parade dell'anno precedente. I numeri più impressionanti, però, sono forse quelli che dimostrano l'assurdità della moltiplicazione di «città universitarie». Cioè di paesotti, borghi e contrade a volte microscopici che hanno fortissimamente voluto qualcosa che potesse definirsi «universitario» come simbolo di riscatto o di promozione sociale alla pari di uno svincolo autostradale o di una circonvallazione. Una mania ridicolizzata dal costituzionalista Augusto Barbera con una battuta irresistibile: «Sogno di trovare all'ingresso dei paesi il cartello "comune de-universitarizzato"».
Un esempio per tutti? Poggiardo, seimila anime tra Maglie e Santa Cesarea Terme, in provincia di Lecce, dove il sindaco Silvio Astore non si è dato pace finché non ha avuto un distaccamento della Lum, Libera università mediterranea: «Il nostro paese è oramai una meravigliosa realtà accademica d'eccellenza e concorre a pieno titolo a un rilancio culturale del tessuto socioeconomico del territorio». Dice dunque il Rapporto annuale del ministero, liquidando questi «napoleonismi» campanilistici, che su 239 «città universitarie» inserite nel «catalogo» (anche se i conti non tornano con altri studi, come quello di Salvatore Casillo, Sabato Aliberti e Vincenzo Moretti, tre docenti salernitani autori mesi fa di un censimento che aveva contato 251 comuni che ospitavano almeno un corso di laurea) molte esistono ormai solo sulla carta. E dopo essere appassite in una manciata di anni, risultano somigliare a certi Enti Inutili che si trascinano dietro pendenze varie che ne ostacolano l'immediata soppressione.
SENZA STUDENTI Numeri ufficiali alla mano, 42 «atenei» hanno meno di cinquanta immatricolati, 20 ne hanno meno di venti (Moncrivello, Bisceglie e Pescopagano 12, Caltagirone e Andria 11, Figline Valdarno 5, Trani uno solo) e trentatré, come dicevamo all'inizio, non hanno più un solo studente che si sia aggiunto agli iscritti precedenti. Iscritti che in rari casi erano abbastanza numerosi (esempio: 480 ad Acireale), ma nella grande maggioranza dei casi erano già talmente pochi da fare impallidire chi si era incaponito sulla voglia di aprire una sede che potesse dirsi «universitaria». Venticinque studenti in totale al corso di «Tecniche erboristiche» a Bivona (dove non ci sono mense né pensionati né postazioni Internet né laboratori né biblioteche), 41 a Sanluri, che coi suoi 8.519 abitanti è il capoluogo della provincia sarda di Medio Campidano, 11 nell'emiliana Varzi, 4 a Corigliano Calabro e nella siciliana Vittoria. E poi un solo sopravvissuto a Spoleto, Città della Pieve, San Casciano in Val di Pesa... Al di là di questo e quel caso singolo, più o meno tragico o ridicolo, è un po' tutto il sistema da riformare. Lo dice, ad esempio, il presidente della Provincia di Agrigento Eugenio D'Orsi. Il quale, in crisi coi conti, ha sparato a zero sul modo in cui è stato costruito il polo universitario agrigentino, legato a quello di Palermo, dicendo che è del tutto «superfluo avere ben 17 corsi di laurea uno dei quali addirittura con un solo studente». Tanto più che un docente portato a insegnare nella valle dei Templi costa quasi il triplo più che nella città di santa Rosalia.
«MODELLO CELANO» - Al «modello Celano» è stata dedicata qualche settimana fa un'inchiesta del Messaggero. Che si è chiesto che senso avesse mettere su, in un «borgo montano sperduta nel nulla » con le aule affacciate sui monti della Marsica, un corso di laurea in Ingegneria Agro-Industriale. Corso partito quest'anno con 17 matricole e 7 professori. Uno ogni due studenti. Il tutto finanziato («Noi non ci rimettiamo un euro», ci tiene a spiegare il rettore dell'Università dell'Aquila Ferdinando di Orio) da un Consorzio voluto dal Comune, banche e alcune aziende locali. Il record però, probabilmente, è di Sorgono, un paese sardo che coi suoi 1.949 abitanti è meno popolato di certi palazzoni popolari nelle periferie delle metropoli. Senza una facoltà proprio non riusciva a stare. Adesso c'è un corso di laurea in Informatica. Se dovesse non essere sufficiente (nessun immatricolato nuovo, ma i vecchi iscritti sono 38: wow!), il panorama nazionale è in grado di suggerire un mucchio di corsi alternativi. Tra le migliaia e migliaia già offerti ai più fantasiosi studenti italiani, almeno alcuni meritano una segnalazione: «Scienze e Tecnologie del Fitness e dei Prodotti della Salute», «Scienze del Fiore e del Verde», «Etologia degli Animali d'Affezione»...
Gian Antonio Stella
corriere.it
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