17.7.09

Unire le forze, ma per fare che cosa?

di Alberto Burgio

La discussione aperta dal manifesto sull'unità a sinistra è importante e necessaria. La frammentazione delle forze di alternativa è un dramma, e chi non lo intende mostra di vivere lontano mille miglia dai reali problemi di chi campa (sempre più stentatamente) di salario o di quanti (sempre più numerosi) non dispongono più di un pur magro e aleatorio reddito da lavoro. È molto probabile che, continuando di questo passo, quel poco che ancora è in piedi a sinistra in questo Paese venga spazzato via, aggravando una crisi di inaudita gravità. Detto ciò, le battute iniziali di questa discussione appaiono deludenti. Posto che la frammentazione è una iattura, si risponde - come per un riflesso condizionato - con un vibrante appello all'unità basato su una premessa molto discutibile. La divisione della sinistra sarebbe tutta colpa dei partiti e dei loro gruppi dirigenti, descritti come una miserabile nomenclatura di mestieranti e burocrati. Siamo alla riproposizione di un rozzo codice ideologico, impostosi negli anni Ottanta, quando maturava la crisi storica dei grandi partiti di massa e si preparava il collasso del Pci. Da una parte il «Paese legale» (le istituzioni della politica come cappa oppressiva e luogo di malaffare); dall'altra, il «Paese reale» (la beneamata società civile, fonte di istanze sistematicamente frustrate). Come se la società non fosse anche la culla del peggio; come se qualche cerbero interdicesse ai virtuosi l'accesso alla politica; come se la politica fosse una qualità dell'essere e non il modo di operare della società nello svolgimento di determinate funzioni. Possibile che questo schema abbia ancora seguito a sinistra, dopo aver favorito il dilagare dell'antipolitica e della sottocultura berlusconiana e leghista? Anni fa mi capitò di obiettare a un suo esagitato fautore che le sue critiche avrebbero guadagnato credibilità se lui si fosse impegnato a migliorare le cose entrando in un partito e battendosi per emendarne i maggiori difetti. Mi rispose che non aveva tempo da perdere in futili discussioni. Oggi costui non protesta, essendo finalmente riuscito a farsi eleggere da uno dei partiti contro i quali scagliava roventi anatemi. Dunque occorre unire le forze della sinistra. Il punto è che allora dovremmo cominciare col dire perché: per fare che cosa e su che base. Sinistra, di per sé, significa ben poco. O troppo, visto che ognuno la definisce a modo suo e non è detto che tutti questi modi siano armonizzabili. Insomma, si tratta di muoversi in direzione opposta a quella «sinistra senza aggettivi» che serve solo ad assemblare cartelli elettorali e a preparare nuovi disastri. L'affermazione più sorprendente in questa discussione l'ha fatta Luigi Ferrajoli, convinto che non sussistano, a sinistra, significative differenze culturali e politiche. Questa tesi serve a sostenere che tutto il male (le divisioni) viene da quei mediocri (o loschi) figuri che guidano i partiti. Serve anche a mettere fuori gioco, prima ancora di cominciare, le posizioni che non si condividono (che legittimità hanno, posto che di differenze «rilevanti» non ce n'è?). Senonché mi pare che le cose stiano in modo totalmente opposto. L'anno scorso, quando Rifondazione comunista andava a congresso, scrissi (suscitando qualche meraviglia) che il vero terreno dello scontro erano le diverse culture politiche presenti in quel partito. Da una di esse ritenevo derivasse la volontà di dissolverlo che - come si è visto - animava una parte del gruppo dirigente. Oggi ne sono ancora più convinto. Alla base della diaspora della sinistra sta il nodo che viene stringendosi da tre decenni a questa parte: il nodo del comunismo e della sua attualità, da alcuni affermata, da altri recisamente negata. È stupefacente che in Italia, dopo trent'anni di neoliberismo, dopo la distruzione del Pci e l'eclisse della sinistra moderata, dopo lo sfondamento capitalista sui diritti del lavoro e sulla democrazia, di tutto si parli meno che della decisione di gran parte della sinistra politica e intellettuale di impegnarsi a cancellare il comunismo dalla scena pubblica di questo Paese. Come nella migliore tradizione, questo rimosso ritorna. Esige di essere affrontato. Invece si sfugge, implicitamente attribuendo ragione a quella decisione. Su questa base, quale unità a sinistra si ritiene possibile? Il comunismo. Oggi tutti assicurano di ritenere «centrale» la questione del lavoro. È di questo avviso persino il ministro Sacconi. Ma che cosa si intende con queste parole? Chi si dichiara ancora comunista e pensa che la ricostruzione di una grande forza comunista in Italia e in Europa sia necessaria per sconfiggere la destra e riprendere una battaglia di civiltà dopo il lungo inverno neoliberista dà loro un significato ben preciso sul quale varrebbe la pena di confrontarsi senza espedienti diplomatici, ponendo fine a discussioni astratte fini a se stesse. Muove dalla critica al modo di produzione, considerando inderogabili, oggi come ieri, le domande poste dalle lotte degli anni Sessanta e Settanta sul come e che cosa produrre; ritiene irrinunciabile l'autonomia del lavoro (il controllo del lavoro su se stesso), per cui respinge la riscrittura neocorporativa della contrattazione, concertazione compresa; considera non negoziabile la tutela del reddito, dalla scala mobile alla generalizzazione del salario sociale; pone in cima all'agenda politica lo smantellamento della legislazione nazionale ed europea che scarica sul lavoro le rigidità del capitale in termini di precarietà, sotto-occupazione, bassi salari e attacco al welfare. In una battuta, chi si dichiara ancora comunista pensa che si può muovere nella direzione giusta solo gettando tutta la propria forza nel conflitto di lavoro e riassumendo - per dirla con Luciano Gallino - la prospettiva di classe abbandonata da gran parte della sinistra italiana ed europea in questi ultimi vent'anni. Siamo tutti d'accordo? Se così fosse, non ci spiegheremmo pressoché nulla di quanto è successo - per rimanere al recente passato - nei due anni di Prodi. Ad ogni modo, è questa la materia di cui oggettivamente si tratta. Il resto è divagazione. Tutt'al più buona - come dicevano i nostri maggiori - per incartare il pesce.

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