22.2.10

Canzoni vox polpuli, metafora di un paese

di PAOLO POMBENI
Si può prendere un evento ludico come il Festival di Sanremo per fare una riflessione su come abbiamo ridotto il concetto di “democrazia”? La sproporzione potrebbe sembrare evidente, ma non è esattamente così, visto che questi eventi hanno più capacità di presa sul pubblico di tante lezioni che si potrebbero fare (e che, peraltro, non si fanno). E poi, la vicenda di cui vogliamo occuparci va oltre il Festival della canzone italiana, perché riguarda un costume ormai invalso e che si va sempre più espandendo. Intendiamo riferirci al “televoto”, che sabato sera ha fatto arrabbiare un bel po’ di pubblico, compresi gli orchestrali, che da brava gente del mestiere non ce l’ha fatta a mandare giù le bizzarrie di risultati che hanno tenuto così scarso conto dei meriti oggettivi di canzoni e interpretazioni in gara. Si dirà: ma in fondo si tratta della famosa vox populi che, pur non essendo più ritenuta quella di Dio, va comunque rispettata in quanto tale accettando che risponda a parametri propri. Ma è davvero tutto così semplice?
La prima domanda che bisogna porsi è quanto autentica sia un’espressione di voto affidata al telefono e media analoghi. La garanzia di non manipolabilità dell’espressione della volontà popolare è, come sanno tutti quelli che si occupano di queste cose, essenziale per valutare la credibilità di un verdetto elettorale: tutti sanno che le dittature, avendo a disposizione molti strumenti per manipolare il voto, raccolgono sempre percentuali altissime a loro favore. Ora non occorre fare chissà quali riflessioni per capire che i voti affidati al telefono non sono controllabili: la stessa persona ne può dare molti, si possono comprare le persone che li danno, e via dicendo.
Le problematiche non si fermano qui. Il secondo requisito che si dovrebbe chiedere ad ogni voto è che sia un voto “consapevole”. Immaginiamo facilmente l’obiezione: non è così neppure nel voto politico, quando il numero delle persone che votano non per ragionamento, ma, come si usa dire, “di pancia” è molto alto. Vero, però il sistema ha ovunque preso precauzioni per evitare eccessi in questa direzione: non si può votare se non dopo campagne elettorali obbligatoriamente adeguate sotto il profilo temporale, si tutelano le eguali opportunità di accesso alla propaganda, ci sono articolazioni sociali (i partiti) che con la loro dialettica spingono i votanti a riflettere sulle scelte da fare.
Nel “televoto” non accade nulla di tutto questo. La decisione viene fatta prendere “a caldo” senza che ci sia alcun aiuto per la riflessione sulla decisione che si deve assumere, né il votante anche più responsabile avrebbe prima alcun elemento per orientare la sua scelta.
Vi è infine un ultimo punto da valutare ed è: che valore ha il giudizio di chi è “incompetente” rispetto al giudizio di chi possiede le conoscenze appropriate per fare una scelta responsabile? Gli studiosi di storia politica sanno che questo è stato l’argomento principe all’inizio dell’applicazione dei sistemi fondati sulla rappresentanza popolare per restringere l’accesso al voto: si diceva che dovesse essere riservato solo ai “colti” o solo a coloro che avendo una posizione sociale adeguata (il censo) avessero dimestichezza con la gestione di questioni rilevanti. Ovviamente in politica questa impostazione non poteva funzionare: non era detto che la “cultura” fosse solo quella scolastica (ma poi, con l’istruzione obbligatoria la questione perdeva rilevanza); era ingiusto ritenere che solo chi aveva posizioni sociali di peso fosse capace di affrontare questioni rilevanti. Di qui la scelta generale, che ormai data almeno da un secolo per il suffragio universale maschile (e dal 1945 per la sua estensione alle donne).
Ma questo principio può essere considerato valido per qualsiasi espressione di scelta popolare? A parte il fatto che neppure il voto politico è veramente universale, perché per esempio c’è un requisito minimo di età, c’è l’esclusione per certe categorie (handicap psichico grave, condannati per certi delitti), ci sono in molti casi requisiti di residenza e sempre di cittadinanza, il principio del voto politico è che la “competenza” si basa sulla appartenenza al contesto nazionale, cosa che responsabilizza (o almeno dovrebbe farlo) un elettore che sa che quanto sceglie ricadrà su di lui come cittadino soggetto alle decisioni di chi ha scelto.
In materie come l’attribuzione di premi per meriti oggettivi come sono o dovrebbero essere le gare, l’affidare la formazione della classifica a meccanismi che presentano tutte le debolezze di cui si è detto suscita non poche perplessità. Il fatto è autenticamente diseducativo: sia perché in assoluto non dà alcuna garanzia che il giudizio si sia formato in maniera trasparente e responsabile, sia perché alla fine non assegna un premio intitolato al “gradimento” (come sarebbe se questa fosse una graduatoria a parte), ma un premio che continua ad essere intitolato alla “bravura”.
Si dirà: ma quanto rumore per nulla! In fondo sono poco più che giochi e il fine è quello di dar modo alla gente di sentirsi coinvolta, di poter dire la sua. Davvero? O non è piuttosto che, lo si voglia o no, si è ingannato il pubblico, tanto spingendolo ad illudersi che il giudizio di ciascuno fosse superiore a quello dei competenti (dimenticando fra il resto che il pubblico per partecipare al giudizio non ha bisogno di questi giochetti, perché ha in mano la scelta di consumare o meno quello che viene proposto), quanto abituandolo a ragionare “a caldo” su qualsiasi cosa, a reagire a tutto “di pancia”, a prendere sottogamba il fenomeno portante della democrazia che è l’arma del voto nelle mani di ogni cittadino.
L’educazione di un popolo passa per tanti canali e quelli mediatici hanno una importanza da non sottovalutare. Cautela e responsabilità in questi ambiti delicati non sarebbero proprio fuori luogo.

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