di Barbara Spinelli
Non credo che gli studenti dell’Aquila chiedano menzogne e illusioni,  quando gridano a Bertolaso e alla politica, ai magistrati e ai giornali:  «Diteci che non è vero!». In realtà aspirano a quel che nella giustizia  è essenziale. Esigono verdetti, ma ricordano che i processi si fanno  innanzitutto per tutelare l’innocente. Chi non s’è macchiato di reati  vuol sapere che non pagherà per altri in tribunale, che la colpa di  alcuni non si farà collettiva. Solo se esistono responsabilità  individuali anziché collettive la politica non perde senso, il bene cui  si tiene non è cenere interrata. Quel che viene rifiutato è una cosa  pubblica ridotta  lo dicono gli indagati nell’affare Bertolaso  a  sistema gelatinoso, a una cosca che non tollera intrusioni, controlli.  L’allarme è grande perché quel che vacilla è la ragion d’essere più  antica della politica: la protezione dei cittadini inermi dai disastri.
Per questo lo scandalo della Protezione civile, colmo di simboli  primordiali, scotta tanto. Per questo urge sapere presto chi ha colpe,  chi no. Il potere dello Stato, in fondo, esiste per difendere i  cittadini dalla paura, dai pericoli della natura, dalle aggressioni  belliche. È chiamato Leviatano perché ha questo potere di vita e di  morte, ma se protegge male non è Leviatano. Con le proprie mani porterà  la propria testa alla ghigliottina. Quando decapitarono i monarchi  Goethe, che non amava le agitazioni rivoluzionarie, scrisse: «Fossero  stati veri re, non sarebbero stati spazzati via come con una scopa».
Ma soprattutto vogliono sapere, gli studenti, che non è vero quel che  gli studiosi dicono da anni e che i giudici per le indagini preliminari a  Firenze ripetono quasi testualmente.
Che «viviamo una disarmante esperienza del peggio», scriveva il rapporto  del Censis del 2007, aggiungendo che la nostra non era una società «ma  una poltiglia cui si potrebbe sostituire il termine di mucillagine»: un  «insieme inconcludente di elementi individuali e di ritagli personali  tenuti insieme da un sociale di bassa lega».
Nell’ordinanza del gip, il servizio pubblico e la Protezione civile sono  descritti dagli stessi indagati con vocaboli simili: un sistema  gelatinoso, fatto di gente che «ruba tutto il rubabile», che confonde  pubblico e privato, che in nome dell’efficienza cerca soldi e favori per  sé. Un indagato dice, accennando ai lavori per il G8 della Maddalena:  «C’abbiamo la patente per uccidere, cioè possiamo piglià tutto quello  che ci pare». Due imprenditori sprofondano nella sguaiataggine, nei  minuti stessi in cui la terra abruzzese trema. Esordisce al telefono  tale Gagliardi: «Qui bisogna partire in quarta subito, non è che c’è un  terremoto al giorno». Il collega Piscitelli dice che lo sa. E ride. Al  che Gagliardi: «... (lo dico ) così per dire per carità... poveracci».  Piscitelli: «Va buò ciao». Gagliardi: «O no?». Piscitelli: «Eh certo...  io ridevo stamattina alle tre e mezzo dentro al letto». Gagliardi: «Io  pure...». Diteci che non è vero è domanda di verità, è non rassegnazione  al salmo 14: «Tutti sono corrotti; più nessuno fa il bene, neppure  uno».
Bertolaso e gli uomini del suo dipartimento avranno modo di difendersi,  distinguendo tra vero e falso. Comunque sono già ora chiamati a condotte  probe: in particolare Bertolaso, perché chi presiede un’istituzione è  responsabile dei propri uomini, non può degradarli a mele marce  tirandosi fuori. È solo indagato, ma l’opacità estrema della Protezione  civile fa tutt’uno con l’opacità del modo berlusconiano di governare.  Egli ha il peso, decisivo, che Carl Schmitt attribuisce a chi ha accesso  al Leviatano. È il potere dell’anticamera del potente, «del corridoio  che conduce alla sua anima. Non esiste nessun potere senza questa  anticamera e senza questo corridoio» (Schmitt, Dialogo sul Potere, Il  Melangolo 1990).
Il corridoio non è di per sé malefico, ma in Italia è oggi colmo di  insidie: tanta è la gelatina che regna indisturbata ai vertici. Nel caso  specifico, il potere indiretto di chi sta in anticamera diventa  speculare a quello diretto, tende a farsi anch’esso assoluto, a non  rispondere a autorità superiori, a considerare i magistrati come  «dipendenti pubblici» da irreggimentare perché non eletti (l’espressione  è del presidente del Consiglio). Chi oggi è in simili corridoi rischia  di diventare parte di un preciso disegno: disegno che distrugge la  politica, tramutando la cosa pubblica in privata. Che ostentatamente  governa a partire dal proprio domicilio, trasformando Palazzo Grazioli  in succedaneo di Palazzo Chigi. Che estende i territori italiani  sottratti alla legge. Alle regioni ampiamente controllate dalla mafia,  s’aggiungono ambiti sempre più vasti, legalmente svincolati dall’imperio  della legge. È inevitabile, quando l’emergenza si eternizza e si  espande smisuratamente, comprendendo settori per nulla emergenziali.  L’immensa Protezione civile si accentra a Palazzo Grazioli ed è messa in  condizione (soprattutto se diverrà società per azioni) di eludere la  rule of law. Si politicizza e si privatizza al massimo, simultaneamente.
Bertolaso è a un bivio. Avendo dimostrato non comuni capacità di  proteggere i cittadini, può prendere le distanze e salvare un’opera. Nei  giorni scorsi ha detto, veemente: «Sono pronto a dare la vita per  convincere gli italiani che non li ho ingannati». Non gli si chiede  tanto. Si spera però che non si lasci contaminare. Proprio perché  possiede un’aura di Medico-senza-frontiere, Bertolaso ha molto da  perdere, dalla contiguità con la gelatina di cui è fatto Palazzo  Grazioli. Se ha errato, il suo errore sarà giudicato immorale, e  l’immorale distingue perfettamente il bene dal male. Solo dimettendosi  Bertolaso eviterà che il corridoio verso il potente diventi, come nelle  parole di Schmitt, una letale «scala di servizio».
Possono essere due, i motivi di una dimissione. O si perde la fiducia  dei vertici, o la richiesta nasce nella coscienza. È difficilmente  pensabile che Bertolaso non abbia orecchie per questa seconda voce,  vedendo la degenerazione dell’opera che dirige da anni.
Un aiuto autentico dall’alto non gli verrà, perché Berlusconi non gli  somiglia: più che un immorale, lui è un a-morale. Non è Nixon pienamente  conscio del male commesso che si confessa, nel 1977, al giornalista  David Frost. Il film di Ron Howard lo descrive bene: la colpa lo  corrode. Non così Berlusconi, ignaro di corrosioni. Egli non sa cosa sia  la morale, e neppure cosa sia l’ideologia. Sventolerà l’una o l’altra,  se servirà per deturpare istituzioni e contropoteri. Se non fosse  a-morale non avrebbe osannato agli inizi di Mani Pulite, scatenando  contro gli indagati il fuoco delle sue televisioni (lo ricordò prima di  morire il tesoriere indagato della Dc, Severino Citaristi).
L’argomento che usano sia Berlusconi che Bertolaso è l’efficienza.
Dice il primo: «Se un’opera è fatta bene al cento per cento e poi c’è  l’1 per cento discutibile, quell’1 va messo da parte». Non è chiaro chi  decida le percentuali, tuttavia. E come possa ben operare, alla lunga,  una poltiglia dove si mescolano Grandi Eventi e disastri; spasso e  dolore; show, morte e risate. La sindrome di impunità che regna  nell’anticamera del potere, i costi maggiorati senza controllo, le  imprese che si sbrigano male pur di lucrare sulla fretta: questo non è  efficienza. Dalla corruzione non scaturisce efficienza.
In un editoriale sul Corriere del 30 gennaio, Sergio Romano dice una  cosa assai giusta, su Blair, Sarkozy e Schröder. Denuncia la propensione  a mescolare pubblico e privato, a edificare carriere «sull’immagine e  sulla comunicazione piuttosto che sulla buona gestione della Cosa  pubblica», e conclude: «Il giudizio politico non ha bisogno di scranni,  parrucche e banco degli imputati, secondo le liturgie della giustizia  (...). La vera punizione, molto più grave di una semplice sentenza, è la  fine di una brillante carriera». Se giornalisti prestigiosi come lui  dicessero le stesse cose sull’Italia di oggi, e l’avessero detta molti  anni fa, forse gli studenti dell’Aquila si sentirebbero meno soli, meno  scoraggiati, meno impotenti.
Poveri magari, ma non poveracci.
 
 
Nessun commento:
Posta un commento