Rossana Rossanda il manifesto
 
Qualche anno fa Romano Prodi si è  felicitato di aver fatto l’unità dell’Europa cominciando dalla moneta.  Se avessimo cominciato dalla politica – è stato il suo argomento – non  ci saremmo arrivati mai data la storica rissosità dei singoli stati. Mi  domando se lo ripeterebbe oggi.
E’ vero che la moneta unica,  l’euro, c’è ed è diventata la seconda moneta internazionale del mondo,  ma lui medesimo, che aveva a lungo diretto la Commissione, Jacques  Delors, che l’aveva preceduto - nonché Felipe Gonzales, presidente  all’epoca del governo spagnolo ed altri minori responsabili di quegli  anni - hanno scritto sabato su “Le Monde” un preoccupato testo sul suo  destino. Quattro paesi dell’Unione, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia  sono indebitati fino agli occhi e sono entrati in una zona di turbolenza  pericolosa per tutto il continente. Soprattutto i padri dell’euro  riconoscono che “certe misure” che si sarebbero dovute prendere a suo  tempo, “come un coordinamento delle politiche economiche”, non sono  state prese e “si stanno elaborando oggi “ e “nel dolore”. Di furia,  perché siamo alle strette. Se ho capito bene, si tratta di alleggerire  il debito greco con l’emissione di Eurobonds che se ne assumono una  parte a lunga scadenza (e senza specularci sopra come hanno fatto le  banche tedesche e francesi) e poi andare a un programma economico di  tutti i paesi europei che cessi di lasciare ciascuno a cavarsela da sé. E  non getti sui cittadini greci tutto il “dolore” e il peso del rientro  del debito e della ricostruzione di una economia. Paghino una parte del  conto “i grossi investitori istituzionali”, cioè le banche estere hanno  investito a rischio, e il rischio è il loro mestiere.
Parole  prudenti, ma sufficienti, penso, a non trovare l’accordo dei paesi che  si riuniranno giovedì 21 a Bruxelles - per cui la Germania sarebbe stata  incline a prendere più tempo. Un suo illustre economista sostiene, una  pagina più in là, che bisogna invece mettere la Grecia temporaneamente  fuori dall’euro a spicciarsela con le sue dracme, una loro energica  svalutazione e senza l’aiuto degli Eurobonds. E’ la linea liberista. Che  si incrocia, in tutt’altra prospettiva, con quella di Amartya Sen, di  alcuni economisti e sociologi francesi come Jacques Sapir e Emmanuel  Todd e di politici di sinistra come Mélenchon e una parte dell’amletico  Partito socialista, e dell’estrema destra di Marine Le Pen - via  dall’euro e per sempre.
Non so - non trovando traccia delle  procedure di abbandono dell’euro nelle varie bozze di trattati - se sia  fattibile né ho capito in che cosa migliorerebbe le condizioni della  Grecia un ripescaggio della dracma; la poderosa svalutazione si  accompagnerebbe, certo, a una maggiore possibilità di esportare i suoi  prodotti (ammesso che ne abbia di appetibili oltre il turismo) ma anche a  un aumento, di proporzioni pari, del debito con le banche tedesche. O  sbaglio?
Sta di fatto che alla vigilia del ventesimo compleanno  della moneta europea, il giudizio su che fare  è una cacofonia. Non a  caso l’appello di cui sopra chiama prima di tutto ad avere “una visione  chiara” e condivisa dello stato dell’Europa. Sarebbe stato utile  arrivarci prima e non con il coltello alla gola. Oltre alla Grecia  infatti, Portogallo, Spagna e Italia hanno accumulato un indebitamento  pubblico mostruoso e vacillano sotto l’occhio spietato e non  disinteressato delle agenzie di rating. Per il patto di stabilità non si  dovrebbe superare il 60 per cento del Pil mentre noi, per esempio,  siamo al 120. Ma la nostra economia appare in stato ben migliore di  quella greca e, cosa che conta, il nostro indebitamento è soprattutto  all’interno, non ci sono banche tedesche che ci ringhiano addosso.
Per  cui anche se Moody ci abbassa la pagella, la Commissione si limita a  ordinarci cure da cavallo, tipo la manovra votata a velocità supersonica  qualche giorno fa, per “rientrare”. La cui filosofia è uguale per  tutti: tagli alla spesa pubblica (scuole ospedali e amministrazioni  locali in testa), vendita di tutto il vendibile (perché la Grecia non  cederebbe il Partenone a Las Vegas?), privatizzare il privatizzabile,  cancellazione dello stesso concetto di “bene pubblico”. Il governo  greco, naturalmente di unità nazionale come tutti quelli delle  catastrofi, è andato già a un taglio del 10 per cento dei salari e delle  pensioni, e la collera e le manifestazini della gente vengono dalla  disperazione. E già per l’euro è un sisma.
Forse non è inutile  ricordare che fra pochi giorni, il 2 agosto, gli Stati Uniti si  troveranno, mutatis i molti mutandis, nella situazione greca di non  poter pagare i salari né onorare le proprie fatture, perché il debito  pubblico ha superato il tetto imposto dalla legge. Senonché a innalzare  quel tetto basta un accordo fra i democratici e i repubblicani, che  finora lo hanno negato. Nessuno stato europeo può invece spostare da  solo il patto di stabilità. Più che consolarsi sulle vaghe analogie sarà  meglio chiedersi se questi indebitamenti dell’ex ricco occidente non  abbiano qualche radice comune.
Mi rivolgo a chi ne sa più di me,  cioè agli amici economisti e ai padri e ai padrini (di battesimo, in  senso cattolico) della Ue, nella speranza che rispondano ad alcune altre  domande che a una cittadina di media cultura si presentano ormai  impietosamente. Non c’è stato qualche errore nella costituzione della  Ue? E come si ripara?
La prima domanda è come mai i padri  dell’euro si erano convinti che un’unificazione della moneta sarebbe  stata di per sé unificatrice di un’area vasta di paesi dalla struttura  economica così diversa per qualità e robustezza. Tanto convinti da non  avere previsto misure di recupero per chi non riuscisse a stare nel  patto di stabilità. Non è forse che consideravano impensabile che la  mano invisibile del mercato non riuscisse ad allineare a medio termine  le economie di questi paesi? Per cui bastava affidarsi a una politica  monetaria e attentamente deflazionista - linea che la Bce ha fedelmente  seguito - per garantirne il successo? L’euro e la Ue sono nati in quella  fede nel liberismo, che von Hajek aveva ripreso, proprio prima della  guerra, contro la politica rooseveltiana seguita al 1929 e le proposte  di Beveridge e di Keynes di trarre da quella crisi la consapevolezza del  pericolo che rappresenta una frattura economica e sociale profonda,  trovarsi di fronte una destra populista come quella che negli anni ’30  si sviluppò, oltre il fascismo, nel Terzo Reich di Hitler, nella Grecia  di Metaxas e nella Spagna di Franco? Non era necessario evitarla andando  a un vero compromesso fra le parti sociali, costringendo i governi a  (mi sia premesso il gioco di parole) costringere il capitale a cedere  una parte meno iniqua del profitto alla monodopera, in modo da: a)  garantirsi una certa pace sociale (c’era ancora di fronte l’Urss che  aveva fatto arretrare i tedeschi a Stalingrado); b) garantire un potere  d’acquisto di massa per una produzione di massa (fordista)? Le  costituzioni e le politche dei governi europei del secondo dopoguerra  andarono, più o meno, tutte in questa direzione.
Dalla quale la  Ue svoltava decisamente.Tre anni prima era caduto il Muro di Berlino, e i  partiti di sinistra e i sindacati avrebbero seguito, più o meno  convinti, la strada. I conti della scelta liberista ci sono oggi davanti  agli occhi.
Al di là degli effettivi successi in campo giuridico  in tema di diritti umani, non è forse vero che, malgrado le enfatiche  dichiarazioni, i vari trattati, quello di Nizza incluso, registrano un  arretramento dei diritti sociali rispetto ai Trenta Gloriosi?  Probabilmente si riteneva che costassero troppo: nessuno è stato  eloquente su questo punto come il New Labour di Tony Blair. Sta di fatto  che, dichiarando nobilmente la piena libertà di circolazione delle  persone, delle imprese e dei capitali, messi sullo stesso piano, la Ue  dava libero corso alla finanza, alle delocalizzazioni e assestava ai  lavoratori una botta epocale.
Cittadini, imprese e capitali non  sono infatti soggetti della stessa natura, e non hanno la tessa libertà  di movimento. Altra cosa è spostarsi in Lituania per il salariato di una  impresa lombarda ed altra per la sua impresa andarvi in cerca di  dipendenti da pagare di meno. E ancora altra lo spostarsi virtuale di un  quotato in borsa da Milano a Tokio. Ma non stiamo a fare filosofia. Con  la Ue cessava infatti ogni controllo sul movimento dei capitali in  entrata e in uscita, non solo da parte di ogni singolo stato ma del  continente; e siccome in Europa i lavoratori avevano raggiunto  collettivamente un salario più alto e una normativa migliore che nel  resto del mondo, i capitali scoprivano presto che potevano ottenere  dalle operazioni finanziarie un profitto assai più ingente di quello che  si poteva ottenere dagli investimenti nella produzione, materiale o  immateriale che fosse. La finanza ha preso un ritmo di crescita senza  precedenti, le sue figure si sono moltiplicate inanellandosi su se  stesse fino a perdere ogni base effettiva, abbiamo scoperto parole  suggestive, come i fondi sovrani, i trader, gli asset, i futures, e  capito meglio a che e a chi servisse un paradiso fiscale, la Ue  liberista apriva insomma il varco a manipolazioni non illegali ma mai  conosciute prima, le stesse che gonfiandosi hanno formato la grandiosa  bolla finanziaria scoppiata nel 2008. Nella quale gli stati sono dovuti  intervenire con i soldi pubblici per evitare il crollo delle banche  (una, la Lehman Brothers, è colata a picco) e dei relativi e ignari  depositari. Coloro che erano stati consigliati di comperare una casa  dall’allegria finanziaria delle banche stesse si sono trovati per  strada. Un trader più esperto dei suoi superiori ha fatto perdere  cinquecento milioni di euro alla antica Sociéte Générale, per amore  della mirabolante professione, senza mettersi in tasca un quattrino.  Alcuni imbroglioni hanno fatto miliardi, uno di loro, Madoff, s’è fatto  pescare. Il G20 e il G21, riuniti in fretta, hanno innalzato lamenti,  denunciato la finanza, inneggiato all’intervento dello Stato, denigrato  fino un mese prima, deprecato l’esistenza dei paradisi fiscali e si sono  fin giurati di ridare “moralità” al capitale. Ma tutto è tornato come  prima, neppure l’obbiettivo più semplice, chiudere con i paradisi  fiscali, è stato realizzato. L’investimento nella finanza resta  golosissimo.
Sulla stessa linea, i capitali che restavano nella  produzione scoprivano che avrebbero realizzato ben altri profitti se  avessero spostato le loro imprese fuori dall’Europa occidentale, dove  imperversano ancora, sebbene assai allentati, i “lacci e lacciuoli” e la  “rigidità” del lavoro. Così succede, per offrire qualche esempio, che  un gruppetto bresciano si sia acquistato in Francia una vecchia e  gloriosa marca di piccoli elettrodomestici per portarla in Tunisia  (prima della rivolta). Che un miliardario indiano si sia acquistato le  residue acciaierie d’Europa per chiuderle, restando solo sul mercato con  l’azienda paterna. I governi non si pemettono più di intervenire sulle  parti sociali, correndo dietro ai capitali e mettendogli il sale sulla  coda con agevolazioni e detassazioni. Chi non sa che una impresa paga  meno tasse di quanto debba pagare un salariaro? Se poi è una  multinazionale del petrolio, come la Total, che è insediata in diversi  paesi, può succedere che in Fracia non paghi nulla.
Infine, il  capitale ha avuto più intelligenza delle sinistre nel puntare sul  trasferimento del lavoro in tecnologia. Poteva essere un enorme  risparmio di fatica e un enorme aumento della produttività della  manodopera, ma è solo servito a ridurla. Può sorprendere che in tutta  Europa i disoccupati superino oggi i cento milioni? Che il 21 per cento  dei giovani non trovi lavoro? I governi pensano poi a demolire, per  facilitare le imprese, le difese restanti del salario e della normativa  nel lavoro dipendente. L’invenzione del precariato è stata geniale.  Certo resta ancora da fare per raggiungere l’inesistenza di diritti e  contratti collettivi dell’Egitto e della Cina, ma si direbbe che  l’obiettivo sia quello.
Come si faccia a tener alte le entrate e  modificare la crescita e in direzione compatibile con un impoverimento  diretto e indiretto, attraverso i tagli nel welfare della grande  maggioranza delle nostre societa è per me un mistero. Come si possa  stupirsi che gli operai, occupati o disoccupati, scombussolati dalle  scelte dei partiti di sinistra e dei sindacati, non amino questa Europa?  E crescano dovunque in voti le destre?
Vorrei essere smentita. E che mi si dimostrasse che l’Europa non c’entra, che non può, e non solo non ha voluto, far altro.
 
 
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