4.3.12

Pasolini. I 90 anni del poeta corsaro

Giancarlo Liviano D’Arcangelo (l'Unità)

Anche se non c’è più continua a vivere nei suoi «anatemi» che sono diventati il nostro presente con mercificazione della cultura razzismo opportunismo e ignoranza assurti a valori della vita

È canuto e segaligno, aggraziato negli sguardi denudanti e per questo centellinati, intento a muovere con furia nevrotica gli arti affusolati, intricati, pungenti come rovi e duri come la quercia. Nascosto dietro un paio di ombreggianti occhiali da sole di celluloide nera, autoironica concessione al cliché del regista, dell’intellettuale santificato per ansia di disinnesco e relegato al ghetto sepolcrale dell’apparenza. È dura scorgere ciò che accade dietro quegli occhi artificiali dalle lenti ampie e nere di pece, dismessi solo per dormire o per leggere. Eppure Pasolini, prossimo al suo novantesimo compleanno, seppur stanco, depotenziato dalla fatica psichica profusa sulle pagine e ingobbito da quella fisica dissipata sul set, seppur seviziato nei nervi dalla propria ossessione auto-annichilente, è ancora il curculione dal pungiglione avvelenato che, per metà annidato in serra e per metà incalzato da furia insetticida, si nutre e prova a distruggere culture troppo sintetiche per essere trasfigurate in paradisi convincenti. Lampeggia idee. Protesta. Assomiglia al vecchio Hamm beckettiano di Finale di partita, che giunto alla fine della sua esistenza, un’esistenza fin dall’inizio votata alla sconfitta se correlata alla sua ambizione ancestrale, la liberazione dell’uomo, non può che sospendersi e perdersi fino all’eternità in una sorta di estraneazione fondata sulla ciclica e ineluttabile alternanza di mosse e contromosse, guerra spiroidale senza fine tra lui e il mondo esterno, divenuti archetipi. Il giocatore/individuo, ora santo ora demoniaco, in disperata competizione con avversari senza volto: i bari per eccellenza, il caos e «il potere». Vera e propria nemesi per l’outsider e palliativo per l’uomo, utile solo a rinviare ancora un po’ la fine, temuta e al tempo stesso desiderata. In questi anni, tra traduzioni e saggi critici, tra invettive e qualche annuncio apocalittico, Pasolini ha completato Petrolio, golem premiato, glorificato e al contempo demolito, com’è possibile fare in malafe-
de per ogni capolavoro inclassificabile, mastodontico per ambizione e urgenza e fallace per definizione. Ha girato l’opera definitiva su San Paolo, appuntandosi come una medaglia l’ennesima scomunica di una chiesa più che mai carnevalesca, facendo del guerriero di Tarso il primo traditore di Cristo e il primo mistificatore eretico del messaggio evangelico. Ha realizzato con Eduardo de Filippo e Franco Citti Porno-Teo-Kolossal, un film cosmogonico, eroicomico e grottesco, un’opera vagheggiata e organizzata tra mille ostacoli, voluta con prepotenza e imbellettata dal solito amore per il pastiche, in cui accade che una cometa, allegoria babilonese dell'ideologia, trascina dietro a sé un Re Magio interpretato dallo stesso Eduardo, un eroe puro che seguendo quella scia viaggia a lungo maturando esperienza dello scibile intero, del metafisico, del sensoriale e del mistico. L’opera di una vita, insomma. L’unica opera possibile dopo quell’incredibile profezia sulla furia mortuaria della modernità che è stata Salò e le 120 giornate di Sodoma, epigrafe sul potere anarchico dei giorni nostri, messa in evidenza funebre della promiscuità tra carnefici e vittime che s’immolano impotenti, ridotti a corpi-oggetto di sfruttamento, cronaca della perpetrazione fredda e alienante di vita e piacere come routine senza coinvolgimento, affresco dall’estetica cimiteriale tipica del mondo incancrenito dal capitale, che come il sadico non raggiunge mai il grado sublimato del piacere e non gode mai, nemmeno quando ha seviziato e ucciso l’oggetto del proprio godimento, che si tratti del corpo, dell’umanesimo o della natura.
A sorpresa, s’era ridotto all’eremitaggio Pasolini, negli anni 80, quelli in cui molti dei suoi anatemi hanno acquisito forma fenomenica: la vertiginosa mercificazione della cultura ad esempio, o il fascismo insito nel neocapitalismo edonista e consumista, «un potere che manipola i corpi in modo orribile e che non ha nulla da invidiare alla manipolazione fatta da Hitler». Durante gli anni di Drive In insomma. E ancor di più dopo la morte di Moravia nei 90, quelli dell’esplosione delle televisioni commerciali, colpo di grazia tecnologico agli ultimi afflati del mondo originale in cui, prima dell’odierna e placida vecchiaia, Pier Paolo aveva cercato accettazione.
PROFESSIONE BORGHESE
Lui, borghese per professione e paria rifiutato dalla stessa borghesia, immune per coscienza ipertrofica alla borghesia intesa come morbo svelato da una sintomatologia infallibile fatta di razzismo, opportunismo, utilitarismo e ignoranza assorti a valori della vita. Il mondo, quello che batteva, ormai altrettanto corrotto e che l’avrebbe di certo ucciso, se solo Pasolini, già allora ricco e ricattabile oltre che pieno di nemici, nella notte tra il primo e il due novembre si fosse presentato sulla spiaggia dell’Idroscalo con Pelosi e i tre milioni di lire necessari a recuperare le pizze di Salò, anziché ripensarci per miracolo, all’ultimo momento. Già allora, forse, per un uomo che l’amico Carmelo Bene chiamava violento e corruttore in quanto portatore vivente del dubbio e della crisi come ideologia, non c’era più niente da corrompere. E come testimonia il trattato pedagogico Gennariello, volutamente lasciato incompiuto, nemmeno più nulla da insegnare.
Guai a chiamarlo maestro, infatti. Perché mai come oggi, in procinto di compiere novant’anni, Pasolini, come se fosse destinato ad averne per sempre cinquantatré, predicherebbe deciso che i maestri non servono a niente, così come aveva predetto attraverso la voce stridula del corvo di Uccellacci e Uccellini. Vanno superati. E sono fatti, come lui ha sempre dimostrato, «solo per essere mangiati in salsa piccante».

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