intervista di Gea Scancarello (Lettera43)
Non c’è un libro nella stanza, e nemmeno un computer. Né, a dire il vero, penne, carta o appunti. Lo spazio è pressoché interamente occupato da piante – qualche felce, un oleandro, un ficus – cresciute così alte e rigogliose da aver rotto i vasi in cui erano contenute.
Nello studio-salotto fuori dal quale studenti, cronisti e politici in cerca di benedizioni fanno anticamera da mezzo secolo, il verde diffuso è l’unica indicazione dei pensieri che di questi tempi affollano la mente di Noam Chomsky.
Lo scienziato che ha rivoluzionato la teoria del linguaggio, inventore della grammatica generativa, pensatore difficile e spesso fastidioso, fustigatore della politica internazionale, ma apprezzato da tutti perché osteggiarlo può essere compromettente, è seraficamente quieto e imperscrutabile.
50 ANNI AL MIT. Definirlo esuberante, d’altra parte, sarebbe stato eccessivo anche quando nel 1955, a 26 anni, per la prima volta, varcò la porta del Massachusetts Institute of technology (Mit) con una cattedra provvisoria.
Da allora nel campus tutto è cambiato, tranne lui. Per mezzo secolo, Chomsky ha mescolato scienza, critica sociale e attivismo. Diventò un guru della sinistra pacifista condannando «l'aggressione americana in Vietnam», ai tempi in cui ancora scendere in piazza era tabù. Creò il terzomondismo con le campagne a favore della libertà in Sud America. E, di recente, ha rifiutato il concetto di «Asse del male» del presidente George W. Bush, ponendo seri dubbi sulla lotta al terrorismo internazionale.
IL PENSATORE SENZA ETICHETTE. Il tempo ha ristretto Chomsky in una versione ricurva del se stesso appeso alle pareti in decine di foto e riconoscimenti ufficiali, al fianco dei palestinesi – nonostante le origini ebraiche – e nei discorsi contro la guerra. Ma a 83 anni la lucidità spietata delle sue analisi non è variata. E identiche sono le abitudini.
Ottenere un appuntamento per trovarsi faccia a faccia con il mostro sacro è un’impresa lunga di quelle adatte solo per chi ha molta pazienza.
È lui stesso, d’altra parte, a mettere in guardia. Chomsky risponde personalmente alle email che gli arrivano – da qualche parte deve avere un pc nascosto – per spiegare: «Odio essere burocratico, ma se proprio vuoi parlarmi devi superare il vaglio della mia assistente».
Mesi dopo, in un pomeriggio piovoso di marzo, davanti a una tazza di caffè fumante, immerso nella quiete dell’ufficio fuori Boston che ricorda una serra, il professore scardina però ogni formalità e gerarchia.
Scandisce le parole con lentezza, per essere certo che l’interlocutore capisca sul serio. E si diverte ad anticipare le domande della cronista. «Scommetto che siamo qui a discutere di crisi», esordisce invitandoci a sedere.
DOMANDA. Può essere un buon punto di partenza.
Risposta. Dipende da quale crisi ha in mente.
D. Quante ne esistono?
R. In Europa siete molto preoccupati per quella economica.
D. Facciamo male?
R. No, ma la soluzione per quella c’è già.
D. Cioè?
R. L’hanno offerta Draghi e Trichet: mettere la parola fine al welfare state. E ripensare il lavoro, minandone le sicurezze. Ovviamente, non lo hanno detto con queste parole, ma il senso è chiarissimo.
D. La definirebbe una soluzione?
R. Dal loro punto di vista sì. Da una prospettiva economica non ha senso, perché decine di studi condotti dallo stesso Fondo monetario internazionale, hanno rivelato che l’austerità porta solo alla contrazione.
D. Ma il problema è veramente la crescita?
R. Dipende. Se un’economia cresce in modo sostenibile, con l’obiettivo di dare ai suoi cittadini condizioni di vita decenti, è giusto crescere.
D. Chi stabilisce il livello della decenza?
R. Non è decente sfruttare le risorse con il solo obiettivo di produrre beni e indurre consumi crescenti.
D. Il modello occidentale non è decente, dunque.
R. Non è detto che le nazioni in via di sviluppo siano meglio. La Cina, nonostante il Prodotto interno lordo che aumenta in modo spettacolare da anni, è un Paese estremamente povero con problemi ambientali e demografici gravissimi. L’India è sommersa dalla miseria. Per non dire che in tutta l’Asia centrale l’acqua sta diventando un problema economico.
D. Perché?
R. Il Pakistan è a rischio desertificazione per metà della sua estensione. Riesce a immaginare cosa significa per l’agricoltura? Quali saranno le conseguenze sui cittadini e le migrazioni?
D. A fatica.
D. Ecco, significa che ci sono cose molto più gravi alle quali pensare rispetto alla crisi fiscale ed economica. Scenari che non riusciamo nemmeno a figurarci.
«L'ambiente ci si rivolterà contro. E annienterà intere generazioni»
Noam Chomsky in visita in Sud America.
(© Ap images) Noam Chomsky in visita in Sud America.
D. In concreto?
R. La crisi ambientale. Magari è più lontana, non è dietro l’angolo, non sappiamo quando esploderà, ma ogni giorno in cui evitiamo di pensarci la minaccia cresce.
D. Cosa teme?
R. Questo è il tipo di crisi che potrebbe annientare le generazioni future. Ed è qualcosa che non sappiamo come trattare.
D. Anche le armi nucleari rischiano di azzerare il futuro. E sono tornate in voga.
R. La soluzione però in quel caso esiste: per non rischiare una guerra atomica basta farle sparire.
D. Pare facile?
R. No. Ma per la crisi ambientale è peggio.
D. Perché?
R. Non solo non c’è una soluzione futura, ma non sappiamo nemmeno quali sono in questo momento le conseguenze di quanto fatto nel passato. E perseveriamo negli stessi errori.
D. I Paesi in via di sviluppo vogliono quello che abbiamo noi.
R. Il cambiamento di passo dovrebbe arrivare dalle nazioni più ricche, quelle che hanno maggiori opzioni. Dagli Usa, che sono ancora il Paese più potente al mondo.
D. Gli Stati Uniti non hanno mai firmato il protocollo di Kyoto.
R. Infatti. La cosa interessante è che in questo momento il faro guida sull’ambiente sono i più poveri dei poveri del Sud America: la Bolivia e l’Ecuador.
D. Indios socialisti.
R. La cultura degli indios è legata al rispetto della natura, alla sua preservazione. I cittadini del mondo sviluppato, chiamiamolo così, considerano invece l’ambiente come qualcosa da sfruttare.
D. Popoli diversi hanno bisogni diversi.
R. No. Semplicemente, gli occidentali hanno bisogni costruiti.
D. Cioè?
R. Innaturali, indotti.
D. Sta parlando di crisi ambientale o di crisi del capitalismo?
R. Lo sa qual è il settore aziendale più potente al mondo?
D. Quale?
R. Le pubbliche relazioni. La pubblicità. Il marketing. Negli Stati Uniti fatturano il 6% della ricchezza nazionale.
D. Il business del consumo.
R. Si chiama fabbricare desideri. Sedurre all’acquisto. È ovvio che un’attività di questo tipo ha un impatto sulla società. Ne contamina la mentalità, ne indebolisce il carattere.
D. Come?
R. L’industria spende quantità stratosferiche di denaro per indurre i bambini a convincere i propri genitori a comprare giocattoli che butteranno dopo cinque minuti: così si debilita la cultura di un Paese.
D. Perché?
R. Perché si abbassa la soglia di consapevolezza individuale e collettiva. Con conseguenze pericolose.
D. Quali?
R. Economiche, psicologiche, ecologiche.
D. Come si evitano?
R. Cambiando. Riprendendo il controllo. Nessuno ci obbliga a comportarci come gli altri.
D. Già, ma come si cambia?
R. Qualcuno deve iniziare. C’è sempre qualcuno che inizia: mezzo secolo fa, quando sono arrivato in questo campus, non si vedevano donne in giro per i corridoi.
D. E poi?
R. Poi qualcuno prende consapevolezza e quella consapevolezza diventa coscienza morale e attecchisce tra le persone. Fino a 30 anni fa, la legge americana considerava le donne più o meno come proprietà dei loro uomini. Non garantiva loro diritti basilari. Ora è diverso.
D. Qualcosa di simile sta succedendo in economia?
R. Fino a 50 anni fa nessuno si preoccupava del luogo da cui arrivava il prodotto che comprava. Ora esiste un movimento concreto, anche se ancora non abbastanza grande, che si occupa dell’ambiente e degli animali. Persone che reagiscono all’aggressione dell’uomo al pianeta e agli altri uomini.
«Un mondo a due potenze? No, la Cina è sopravvalutata»
D. Parla di guerra, di ecologia o di economia?
R. Parlo di idrocarburi. Il petrolio è da mezzo secolo una stupenda risorsa di potere strategico. È il carburante dello sviluppo industriale. Il mondo intero ruota intorno al petrolio.
D. Sono gli idrocarburi a determinare l’ordine globale?
R. Dopo la Seconda guerra mondiale fu siglato un patto implicito: l’America avrebbe controllato tutte le risorse e i centri di commercio che un tempo appartenevano all’Europa. L’Eurasia, l’Indocina e tutto l’Ovest. Inoltre esisteva un piano minuzioso, seguito alla lettera per 50 anni, per espandere questo controllo.
D. Oggi che ne è del piano?
R. Vive ancora, ma la capacità di portarlo a termine è minore, perché il potere si è diversificato. E l’America è in declino.
D. La Cina ne ha preso il posto?
R. Il declino non è cosa recente. L’America ha vissuto solo quattro anni di grandezza completa: dal 1945 al 1949. Nel 1949 Pechino ha dichiarato la propria indipendenza. E sa a Washington come si indica quella data?
D. Come?
R. The loss of China, la perdita della Cina. È implicito che si perde solo qualcosa che si possiede. Per gli Usa ogni movimento di indipendenza è una perdita.
D. Perché?
R. Perché l’indipendenza porta i popoli a usare le risorse che possiedono per il proprio benessere, e non per quello dei super ricchi. Il Sud America è l’esempio più lampante: gli Usa lo chiamavano il cortile di casa. Oggi non abbiamo più una sola base militare laggiù.
D. L’ultima perdita è quella del Medio Oriente.
R. Washington ha sostenuto ogni movimento dittatoriale pur di frenare l’indipendenza dei Paesi. E ha mollato i despoti solo all’ultimo, quando anche gli eserciti si erano rivoltati loro contro. È una prassi standard: lo ha sempre fatto, lo farà sempre.
D. In Cina non ci sono dittatori che si possano controllare.
R. La Cina ha un ruolo importante nello scenario globale, ma non bisogna esagerarlo. È una nazione ancora poverissima che è cresciuta enormemente, ma ha problemi interni almeno altrettanto grandi.
D. Viene definita la locomotiva del pianeta.
R. La forza del Paese è stato un sviluppo demografico tumultuoso che oggi si è arrestato e che finirà con il metterli in ginocchio. Non sopravvalutiamo le cose: al momento la Cina è ancora un Paese di produzione industriale seriale, un’immensa fabbrica.
D. Sì, ma fa concorrenza alle nostre.
R. La Cina è un tassello importante del sistema est asiatico, ma funziona ancora a trazione esterna, soprattutto del Giappone e della Nord Corea.
D. E allora perché gli Usa ricevono con ogni onore il loro futuro presidente?
R. La minaccia è un’altra: la Cina spaventa per il potenziale militare. In questo momento c’è un conflitto sotterraneo sul controllo delle acque cinesi: Washington sta costruendo basi in Giappone, Sud Corea e Australia per mantenere una presenza geografica forte nell’area.
D. C’è una guerra in vista?
R. Supponiamo che Pechino volesse costruire delle basi militari nei Caraibi, l’America glielo lascerebbe fare? Ritorniamo al concetto di perdita e possesso: ogni volta che qualcuno alza la testa, siamo pronti a ricacciarlo indietro.
D. L’Europa ha un ruolo in questo assetto o è un gioco a due?
R. Nel 1945 gli Usa decisero consapevolmente di prendere la guida del mondo e chiesero ai britannici di fare da junior partner. Ora stanno provando a fare lo stesso con il Giappone, che però ha una costituzione pacifista che gli Usa cercano in ogni modo di forzare.
D. E l’Europa?
R. L’Europa nel suo complesso dopo la Seconda guerra mondiale ha smesso di fare guerre. Si limita a seguire alcune iniziative americane laddove è necessario ai propri interessi. Gli europei hanno smesso di combattersi tra loro. Si sono ammazzati per secoli, poi è arrivata la cosiddetta pace democratica.
D. E cioè?
R. Formalmente, si dice che le democrazie non vanno in guerra. In realtà, in Europa hanno capito che se avessero continuato a combattere avrebbero finito con l’annientarsi.
«La strategia di Obama? Una campagna di assassinii mirati»
D. Gli Usa continuano invece. Anche se Obama aveva promesso un approccio diverso.
R. La strategia militare americana con Obama in effetti è cambiata. Nell’era Bush la pratica era: se qualcuno ti ostacola, invadi il Paese, fai dei prigionieri, li deporti e li torturi. Obama ha optato per una strategia di assassinii mirati, una campagna di omicidi internazionali.
D. Questo è meglio o peggio di prima?
R. Costa meno, è più efficiente, è più comodo. Tant’è vero che il dibattito ora ruota intorno alla possibilità di farlo anche con i cittadini americani, e questo risulta più difficile da accettare.
D. Ma Obama doveva essere il presidente del cambiamento.
R. Promesse: la sua immagine fu costruita a tavolino. La campagna per la sua elezione è stata un prodigio delle pubbliche relazioni. Tant’è vero che all’annuale riunione dell’industria pubblicitaria, nel 2009, il premio per la miglior campagna fu assegnata al team del presidente. Arrivò prima della Apple nella capacità di costruire illusioni.
D. Insomma, è uguale a Bush?
R. No, non uguale. Per alcune cose meglio, per altre – poche – peggio.
D. Se nel 2012 alla Casa Bianca arrivasse qualcun altro sarebbe diverso?
R. I repubblicani hanno abbandonato ogni speranza di essere una forza politica normale. La loro è una vocazione religiosa verso gli interessi delle multinazionali e del business. Il catechismo è: niente tasse ai ricchi, oppure sei fuori dal partito.
D. Vale per tutti, Romney come Santorum?
R. Nessun candidato repubblicano può presentarsi di fronte agli elettori e dire onestamente: «Noi lavoriamo per i super ricchi e non ci interessa di voi». Tutti, quindi, hanno bisogno di mobilitare frammenti di popolazione che sono sempre esistiti, ma non hanno mai avuto alcuna rilevanza.
D. Per esempio?
R. Ultra religiosi, nazionalisti terrorizzati che qualcuno possa minacciarli, fanatici delle armi. Cose di questo genere. E il risultato è che tutti i candidati repubblicani sembrano venire da Marte.
D. Cioè?
R. Dicono cose che in altri Stati semplicemente sarebbero illegali.
D. Per esempio?
R. Prendiamo Santorum, uno che ha detto: «Il potere discende direttamente da Dio». Dove altro si può sentire una cosa del genere? Io credo che nemmeno in Iran si spingano così in là.
D. Ma la gente li sceglie.
R. Non solo: applaude contenta. Questo è quello che succede quando organizzi e fomenti una base elettorale folle soltanto perché non puoi dire la verità.
D. Quindi non è lo stesso avere come presidente Obama o Santorum.
R. No, non è lo stesso. Non amo Obama, ma qualsiasi dei repubblicani sarebbe semplicemente disastroso. E pericoloso. Non tanto per chi sono loro, quanto per la gente che si portano dietro.
D. A proposito di elezioni, nel 2008 lei in Italia appoggiò Sinistra Critica, una formazione di estrema sinistra.
R. Chi?
D. Sinistra critica, il movimento dell’ex senatore Franco Turigliatto.
R. Io? Può essere, ma non mi ricordo…
Nessun commento:
Posta un commento