Il filosofo americano spiega, in un nuovo saggio-conversazione, quale sia l’obiettivo politico per i progressisti di oggi
di Michael Walzer (La Repubblica)
Se la mia vita e il mio lavoro sono stati segnati da una passione politica, questa è l’egualitarismo: una profonda avversione a qualsiasi forma di gerarchia, all’arroganza che quest’ultima alimenta in chi sta al potere e alla deferenza e all’umiltà che incute in quanti occupano gli ultimi posti. Sono insofferente verso le pretese elitarie ovunque si manifestino, nelle organizzazioni di sinistra come nel mondo accademico. È difficile conservare la stessa passione per oltre cinquant’anni, specialmente se è una passione monogama (nel mio caso, la fedeltà alla sinistra).
La disuguaglianza è una caratteristica essenziale delle società capitaliste? Sì. Ma a ben vedere è stata prodotta da molti sistemi politici ed economici diversi, non solo dal capitalismo. La società feudale era gerarchica, e così pure quella romana, quella dell’antica Grecia e quella cinese. Si tratta di un modello ricorrente che assume forme diverse in tempi e luoghi diversi; una sorta di struttura gerarchica di base, tuttavia, è stata prodotta più e più volte nel corso della storia dell’uomo. Tanto che si è portati a pensare che il desiderio di differenziarsi, di raggiungere un certo status sociale, di essere migliori, più ricchi e politicamente più influenti dei propri vicini sia profondamente radicato nella natura umana. Robert Michels avanzò una teoria di questo tipo, sostenendo – sulla base dei suoi studi sulle organizzazioni socialiste – che vi sia una tendenza costante a creare forme di autorità e gerarchia persino all’interno di un sindacato o di un partito socialista. Non ho una teoria completa sulla natura umana, ma sono convinto che vi sia una sorta di desiderio ricorrente di differenziazione: per questo la difesa dell’uguaglianza è l’eterna missione della sinistra. Non è una battaglia; è una guerra infinita contro la disuguaglianza, la gerarchia, l’arroganza e le pretese elitarie. Le nostre organizzazioni non sono immuni da tutto ciò, per cui la lotta è al tempo stesso locale e globale; dobbiamo combattere nel nostro stesso campo, ma anche contro altre forze politiche. È importante riflettere sulla natura di questa guerra. In un certo senso, è quello che Irving Howe definì un “lavoro stabile”, riferendosi a una storiella ebraica. Questa: la comunità ebraica di una cittadina polacca incarica un tizio di stazionare all’ingresso dell’abitato in attesa del Messia, in modo che, quando lo vedrà arrivare, possa dire a tutti gli ebrei di prepararsi. Qualcuno chiede all’uomo: «E questo sarebbe un lavoro? Stare fermi in attesa della venuta del Messia?». Al che lui risponde: «Sì, è un lavoro. Il compenso non è un granché, ma è un lavoro stabile». Anche l’egualitarismo è un “lavoro stabile” e poco remunerativo. Al tempo stesso, ciò che ne garantisce di tanto in tanto la buona riuscita è una certa forma di instabilità. La lotta contro la disuguaglianza, le gerarchie e l’autoritarismo richiede momenti di insurrezione e mobilitazione popolare: basti pensare al movimento sindacale americano negli anni Trenta del secolo scorso, alle campagne per i diritti civili negli anni Sessanta o alle battaglie femministe nei Settanta. Momenti in cui particolari forme di gerarchia sono state sfidate da una sorta di esplosione di rabbia e ostilità; non mi riferisco necessariamente a un evento rivoluzionario, ma a un periodo di intensa attività politica. Ai miei occhi, la lotta per l’uguaglianza è un “lavoro stabile” inframmezzato da quei momenti di insurrezione, e non credo che assisteremo a cambiamenti in tal senso. Non esiste un traguardo utopico raggiunto il quale l’uguaglianza potrà regnare incontrastata per il resto della storia dell’uomo. Non è così che funziona. (…) Nel XIX secolo, lo Stato-nazione garantiva uno spazio di contestazione politica e la socialdemocrazia era una forza politica attiva in molti Paesi. Dov’è tale spazio nella società globale? Deve esserci, così come deve esserci un modo per sviluppare una socialdemocrazia internazionale in grado di contrastare il capitalismo globale, proprio come la socialdemocrazia del XIX e del XX secolo mise in discussione il capitalismo nazionale; ma non l’abbiamo ancora trovato. L’anti-globalizzazione è molto simile all’anti-industrializzazione del XIX secolo. Non credo che sia la giusta soluzione. La globalizzazione racchiude una grande promessa, ma comporta anche molti rischi. Per ora, si direbbe che il suo effetto a breve termine sia stato un aumento delle disuguaglianze sociali a livello internazionale. Ma la globalizzazione potrebbe anche favorire una maggiore uguaglianza, se l’Organizzazione mondiale del commercio e il Fondo monetario internazionale adotteranno politiche socialdemocratiche anziché neoliberali.
Quale forma dovrebbe assumere una socialdemocrazia globale? Purtroppo non esiste nulla di simile, neppure lontanamente, a uno Stato mondiale o a un governo politico globale. Il Consiglio di sicurezza e l'Assemblea generale delle Nazioni Unite sono assolutamente inefficaci, e questo è una parte del problema.
Quel che vediamo, però, è che lo Stato-nazione garantisce ancora, almeno in parte, la possibilità di adottare misure a tutela della propria comunità. Uno Stato giusto ed efficiente è molto utile. Ma occorre anche riflettere, per esempio, su come il diritto del lavoro internazionale abbia facilitato l’organizzazione di sindacati in Paesi come la Cina comunista. I sindacati indipendenti possono essere un fattore di uguaglianza nella misura in cui favoriscono un aumento dei salari e un miglioramento dei servizi sociali a beneficio dei lavoratori cinesi, oltre che lo sviluppo del mercato interno, riducendo il divario con i loro colleghi del Messico, dell’Indonesia o addirittura del Bangladesh. Così chi oggi cerca idee per la sinistra anche di questo, dei diritti globali dei lavoratori, non può non tenere conto.
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