L'allontanamento dal "Manifesto". Il conflitto fra generazioni. Le nuove disuguaglianze. Colloquio con la "ragazza del Novecento"
di Simonetta Fiori  repubblica.it
"No, non ci capiamo più. Li ho ascoltati per tanti anni, un lungo  miagolio sulle mie spalle. Venivano dalla madre a raccontare le  delusioni esistenziali. Gli amori, le speranze, le difficoltà. Ma ora  davvero non ci capiamo più". Lo sguardo è severo e insieme sorridente,  l'incarnato candido come le camelie che fioriscono nel giardino qui  intorno. Da qualche mese Rossana Rossanda vive a Brissago, un angolo del  Canton Ticino dove si fermerà fino alla fine di agosto. "Sì, è un bel  posto. Dall'ospedale di Parigi vedevo solo la periferia, qui c'è il lago  per fortuna increspato dal vento. Per chi non la conosce, la Svizzera  può essere incantevole. Ma pare che chi ci vive la trovi  insopportabile". 
Azzurro ovunque, le vele bianche, anche i monti  innevati, una bellezza quasi sfacciata e intollerabile allo sguardo  ferito di chi abita nella grande casa di vetro affacciata sul lago  Maggiore. "La prego", si rivolge con famigliarità all'infermiere, "può  dare un po' d'aria alle rose?". La stanza è luminosa, sul comodino la  bottiglia di colonia e la biografia di Furet, un po' più in là l'ultimo  libro di Asor Rosa, I racconti dell'errore. "È un bellissimo  libro sulla vecchiaia e sulla morte. Ma noi vogliamo parlare d'altro,  vero? I necrologi lasciamoli da parte". 
Per i più vecchi, nella famiglia del Manifesto, è stata l'eterna sorella maggiore, la quercia sotto 
cui ripararsi nella tregenda. Per i "giovani" - così li chiama, anche  se giovani non sono più da tempo - è la madre temuta e ingombrante. "Sì,  una madre castratrice. Mi hanno sempre visto così, anche se io non mi  sono mai sentita tale. Ho sempre cercato di capire, di dar loro spazio,  ma forse è una legge generazionale. I figli per crescere hanno bisogno  di uccidere i padri e le madri. E ora è toccato anche a me".
Nel settembre scorso ha lasciato il giornale  da lei fondato con un articolo molto polemico: è mancata una  riflessione su chi siamo, su cos'è diventato il quotidiano, sul rapporto  con le origini e con il presente. Su cos'è oggi la sinistra. Insieme a  Rossanda, se ne sono andati anche Valentino Parlato e diverse altre firme. "Non siamo noi ad essercene andati. È il Manifesto  ad averci cacciato. L'abbiamo perso. Non voleva più saperne di noi, e  noi ci siamo ritirati. Anche stupidamente, perché dovevamo essere noi a  far tacere i più giovani. C'è stata una grandissima cesura, tra la  nostra generazione e quella successiva. Mossi da una sorta di  risentimento, non fanno che dirci: soltanto un mucchio di macerie, ecco  quello che ci avete lasciato. Voi, con le vostre certezze e le vostre  idee granitiche. È la frase più stupida che abbia mai sentito". 
Macerie,  certezze, noi e loro. Nessun errore, nessun ripensamento? "Il mio  errore è stato non tenere unito il gruppo. E anche non capire che, se  per la nostra generazione è stata dura, per quelli nati negli anni  Settanta e Ottanta del secolo scorso lo è ancor di più. Ma non dovevamo  farci portare via il giornale. Come in un refrain, ci ripetono: è  cambiato tutto, niente è più uguale a prima. Ma cosa vogliono dire?  Cos'è questo tutto che è cambiato?".
Il mondo le appare più  ingiusto che mai, tra privilegio e povertà, sfruttatori e sfruttati,  management superpagato e lavoratori affamati. "Non c'è mai stata tanta  ineguaglianza nella storia. Però si passa sopra tutto questo, non  importa. È stato assorbito anche dai giovani il bisogno di abolire il  conflitto, come se lo scontro sociale fosse una roba del secolo scorso.  Anche il Manifesto ci ha rinunciato da tempo, mescolando  confusamente beni comuni ed ecologismo. Sì, certo, di queste cose non me  ne importa niente anche per miei limiti. Ma sento il bisogno di  chiedere un ritorno al conflitto di classe. E non penso a un estremista  assetato di sangue, ma alle analisi di Luciano Gallino, che io ricordo  all'epoca di Adriano Olivetti". 
Le fa orrore una società  pacificata, "l'assurda intesa benedetta da Napolitano tra Berlusconi e  quel po' di sinistra che resta". E non ha grande fiducia nei movimenti,  generosi e vitali ma impotenti. "Prevale ovunque l'antipartito, che mi  sembra profondamente sbagliato. I partiti hanno avuto molti difetti, ma  ciascuno da solo non combina niente. L'alternativa rischia di essere  Grillo, il quale è riuscito a condensare i peggiori vizi dei partiti -  l'autorità del Capo - senza esercitarne la funzione più nobile, ossia  tenere insieme le persone, impegnarle in un progetto comune. Poi lo  stile: quello che ha fatto con Rodotà è al di sotto di ogni decenza". 
No, ora non le interessa più tornare al Manifesto,  confondersi "in quel chiacchiericcio insensato". Preferisce scrivere  "su un sito di economisti intelligenti come Sbilanciamoci". Ma non è una  rottura personale, solo politica. Lo ripete più volte, come se ci  volesse credere. "Almeno per me è così. Non mi pesa aver litigato con  qualcuno, umanamente faccio la pace subito. Io non faccio pace con le  idee, che è cosa molto diversa. Ma i giovani ragionano in altro modo. E  forse io voglio più bene a loro di quanto loro ne vogliano a me". 
Ora che è finita, quella storia può essere raccontata, cominciando dall'inizio. Là dove chiude Una ragazza del secolo scorso, con la nascita del Manifesto  e il tentativo di far da ponte tra il Sessantotto e la vecchia  sinistra. "Non funzionò e vorrei tentare di capire cosa è successo. Il  libro l'ho già in testa, si tratta di scriverlo. Più che l'attuale  divisione da Norma Rangeri, mi pulsano gli antichi contrasti con Pintor,  Magri e Natoli". Bisogna capire tante altre cose, anche perché il paese  s'è ridotto in questo stato. "Lucio è stato quello che dal fallimento  politico ha tratto le conclusioni più pesanti, scegliendo di morire. La  perdita della moglie amata ha coinciso con una perdita di senso più  generale. E ha preferito andarsene". Perché volle accompagnarlo  nell'ultimo viaggio? "Era il minimo che potessi fare. Nel nostro gruppo,  ero la persona che l'aveva più ferito. All'epoca del Pdup, gli portai  via il giornale, sottraendogli la carta più forte nella discussione con  Berlinguer. Naturalmente lo rifarei da capo, ma è sicuro che gli feci  male. E avendogli voluto molto bene, mi è parso il minimo stargli vicino  nel momento della fine. Stava male da anni, non era una malinconia  passeggera. Abbiamo fatto di tutto per dissuaderlo, ma non ci siamo  riusciti. Allora gli ho chiesto: "Lucio, vuoi che ti accompagni?".  Speravo mi dicesse no. Invece lui mi ha detto sì. E io l'ho fatto". 
Aveva  immaginato una morte serena, "come accadeva nell'antichità". E invece  no, non è andata così. "Un'esperienza terribile. Però è una scelta che  rispetto, e capisco. Vivere per vivere non ha molto senso. Se non ci  fosse Karol (ndr il marito malato che l'aspetta a Parigi) non avrei  alcun interesse a vivere". Accompagnare qualcuno verso la morte - disse  una volta in un dialogo con Manuela Fraire - vuol dire addomesticare il  pensiero della propria fine. "Il dolore ti fa capire molte cose, ossia  il dolore stesso. Noi rifuggiamo dall'esperienza negativa,  dall'annullamento, mentre il dolore ti sbatte sul muso questa roba, e  allora lo capisci. Non credo invece che tu possa uscirne migliorato,  perché è un'esperienza pesante, che può schiacciarti. Così come non  penso che il lutto si possa elaborare, ma rimane parte di te,  incancellabile". 
Tutte le persone perdute se le trascina dietro,  anche qui, davanti allo strano lago che assomiglia al mare. Il lago  nero della sua gioventù partigiana, quello dove i tedeschi buttarono i  corpi martoriati. "Oggi vivo nel presente, ma non è più il mio,  essendone venuti a mancare gli elementi costitutivi. Un presente che si  restringe nel tempo e nella frequentabilità. Prima potevo dire domani  vado a Berlino o salgo in montagna. Ora non lo posso dire più". Prevede  l'obiezione, gli occhi s'accendono d'ironia. "No, non mi piace  invecchiare. Sono entrata nel novantesimo anno, ma non ne faccio motivo  di vanto. Norberto Bobbio ci scrisse sopra uno splendido libro, De Senectute.  Ma io non appartengo a questa categoria. Sono rimasta esterrefatta  quando mi sono trovata un ictus addosso, e vorrei liberarmene. Cosa che  non avverrà. Noi del corpo non sappiamo nulla. Le mie amiche femministe  dicono che le donne siano più vicine all'organismo, ma non è vero. Ora  provo cosa vuol dire avere mezzo corpo, ed è terribile. Il corpo o è  integro, o non è. Non si è un po' paralizzati, un po' malati. Lo si è  completamente".
Ma la mente è lucida e affilata come prima  dell'imboscata. "Un'aggravante. Non ti puoi distrarre da quel che sei.  Non mi sono accorta di niente, quando mi è venuto l'ictus. Non ho  provato dolore, non sono caduta. Guardavo la tv, nella mia casa di  Parigi. E all'improvviso sono diventata una medusa, una creatura  gelatinosa e impotente. Ha presente un grosso medusone?". Ti guarda e  scoppia a ridere, come se l'improbabile mostro marino appena evocato  potesse portarsi via le paure. "Davvero, è così. Allora bisogna avere un  carattere energico, e dirsi: io vado avanti. Ma non ho questo  temperamento eroico".
Doriana, l'amica che non l'ha mai lasciata,  le porta il tablet per leggere. Rossanda è divertita e perplessa,  "chissà se mi ci abituo". Eterna sorella maggiore, quella che ne sa  sempre di più, e s'addolora se gli altri non la seguono, forse è lei  oggi a desiderare una sorella più grande. "No, sono prepotente. E non  potrei sopportarla". Le "ragazze del secolo scorso" sono fatte un po'  così. "Sì, certo appartengo al Novecento. Anche al giornale mi hanno  guardato come una donna di un tempo lontano. Ma è stato un grande  secolo, cosa che l'attuale non ha l'aria di essere. Abbiamo vissuto una  storia terribile, ma una grande storia. Ora siamo nelle storielle".
 
 
1 commento:
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