9.11.13

Quei devoti alla dea tangente che ogni anno rubano 60 miliardi

«Meno male che papa Francesco c’è», scrive Pino1947 guadagnandosi il primo posto tra i commenti più votati di Corriere.it. Meno male sì, perché la lotta ai «devoti della dea tangente», come li chiama il Papa, non pare in cima ai pensieri del mondo politico.

Nonostante i corrotti rubino al Paese, dice la Corte dei Conti, almeno 60 miliardi l’anno. Dodici volte l’Imu sulla prima casa.
Non è la prima volta che Jorge Mario Bergoglio va giù duro sulle bustarelle. Quand’era a Buenos Aires si scagliò contro il fenomeno con parole di fuoco, raccolte poi in un libro pubblicato dalla Emi (Editrice missionaria italiana) sotto il titolo «Guarire dalla corruzione». La sintesi è questa: «Il peccato si perdona, la corruzione non può essere perdonata». Di più: «La corruzione puzza. Odora di putrefazione»

Lo dicessero altri, immaginiamo la replica: «Uffa, il solito moralismo!» La stessa insofferenza che da anni colpisce chi, come don Luigi Ciotti, combatte con Libera una guerra frontale al sistema delle tangenti nella convinzione che «la corruzione è più grave del semplice peccato perché è un peccato sociale. Un male che si esercita non solo contro l’altro ma attraverso gli altri. Il corruttore ha sempre bisogno di un corrotto».
Non è solo una questione etica. Come spiegava tempo fa il Procuratore generale della Corte dei Conti, Furio Pasqualucci, «in tempi di crisi come quelli attuali» il peso delle tangenti è tale «da far più che ragionevolmente temere che il suo impatto sociale possa incidere sullo sviluppo economico del Paese» perfino oltre le stime «del servizio Anticorruzione e Trasparenza del ministero della Funzione pubblica, nella misura prossima a 50/60 miliardi di euro all’anno costituenti una vera e propria tassa immorale e occulta pagata con i soldi prelevati dalle tasche dei cittadini».
Una tesi ribadita dal successore Salvatore Nottola, secondo il quale le bustarelle fanno impennare del 40% il costo delle grandi opere. Un’affermazione raccolta dalla Cgia di Mestre che, partendo dai 233,9 miliardi di euro del programma delle infrastrutture strategiche 2013-2015, redatto dal governo Monti, ha calcolato che su questi lavori le tangenti peserebbero per 93 miliardi di euro in più. L’equivalente di quasi 6 punti di Pil. Gravando su ogni cittadino italiano per 1.543 euro».
Allora ti chiedi: come è possibile che i cittadini, così sensibili (giustamente) ai rincari di 50 o 100 euro sulle bollette della luce o del gas possono rassegnarsi a un prelievo medio di cinquemila euro l’anno a famiglia? Com’è possibile che non si rivoltino se lo studio «Eurobarometer 2011», presentato nell’autunno 2012, ha accertato che nell’arco dell’anno precedente 12 italiani su 100, quasi uno su otto, si erano sentiti rivolgere «almeno una richiesta, più o meno velata, di tangenti»?
Gian Antonio Stella (Corriere)

I numeri di «Transparency», l’organismo internazionale che misura la percezione della corruzione nei vari Paesi, del resto, dicono tutto. Nel 1995, mentre entravano nel vivo i processi di Tangentopoli quando l’Italia intera era impazzita per il pool di Mani Pulite e il settimanale Cuore rideva della catena di arresti giocando a tutta pagina sulla pubblicità Alpitour («No San Vitùr? Ahi ahi ahi…»), eravamo al 33º posto nella classifica dei Paesi virtuosi. Dieci anni dopo, come se l’onda moralizzatrice non fosse mai avvenuta, al 40º. Nel 2008 al 55º. Nel 2009 al 63º. E via via abbiamo continuato a scendere fino all’umiliante 72ª posizione del 2012. Quando ci siamo ritrovati un posto sotto la Bosnia Erzegovina e addirittura otto sotto il Ghana.
Uno scivolone mortificante. Sulla scia dei numeri sconcertanti forniti nel 2008 dall’Alto commissariato per la lotta alla corruzione. Dove le tabelle, su dati ufficiali del ministero della Giustizia, dimostravano dal 1996 al 2006 una catastrofica sconfitta: da 608 a 210 condanne per peculato. Da 1159 a 186 per corruzione. Da 555 a 53 per concussione. Da 1305 a 45 per abuso d’ufficio. Un tracollo. Ancora più grave in alcune situazioni locali. Da 421 a 38 condanne per corruzione in Lombardia, da 123 a 3 in Sicilia…
Non bastasse, uno studio di Pier Camillo Davigo e Grazia Mannozzi dimostra che anche i pochissimi che sono stati condannati per corruzione se la sono cavata con un buffetto: il 98% con meno di due anni di carcere. Ovviamente condonati. Una percentuale che grida vendetta e dimostra l’abisso che ci separa ad esempio dall’America. Il deputato californiano Randy «Duke» Cunningham, ha avuto per corruzione (anche se era un eroe dell’aviazione al centro del film «Top Gun») otto anni di galera. Il governatore dell’Illinois George Ryan, candidato al Nobel della pace per la sua avversione alla pena di morte, sei e mezzo. Il suo successore Rod Blagojevich, che cercò di vendersi il seggio di senatore lasciato libero a Chicago da Barack Obama, addirittura quattordici. Uscirà, se avrà tenuto una buona condotta, nel 2024.
È un peso enorme, quello delle mazzette. Perfino al di là dell’aspetto morale. Lo testimonia un dossier di Confindustria del 2012 che spiega come gli investimenti esteri in Italia siano precipitati dal 2% del totale spalmato su tutto il pianeta nel periodo 2000-2004 a un misero 1,2% negli anni 2007-2011. Quasi un dimezzamento. Una sconfitta storica. Ancora più grave nel Mezzogiorno. Spiega infatti quel dossier che di tutti i soldi stranieri arrivati nel nostro Paese quelli investiti in Campania sono stati l’1%, in Puglia lo 0,8%, in Sardegna lo 0,6%, in Sicilia lo 0,4%, in Calabria lo 0,2 e in Basilicata lo 0,1…
Risultato finale: tutto il Sud messo insieme, compreso l’Abruzzo (2,2%) e il Molise (zero!) non ha raccolto che il 5,3%. Sarà una coincidenza se, nel grafico dell’Istituto di ricerca «Quality of Government Institute» del 2010 le nostre regioni sono considerate, tra 172 regioni europee, tra le più corrotte?

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