8.3.15

Le mimose lasciatele a casa

Lea Melandri (Il manifesto)

Chissà per­ché la ricor­renza di un evento lut­tuoso — quale è stato sto­ri­ca­mente l’8 marzo — è diven­tata, prima la «gior­nata» e poi «la festa della donna»?

Per anni ho costretto me stessa a darle un senso, più che altro per il rispetto dovuto a tutte le asso­cia­zioni, gruppi fem­mi­nili e fem­mi­ni­sti che avreb­bero preso quell’occasione per incon­tri e dibat­titi su temi di comune interesse.

Oggi, di fronte ai rima­su­gli penosi, che escono dalle radio, dalle tele­vi­sioni e dai gior­nali, di quella che per­vi­ca­ce­mente, ver­go­gno­sa­mente resta la «que­stione fem­mi­nile» — le donne con­si­de­rate alla stre­gua di un gruppo sociale svan­tag­giato o come un «genere» da ugua­gliare o tute­lare sulla base dell’ordine creato dal sesso vin­cente -, ho un desi­de­rio forte e deciso:
– che non se ne parli più
– che nes­suna data venga d’ora innanzi a far da velo a uno dei rap­porti di potere che oggi, molto più che in pas­sato, appare sco­per­ta­mente come la base di tutte le forme di domi­nio che la sto­ria ha cono­sciuto, nella nostra come nelle altre civiltà
– che si dica con chia­rezza che non di «cose di donne» stiamo par­lando, ma dell’idea di viri­lità che ha deciso dei destini di un sesso e dell’altro, della cul­tura e della sto­ria che vi è stata costruita sopra, nel pri­vato come nel pub­blico
– che gli uomini si pren­dano la respon­sa­bi­lità di inter­ro­garsi sulla vio­lenza di ogni genere per­pe­trata nei secoli dai loro simili, e che lo fac­ciano, come hanno fatto le donne, «par­tendo da se stessi», con­sa­pe­voli che sono inda­gando a fondo nella sin­go­la­rità delle vite e delle espe­rienza per­so­nali pos­siamo sco­prire le radici di una visione del mondo che ci acco­muna, al di là di spazi e tempi.

Non sono pre­giu­di­zial­mente con­tra­ria alle ricor­renze, ma vor­rei che, senza stor­piarne o bana­liz­zarne il signi­fi­cato, diven­tas­sero per tutti un momento di rifles­sione: rico­no­sci­mento degli inter­ro­ga­tivi che vi sono con­nessi e delle aspet­ta­tive di cam­bia­mento che da lì si pos­sono aprire.

Non è stato così per l’8 marzo, che ha visto un tema di pri­ma­ria impor­tanza per la crisi che stanno attra­ver­sando la poli­tica, l’economia e la civiltà stessa — la rela­zione tra i sessi, la divi­sione ses­suale del lavoro, la dico­to­mia tra pri­vato e pub­blico, natura e cul­tura, ecc.- restrin­gersi pro­gres­si­va­mente a pochi scam­poli riven­di­ca­tivi det­tati dall’endemica «mise­ria femminile».

A quante mi obiet­te­ranno che così si toglie un’opportunità di por­tare allo sco­perto, sia pure per un giorno solo, il fati­coso lavoro car­sico del movi­mento delle donne, rispondo che può essere, al con­tra­rio, la spinta a creare da noi stesse le occa­sioni di incon­tro che ci ser­vono, senza atten­dere che ci ven­gano offerte da altri, con un maz­zetto di mimose.

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