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22.11.16

Vivere ai tempi della post-verità


Post-truth, cioè post-verità, è la parola dell’anno per l’Oxford dictionary. La prima notizia è che l’uso di questo termine cresce del duemila per cento nel 2016 rispetto all’anno precedente. Il termine “denota o si riferisce a circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti degli appelli a emozioni e credenze personali nel formare l’opinione pubblica”. Volendo, potete anche dare un’occhiata al breve video che segnala le altre parole prese in esame per quest’anno: tutte assieme, costituiscono una interessante rassegna delle tendenze e delle idiosincrasie contemporanee.
Tra tutte le parole considerate, post-truth è apparsa come quella che, per dirla con Katherine Martin, a capo dell’edizione americana dell’Oxford dictionary, cattura meglio l’attuale spirito del tempo e ha il potenziale per restare “culturalmente significativa nel lungo periodo”.
Siamo proprio messi bene.
La seconda notizia interessante è che, come non sempre succede, la medesima parola è selezionata dall’Oxford dictionary sia per gli Stati Uniti sia per il Regno Unito. Del resto, tra Brexit e Trump, entrambi i paesi hanno avuto la loro dose da cavallo di post-verità.
Le notizie di Pinocchio
La terza notizia interessante è che la scelta del termine post-truth era stata compiuta già prima che i risultati delle elezioni americane fossero noti. È proprio la recente campagna elettorale statunitense a offrirci una collezione di elementi tale da restituire una vivida idea di quel che significa vivere ai tempi della post-verità.
Dovete sapere che i fact-checker del Washington Post valutano il grado di verità delle affermazioni assegnando Pinocchi. Un Pinocchio corrisponde a una quasi-verità, due Pinocchi sono una verità con omissioni o esagerazioni, tre Pinocchi sono una quasi falsità, o una verità espressa in maniera molto fuorviante, quattro Pinocchi sono una bufala totale.
La verità o la falsità palese sono ininfluenti in termini di successo politico, ma a spararle davvero grosse poi si vince
Infine, un Pinocchio capovolto corrisponde al ritrattare un’affermazione precedente facendo finta di niente, e un segno di spunta (o Geppetto) corrisponde alla pura verità. Bene: nel corso della sua campagna elettorale Trump batte ogni record collezionando ben 59 affermazioni da quattro Pinocchi, e dicendo cose come: “La disoccupazione negli Usa è al 49 per cento” – in realtà è al 5 per cento. Oppure: “Risparmierò 300 miliardi sulle prescrizioni di Medicare” – in realtà l’intera spesa ammonta a 78 miliardi. Clinton rimane nella media: cioè mente, ma più o meno quanto mentono di norma i politici, e le sue menzogne da quattro Pinocchi riguardano quasi esclusivamente la faccenda delle email.
La conclusione ottimistica è che la verità o la falsità palese sono del tutto ininfluenti in termini di successo politico. La conclusione pessimistica è invece che, a spararle davvero grosse blandendo le peggiori emozioni e credenze personali, poi si vince alla grande.
Ma vivere ai tempi della post-verità non è solo questo: mentre Trump spara impunemente raffiche di Pinocchi, più di 300 siti, in quasi la metà dei casi (140) basati a Veles, in Macedonia, e gestiti da smanettoni a cui della politica americana importa meno che nulla, diffondono in rete bufale di estrema destra, le più ghiotte, le più condivise, e dunque le più remunerative.
L’unico obiettivo degli smanettoni è raccattare milioni di clic e fare soldi grazie a Facebook e ad Adsense, la pubblicità di Google. Con le bufale sui social network si possono guadagnare anche diecimila dollari al mese. L’influenza esercitata sui risultati elettorali americani è, chiamiamola così, l’effetto collaterale di un modello d’impresa macedone tanto efficace quanto fuori di testa.
C’è un ulteriore elemento sconcertante. Il Guardian segnala l’esistenza del business macedone della bufala già a fine agosto. Google e Facebook fanno finta di niente e reagiscono solo a frittata fatta, il 14 novembre, dichiarando che non concederanno più pubblicità ai siti e alle pagine di bufale. Ma, fino a tre giorni prima, Zuckerberg negava che Facebook potesse influire sulle elezioni presidenziali, con ciò aggiungendo un ulteriore pezzetto di post-verità all’intero quadro.
Ci siamo ritirati nelle nostre camere dell’eco, ripetendoci a vicenda opinioni di cui siamo già convinti
Se fosse la trama di un romanzo distopico, ci sembrerebbe non solo esagerata, ma troppo stupida. Dai, come è possibile che, per esempio, la gente creda alla bufala che il papa sostiene Donald Trump (quasi centomila condivisioni)? E, d’altra parte, come è possibile che migliaia di analisti, sondaggisti, esperti, giornalisti brillanti e scafatissimi caschino giù dal medesimo pero per ben due volte a distanza di pochi mesi, prima con la Brexit e poi con Trump, continuando a sottovalutare la rilevanza del cocktail velenoso e pervasivo di frustrazione, disinformazione, complottismo e falsità veicolate in rete?
Oh-oh, oggi il 44 per cento della popolazione si “informa” tramite Facebook. È un fatto che, per le élite che si informano in modi più canonici, è difficile da credere, accettare e interiorizzare.
Oh-oh, oggi i social media, ai quali ci piace continuare a pensare come a uno strumento paritario e democratico di interscambio e condivisione, possono trasformarsi, e spesso si trasformano, in palazzi degli specchi nei quali ciascuno cerca e trova solo conferme alle proprie opinioni, e vede riflessi solamente se stesso, la propria rabbia e il proprio malessere.
Gli anglosassoni parlano di “camere dell’eco” (echo-chambers). Un bell’articolo dell’Independent descrive perfettamente il fenomeno delle echo-chambers, dove non esiste la verità dei fatti, perché ciascuno ha selezionato e riceve solo le notizie e i commenti con i quali concorda a priori. Ed eccoci a un altro punto interessante: “Anche noi”, scrive ancora l’Independent, “ci siamo ritirati nelle nostre camere dell’eco, ripetendoci a vicenda opinioni di cui siamo già convinti”. Dunque, ragiona l’Independent, se sono camere dell’eco le pagine d’odio alimentate, per esempio, dalle bufale macedoni, perfino il complesso dei mass media più autorevoli si è trasformato in una grande echo chamber, magari più ariosa e meglio decorata.
Uscire dalla bolla
Questo, credo, succede perché sono state fatte due cose giuste, doverose e legittime, e una sbagliata: giusto e legittimo sbugiardare bufale e menzogne, e ignorarne l’esistenza all’interno della narrazione sui mezzi d’informazione più autorevoli.
Sbagliato e ingenuo, però, sottovalutare la crescente rilevanza e il peso del fenomeno costituito dalla vorticosa diffusione delle bufale, e il conseguente avvento della post-verità. Le bufale e le credenze in sé sono false, ma il fenomeno delle bufale e delle credenze diffuse in rete è del tutto reale.
È così reale da risultare pervasivo. È così reale da causare conseguenze dirompenti. Torniamo per un momento alla Brexit: ce lo ricordiamo tutti, vero?, che nel Regno Unito molte persone sono andate a cercare in rete che cosa sia l’Unione europea solo dopo aver votato contro l’Unione europea in base a emozioni e credenze personali?
Prima, tutti chiusi a crogiolarsi nelle proprie echo-chambers.
Il New York Times disegna questa situazione offrendoci una metafora visiva potente della condizione odierna degli Stati Uniti. Due diverse immagini mostrano il paese dell’oceano trumpista e quello delle isole clintoniane. Con ogni probabilità oggi i due paesi si percepiscono, comunicano e si capiscono talmente poco che potrebbero trovarsi su due pianeti differenti, ciascuno chiuso nella bolla della sua post-verità.
Non ho la più pallida idea di come si possano concretamente migliorare le cose, restituendo all’opinione pubblica nel suo complesso una più fedele e meno post-veritiera rappresentazione del reale. So anche che la complessità del reale è così scoraggiante da spingerci tutti, élite comprese, a rifugiarci ciascuno nella propria bolla.
L’unica cosa di cui sono certa è che per cominciare a prendere contatto con il problema bisogna che qualcuno esca dalla sua bolla. Farlo è sgradevole, è destabilizzante e chiede una serie di assunzioni di responsabilità. Ci vogliono calma, coraggio, realismo e buonsenso: qualità sempre più rare e difficili da coltivare, ai tempi della post-verità.

13.1.15

Cervelli politici

Annamaria Testa (Internazionale)

Da qualche anno le neuroscienze hanno cominciato a osservare la politica, o meglio hanno continuato a osservare cervelli considerandone caratteristiche e attività, e connettendole con gli orientamenti politici dei proprietari dei cervelli medesimi.
Gli studi sono agli inizi e non è ancora ben chiaro se le strutture cerebrali che mediano gli orientamenti politici ne siano la causa o l’effetto. È anche possibile che questo sia uno dei tanti casi di coevoluzione (il fenomeno A alimenta il fenomeno B, che a sua volta accresce il fenomeno A, e così via).
Comunque, vi invito sia a premettere un ideale “sembra che…” alle affermazioni che leggete in seguito, anche se sono tutte state pubblicate su riviste di ottima reputazione, sia a trarre qualche conclusione provvisoria sì, ma suggestiva.
La paura ci orienta a destra
Già nel 2011, i ricercatori dell’University College London scoprono (qui la sintesi dello studio) che i cervelli delle persone con un orientamento più conservatore sono dotati di una minor quantità di materia grigia nella neocorteccia (la parte cognitiva, più recente, che sa gestire l’incertezza e le informazioni contraddittorie) e hanno amigdale più grandi.
Ora, l’amigdala è un affaretto a forma di mandorla che fa parte della porzione primitiva del cervello, ed è associata con le emozioni, prima fra tutte la paura, con la memoria emozionale e con la reazione fight or flight (attacca o scappa).
Per dirla con Rita Levi Montalcini: il cervello arcaico “non si è praticamente evoluto da tre milioni di anni fa a oggi, e non differisce molto tra l’ homo sapiens e i mammiferi inferiori. Un cervello piccolo, ma che possiede una forza straordinaria. Controlla tutte quelle che sono le emozioni. Ha salvato l’australopiteco quando è sceso dagli alberi, permettendogli di fare fronte alla ferocia dell’ambiente e degli aggressori. L’altro cervello è quello cognitivo, è molto più giovane. È nato con il linguaggio e in 150.000 anni ha vissuto uno sviluppo straordinario, specialmente grazie alla cultura. Si trova nella neo-corteccia. Purtroppo, buona parte del nostro comportamento è ancora guidata dal cervello arcaico”.
Legami sociali più ampi ci orientano a sinistra
L’università del South Carolina, nel 2012, va invece a indagare la correlazione tra orientamento politico e neuroni-specchio, la cui attività coinvolge le relazioni sociali, l’apprendimento, il linguaggio e l’empatia (qui la sintesi della ricerca).
Ne risulta un dato che in parte corrisponde allo stereotipo dei due schieramenti, e in parte lo amplia. Di fatto, progressisti e conservatori elaborano i propri legami sociali in maniere diverse: i primi hanno il senso di una connessione sociale più estesa (dagli amici al mondo nella sua interezza), i secondi quello di una connessione sociale più tight, nel doppio significato di più stretta e più salda, nei confronti della famiglia e della nazione.
Il disgusto ci orienta a destra
Una interessante Ted conference del 2012 approfondisce i legami tra politica e disgusto e racconta come il disgusto sia contagioso e comprenda l’idea di “contaminazione”. Alcuni dei risultati presentati sono sorprendenti. Per esempio: basta riempire una stanza di cattivo odore perché le opinioni dei soggetti sottoposti a test si spostino a destra.
Al livello neurale, il legame tra disgusto e orientamento conservatore è confermato da una recente (ottobre 2014) ricerca del Virginia Tech Carilion research institute, che mostra come l’intensità della reazione cerebrale a immagini semplicemente disgustose (ma prive di qualsiasi attinenza politica), rilevata con la risonanza magnetica funzionale, possa predire con “un’impressionante accuratezza del 98 per cento” gli orientamenti politici delle persone. In altre parole: i cervelli che reagiscono più intensamente al disgusto appartengono a persone orientate a destra (qui un’intervista con Read Montague che ha condotto lo studio. Qui l’intero studio).
I ricercatori non si stancano di sottolineare che il cervello è plastico e che la sua struttura è il risultato dell’interazione costante tra eredità (cioè: il dna trasmesso dai genitori) e ambiente (cioè la somma di apprendimenti ed esperienze sperimentate nell’intero corso della vita). L’istruzione, fra tutti i fattori ambientali resta una potentissima leva di cambiamento degli orientamenti e dei destini individuali.
Tuttavia, se consideriamo la nettezza dei risultati di ricerca ottenuti, possiamo provare a trarre qualche conclusione, provvisoria sì, ma suggestiva.
1) Chi vuole parlare efficacemente alla destra, o chi vuole promuovere idee di destra, deve far leva sul disgusto, suscitandolo, accentuandolo, evocando rischi di contaminazione.
2) Chi fa leva sulla paura o agita lo spettro di un qualsiasi “nemico” (un vecchio ma tuttora efficacissimo trucco della propaganda) sta promuovendo istanze di destra.