Il panico delle Borse per i titoli tossici, il reclutamento sul web dei terroristi, le emergenze sanitarie: non si contano i fenomeni virali, fino a configurare un processo sempre in atto, scarsamente prevedibile, che può espandersi o contrarsi. Questo tuttavia finisce pur sempre per rivelare ciò che, nell’essere umano, è stabile e duraturo, e si rinnova a ogni generazione. Ne hanno parlato Albert Camus nella «Peste» e George Orwell in «1984».
Ma forse la pagina più istruttiva si trova già nelle «Storie» di Tito Livio
di Emanuele Trevi (Corriere)
Non sono il solo a nutrire una tenace diffidenza nei confronti dell’aggettivo «globale». Con tutte le sue pretese di spiegare la realtà, mi sembra una parola difettosa, sospesa tra la pura tautologia e la petizione di principio. Più che esprimere un pensiero, denuncia un’abitudine. Al concetto di «virale», invece, e alla metafora del «contagio» che gli fa da base, attribuisco una grande credibilità. Il «virale» designa alla perfezione tutti gli innumerevoli fenomeni che costituiscono la cosiddetta «globalità». Non è un destino, una legge, un dato di fatto a cui dobbiamo adeguarci, bensì un processo sempre in atto, scarsamente prevedibile, dotato di possibilità di espansione e contrazione.
Per constatare quanto la metafora sia adatta a render conto di molti dei fenomeni più emblematici del nostro tempo, lungo un arco di significato che va dalle catastrofi economiche ai prodotti estetici, basta seguire un telegiornale dall’inizio alla fine. In queste settimane, la notizia di apertura riguardava spesso le Borse asiatiche. Ogni mattina, misteriose fluttuazioni di valori e listini generano un contagio di sfiducia che accompagna il corso del sole come i fidi cavalli alati della mitologia, ritornando al punto di partenza dopo essersi propagato attraversando mari e continenti. Simili a medici che hanno esaurito tutti i loro rimedi, gli operatori finiscono sempre per guardare i loro monitor a braccia conserte, augurandosi che chi ha deciso di inoculare il virus questa volta non esageri.
Dalla finanza alla geopolitica, in un notiziario, il passo è breve. Il bollettino del terrorismo planetario va aggiornato di continuo, ma l’orrore delle imprese jihadiste è la conseguenza di un altro genere di contagio, che infesta le reti dei social network contatto dopo contatto. Questo virus è così potente da trasformare nel giro di qualche giorno persone in apparenza normalissime in mostri decisi a farsi saltare in aria trascinando con sé il maggior numero possibile di innocenti. L’efficacia del reclutamento incute quasi più paura degli attentati. I servizi finali di un telegiornale per tradizione sono meno ansiogeni, e appartengono a quell’indefinibile galassia che nelle redazioni viene definita come «cultura e spettacoli». Ma non per questo la metafora del contagio perde la sua forza: al contrario, la viralità decreta molte delle effimere glorie artistiche di oggi, con grande scorno dei vecchi critici aggrappati ai loro scranni e a un modello del sapere e del giudizio in via d’estinzione.
Nell’immaginare questo telegiornale, stavo dimenticando che è sempre più raro un periodo privo di minacciosi allarmi sanitari — come appunto il virus Zika di questi tempi o le ricorrenti paure legate alla meningite —, destinati o meno a tramutarsi in emergenze vere e proprie. Tra i tanti impieghi metaforici, un concetto deve pur mantenere una sua base di senso letterale. Altrimenti, le metafore farebbero la fine dei palloncini che si perdono nel cielo. Le epidemie e i contagi, considerati in senso sanitario, risvegliano tratti arcaici nella nostra umanità dall’illusione di un progresso lineare e infinito. Sorridiamo degli antichi e della loro teoria dei «miasmi» vaganti nell’atmosfera, inorridiamo leggendo la Storia della colonna infame di Manzoni, ma con tutta la nostra tecnologia, i vaccini sono difficili da trovare come gli aghi nel pagliaio dei proverbi. Ed è il nostro modo di vita, fondato sulla facilità degli spostamenti e dei contatti, a rendere i virus più pericolosi di quanto lo fossero nell’Atene di Tucidide o nella Londra di Daniel Defoe.
La verità è che, prima ancora che definirsi «mortale», l’umanità dovrebbe pensare a se stessa come la forma di vita più «contagiabile» al mondo. Dagli organi del corpo alle più sottili e impalpabili emozioni, non esiste nulla in noi che sia dotato di un’esistenza autonoma. A partire dalla più umana delle facoltà, quello straordinario contagio perpetuo che è il linguaggio. Sarà per questo che tutte le forme di saggezza superiore elaborate dalle culture più diverse hanno in comune un ideale di separazione tanto fisica quanto spirituale. Dai filosofi-maghi taoisti ai sapienti greci, dagli asceti indiani ai poeti romantici, per non parlare degli eremiti cristiani dei primi secoli, un buon uso della solitudine è la caratteristica fondamentale dell’uomo dotato in misura eccezionale di poteri spirituali e consapevolezza. Come lo Zarathustra di Nietzsche, quest’uomo potrà pure un bel giorno decidere di scendere fra gli uomini dalla sua montagna, ma è lì che è diventato se stesso. La solitudine lo ha preservato dal contagio delle opinioni, ha tenuto acceso in lui il fuoco esclusivo della verità.
Non si tratta di un vano ideale aristocratico di sapore fascistoide. Una preoccupazione non diversa poteva animare Albert Camus quando, nel 1947, pubblicava La peste , un capolavoro che troppo spesso tendiamo a relegare nell’insipido limbo delle letture scolastiche. E invece, è uno di quei libri che non sentono gli anni, il frutto di un’intuizione antropologica fulminante. La grande allegoria di Camus si basa su un sorprendente rovesciamento: l’epidemia di peste che si abbatte all’improvviso su Orano è certamente un’emergenza imprevedibile. Ma se lo stato d’eccezione sovverte abitudini e valori, finisce pur sempre per rivelare ciò che, nell’essere umano, è stabile e duraturo, e si rinnova a ogni generazione. Il contagio è immaginato da Camus come un assedio. Dalla pacifica e sonnolenta città della costa algerina, nessuno può più uscire. E chi si trovava fuori nei giorni in cui l’epidemia è scoppiata, non può fare ritorno a casa. Mentre il conto dei morti sale implacabile giorno dopo giorno, si instaurano nuove leggi e vengono minacciate severe punizioni per chi le infrange. Sono tutte misure profilattiche razionali, ispirate al bene comune. Ma c’è un prezzo da pagare. La peste rende tutti uguali. Il primo effetto della paura sembra quello di annullare quelle esigenze di libertà che sono proprie all’individuo, all’irripetibile conformazione dei suoi desideri e delle sue speranze. Non potrebbe andare diversamente, vista la situazione. È la regola di ogni emergenza: sanitaria, economica, criminale. La grande morìa dei topi di Orano, descritta nelle pagine iniziali della Peste , suona come una terribile profezia, un geroglifico che nessuno al momento è capace di decifrare. A far inorridire non è solo la malattia che accomuna uomini e bestie nella stessa sorte, ma il fatto che i topi sono un’entità collettiva, la sinistra parodia di una società dove l’esistenza del singolo non ha più nessun peso, nessun senso.
Pochi mesi dopo La peste , George Orwell pubblicò 1984 . Questi due grandi scrittori, spiriti liberi in un mondo infestato dal conformismo e dall’ottimismo di partito, raccontarono più o meno la stessa storia. La peste di Orano e il Grande Fratello non si oppongono, ma si integrano, sono simboli di un male che per manifestarsi non fa distinzione tra catastrofi naturali e incubi culturali. Non mancano, ahimè, le occasioni di constatare quanto sia illuminante il corto circuito innescato da Camus fra la peste e i flagelli inventati dall’uomo. Non c’è nulla che assomigli alla sua Orano stremata dal contagio più delle immagini di Parigi e Bruxelles paralizzate dal terrore che si vedevano in televisione lo scorso novembre.
Ancora meglio di Orwell e Camus, noi oggi sappiamo che non c’è modo di rimediare alla caratteristica suprema della nostra vita fisiologica e mentale, che consiste in un grado irrimediabile di contagiabilità. La solitudine degli antichi saggi è diventata una strada impraticabile, una specie di mito psicologico. Forse l’unica vera risorsa che ci resta è quella di andare a scuola dalla peste, combattere il contagio con le sue stesse armi.
È l’idea che mi ispira quello che, in tutta la sterminata letteratura sulle epidemie, mi sembra il racconto più ricco di senso, e misterioso. Si tratta di poche righe del libro VII delle Storie di Tito Livio. Nel 364 avanti Cristo, una pestilenza molto aggressiva aveva messo Roma in ginocchio. Non si sapeva più quale dio implorare. Ai due consoli in carica viene una di quelle idee che solo la disperazione sa suggerire. Su invito delle autorità romane, arrivò in città dall’Etruria una compagnia di attori. I Romani, ci ricorda Livio, in quei tempi di sobrietà repubblicana erano guerrieri che al massimo si concedevano i rozzi piaceri del circo. L’impressione prodotta da quegli uomini e quelle donne che si aggiravano nelle strade silenziose della città infestata dovette essere di stupore e meraviglia. Non facevano nulla di speciale, osserva Livio, limitandosi a suonare il flauto e a mimare qualche azione stereotipata. Probabilmente non si trattava di una rappresentazione molto castigata. Ma la cosa più importante è che i giovani romani iniziarono a imitarli. Si scambiavano versi rozzi, destinati a suscitare il riso, e provavano a muoversi in modo adeguato alle cose che dicevano. Quei misteriosi stranieri avevano portato nelle mura di Roma il bacillo del teatro.
C’è molto da meditare su questa strana notizia che già ai tempi di Livio proveniva da un passato ormai remoto. Quello che ci racconta il grande storico è il sorgere di una forza contraria là dove tutto cospirava alla fine: un contagio nel contagio. Non è stata ancora trovata una strategia più efficace di questa.
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