Robert Skidelsky e Giorgio La Malfa (sole24ore)
Nel cercare di analizzare la natura dei problemi  che rendono difficile il cammino dell’Unione Monetaria Europea e  dell’euro in particolare, vi è molto da imparare dalle discussioni che  precedettero ed accompagnarono la Conferenza di Bretton Woods del luglio  del 1944, nella quale venne definito l’assetto economico del secondo  dopoguerra.Da un lato vi era il piano preparato da John Maynard Keynes che  prevedeva la creazione di una nuova istituzione, la International  Clearing Union (Icu), da porre al centro del sistema internazionale dei  pagamenti.  Dall’altro vi era il progetto, assai meno ambizioso,  elaborato dal sottosegretario americano al Tesoro, Harry Dexter White,  per l’istituzione di un Fondo Monetario Internazionale. Fra i due  programmi fu ovviamente il secondo, sostenuto dal Governo americano, ad  avere la meglio. 
I due progetti avevano un comune punto di partenza: l'esigenza di  adottare un regime di cambi fissi per evitare il ripetersi delle  svalutazioni competitive degli anni 30 e la frequente tentazione per gli  Stati di ricorrere, per tutelare la propria posizione valutaria, a  tariffe, quote e, in generale, al protezionismo. E tuttavia i due  progetti differivano radicalmente nella loro impostazione. Le differenze  riguardavano il ruolo dell'oro, le funzioni della nuova istituzione e,  soprattutto, i meccanismi di aggiustamento fra Paesi creditori e Paesi  debitori. Keynes proponeva di ridurre drasticamente il ruolo dell'oro  nelle transazioni internazionali, fino a eliminarlo del tutto. In questo  modo si sarebbe ridotto l'effetto deflazionistico derivante  dall'insufficienza delle riserve auree a livello mondiale. Sarebbe stata  la Icu a emettere una moneta creata ex-novo, il Bancor, in quantità  sufficienti a sostenere il commercio internazionale e la crescita  economica. White riteneva, invece, che l'oro, di cui gli Stati Uniti  detenevano riserve ingentissime, dovesse conservare il suo ruolo  centrale come punto di riferimento del sistema dei cambi fissi.
L'altra differenza cruciale fra i due progetti riguardava il  meccanismo di aggiustamento degli squilibri delle bilance dei pagamenti.  Come è evidente, al surplus di un Paese corrisponde il deficit di uno o  più degli altri Paesi. E questo squilibrio richiede di essere corretto.  Il problema è chi debba fare lo sforzo di operare la correzione. La  tesi di Keynes era che la responsabilità di mantenere l'equilibrio nel  commercio internazionale dovesse essere pienamente condivisa fra i Paesi  debitori e i Paesi creditori. I Paesi debitori dovevano certamente fare  degli sforzi per contenere la domanda interna, ma anche i Paesi  creditori avrebbero dovuto fare la loro parte, espandendo la domanda  interna in modo da contribuire alla correzione degli squilibri.  L'eliminazione dei surplus dei Paesi creditori avrebbe «fatto alzare  tutte le navi».In tal senso, per costringere i Paesi in surplus a  collaborare, Keynes prevedeva che le giacenze non utilizzate di Bancor  dei Paesi con un attivo di bilancia dei pagamenti sarebbero state  tassate con aliquote progressive e, in ultima analisi, confiscate.
In quel momento – si era alla fine della guerra – gli americani  avevano un forte attivo della bilancia dei pagamenti. Per questo  rifiutarono l'idea di un obbligo per i Paesi in surplus di spendere il  loro sovrappiù per aiutare i Paesi in deficit. Si opponevano anche  all'idea di una nuova moneta, come il Bancor, pensando che il dollaro  sarebbe stato il punto di riferimento del sistema. Non c'era bisogno di  una banca, ma di un ente (che fu poi il Fondo monetario internazionale)  che aiutasse, con i suoi prestiti, i Paesi in deficit ad avere più tempo  per introdurre le correzioni necessarie alla loro domanda interna. Da  questa idea si è progressivamente sviluppata la filosofia  dell'austerità, cioè della condizionalità dei prestiti alle misure  restrittive della domanda interna. Questa filosofia non solo ha dominato  le relazioni economiche internazionali in questi anni, ma è stata  assunta come visione di fondo dell'Unione monetaria  europea.Rappresentando un Paese uscito dalla guerra più forte di quando  vi era entrato, gli americani imposero la loro concezione. Non  tesaurizzarono però il loro surplus: attraverso misure come il Piano  Marshall aiutarono la ripresa dei Paesi debitori. Finché conservarono un  surplus, gli Stati Uniti poterono fornire il mondo dei dollari  necessari.
Negli anni 60 venne meno l'attivo della loro bilancia dei pagamenti.  Sorsero dei dubbi sulla solidità della garanzia di convertibilità del  dollaro che era stata posta al centro del sistema di Bretton Woods.  Alcuni Paesi chiesero la conversione in oro delle proprie disponibilità  di dollari e l'America dovette precipitosamente dichiarare la libera  fluttuazione del dollaro. Di colpo si passò ai cambi fluttuanti che  hanno potentemente contribuito al grande disordine internazionale degli  anni 70 ed 80. La lezione di questi avvenimenti è questa: un regime di  cambi fissi non può sopravvivere in presenza di un persistente  squilibrio nei saldi delle bilance dei pagamenti. Dunque è cruciale il  problema di come ripartire l'onere della correzione degli  squilibri.Questi semplici elementi storici sono utili nel valutare  l'esperienza della moneta comune europea. Il Trattato di Maastricht del  1992 istituì l'Unione monetaria europea, creò la Banca centrale europea e  previde il passaggio a una moneta comune a partire dal primo gennaio  del 1999. L'introduzione dell'euro doveva essere il primo passo verso  una piena unione economica (e politica), verso un vero e proprio Stato  federale europeo. Ma, da questo punto di vista, non vi è stato alcun  progresso significativo nel corso di questi diciotto anni. Per certi  aspetti, l'Unione monetaria europea rappresenta un passo in avanti  rispetto al Fondo monetario e un avvicinamento all'idea di Keynes di una  nuova moneta generata da una nuova istituzione. Ma a differenza del  Bancor, che doveva alimentare il commercio internazionale e lo sviluppo  economico, la gestione della moneta europea è vincolata a una rigida  visione antinflazionistica che ha dominato l'Uem, seppure tardivamente  temperata, quando la crisi europea ha assunto proporzioni molto gravi,  dal Quantitative easing del presidente Draghi.Peraltro, sul punto  cruciale della cura degli eventuali squilibri delle bilance dei  pagamenti, Maastricht non ha previsto nulla, né a carico dei Paesi  debitori, né, tantomeno, a carico dei Paesi in surplus.
Ma, mentre ai Paesi in deficit, a un certo punto la correzione viene  imposta dalle cose (per esempio dalla difficoltà di rifinanziare sui  mercati privati dei capitali un deficit persistente di bilancia dei  pagamenti), non vi è nell'Unione monetaria europea, alcun meccanismo per  obbligare i Paesi in surplus a liberarsi del loro attivo.Dunque, la  moneta unica europea non è niente altro che un regime di cambi fissi (e  immutabili) fra i Paesi partecipanti allo schema, in cui i Paesi in  surplus non hanno obbligo alcuno di concorrere alla correzione degli  squilibri commerciali, mentre i Paesi in deficit sono costretti, prima o  poi a introdurre politiche severamente deflattive senza poterle  alleviare con una correzione delle parità, come era nell'originario  regime di Bretton Woods. A questo si aggiunge il bias deflazionistico  della politica monetaria e le regole per la correzione dei deficit  pubblici. Il quadro risultante è seccamente deflattivo.L'insieme di  questi elementi spiega largamente la performance così negativa dell'Uem  nei suoi primi diciotto anni di vita in termini di crescita e di posti  di lavoro in paragone sia ai Paesi europei non-euro, sia agli Stati  Uniti. Il cambiamento profondo delle attitudini delle pubbliche opinioni  rispetto al progetto europeo che tutto questo ha causato rende del  tutto improbabile che possano essere intrapresi dei passi per il  completamento dell'euro.E in ogni caso: che cosa significherebbe  completare l'euro? Si può introdurre un obbligo di aggiustamento a  carico dei Paesi in surplus? Il precedente di Bretton Woods dice che è  molto improbabile che i Paesi in surplus accettino di condividere  l'onere del riequilibrio con i Paesi in deficit. Come allora gli Stati  Uniti, così oggi è improbabile che la Germania accetti una filosofia di  questo genere. Preferirà insistere, come del resto ripete  sistematicamente, che la sola strada per la salvezza è il lavoro duro e  l'astinenza da parte dei Paesi in deficit.Queste sono le cause  dell'andamento così insoddisfacente dell'Eurozona, il quale, a sua  volta, spiega la grave e crescente intolleranza delle opinioni pubbliche  di molti Paesi europei verso l'euro. Una ripresa economica solida  dell'Uem attenuerebbe queste ostilità. Ma l'Uem non può crescere in  misura adeguata se non muta la sua filosofia. E non sembra possibile che  muti la sua filosofia.
L'insoddisfazione pubblica può essere repressa a lungo, ma, come si è  detto, i regimi di cambi fissi che non prevedono un meccanismo di  aggiustamento simmetrico sono condannati. Così come la miopia di White  ha portato dopo venticinque anni alla fine di Bretton Woods, la mancanza  di un impegno solidale per far tornare la crescita e la piena  occupazione in Europa non potrà che produrre un analogo sconquasso. A  meno, ovviamente, che non intervenga una riconsiderazione fondamentale  delle basi dell'Unione monetaria europea.
 
 
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