Michael Bloomberg è accreditato di un patrimonio di oltre 61 miliardi di dollari: che, per capirci, è più del Pil di interi Paesi come Croazia o Uruguay. Secondo Forbes, è la quattordicesima persona più ricca del mondo. Per le primarie democratiche ha già speso 314 milioni di dollari, pur non essendo ancora entrato in corsa (lo farà per il supermartedì, il 3 marzo). I telespettatori americani sono subissati dai suoi spot - se n'è comprato pure uno per il Superbowl, unico tra i democratici. Ha assunto oltre 1.700 persone per la sua macchina elettorale
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
26.12.20
Accordo Brexit, lo scrittore Howard Jacobson “L’intesa con l’Ue è un sollievo amaro. Ma il destino di Johnson è segnato”
22.11.20
Oltre 2 milioni e mezzo di visioni, chi c’è dietro al film complottista «Hold-Up»
Il caso. Il documentario è l’opera di un triumvirato formato da due produttori e un filmmaker: Nicolas Réoutski e Christophe Cossé, in passato autori per France Television, e il giornalista Pierre Barnérias, che nei suoi lavori più recenti ha tirato a lucido la propaganda classica dell’estrema destra novecentesca
Eugenio Renzi (il manifesto)
Il documentario complottista Hold-Up è stato reso pubblico per la prima volta l’11 novembre scorso. Gli autori lo hanno inizialmente diffuso tramite la piattaforma Vod di Vimeo, la quale però lo ha rapidamente soppresso. In riposta, gli autori hanno riproposto il loro film su un altra piattaforma, Odysee, la quale, contrariamente a Vimeo, non ha una carta etica sui propri contenuti – tra i quali si trovano anzi diversi video simili riuniti in una rubrica appositamente dedicata ai complotti dal titolo Rivelazioni.
Nel frattempo, Hold-Up è stato piratato, montato e diffuso su altre piattaforme, così che in questo momento se ne trovano centinaia di versioni. Un’inchiesta pubblicata il 16 novembre scorso da France Inter ha stabilito che, sommando i soli dati di Odysee e di Youtube e senza tenere conto dei peer to peer e di altri metodi di scambio, si arriva a un totale di oltre 2 milioni e mezzo di visioni singole. Si può immaginare che nel frattempo queste cifre siano notevolmente aumentate.
Per altro, Hold-Up è un progetto che ha raccolto consenso in rete prima ancora di essere prodotto. A monte c’è infatti un finanziamento partecipativo che è riuscito a mettere insieme in pochissimo tempo circa 200mila euro – tramite due piattaforme di crowfounding: Ullule e Tipee.
Chi sono gli autori di questa fortunata e malaugurata avventura produttiva? Hold-Up è l’opera di un triumvirato formato da due produttori e un filmmaker. I primi si chiamano Nicolas Réoutski e Christophe Cossé. In passato autori per France Television, segnatamente del programma La Carte aux tresors, oggi si concentrano nella produzione di documentari.
Il terzo uomo è il giornalista Pierre Barnérias, È lui ad aver avuto l’idea del film, come raccontato dallo stesso Christophe Cossé al sito CheckNews. Chi è dunque Pierre Barnérias? Da giornalista, si è occupato soprattutto della chiesa cattolica. Nel 1989 ha intervistato Karol Wojtyla. Tra l’89 e il 94 ha tenuto la rubrica Religione sul quotidiano Ouest France.
Nel 2013, ha girato un documentario (À qui profite le flou, A chi giova l’opacità) nel quale si cerca di far credere che la questura sottostimi il numero dei partecipanti delle manifestazioni dell’estrema destra e dei tradizionalisti cattolici i quali, riuniti intorno allo slogan Manif pour tous, protestano contro l’estensione dei diritti civili a tutte le coppie senza distinzione di sesso.
Nei suoi film più recenti, Barnérias ha tirato a lucido la propaganda classica dell’estrema destra novecentesca, a base di complotti mondiali orditi da massoni e comunisti (M et le 3ème sécret 2014). A partire dal 2020, il suo canale Youtube è in prima linea nella diffusione di tesi complottiste e negazioniste in merito all’epidemia di Covid 19.
Il successo di Hold-Up ha spinto la stampa francese a reagire rapidamente per smontare le tesi del film. Alcuni, come Médiapart si sono concentrati sul metodo che il film usa per manipolare lo spettatore e per darsi un’apparenza di scientificità. Altri, come i quotidiani Le Monde e Libération, hanno proceduto a una contro-dimostrazione dettagliata, tesi per tesi, delle principali falsità che Hold-Up distilla.
D’altra parte, sebbene lodevole, questo lavoro rischia di essere poco efficace, come ha fatto notare lo studioso di scienze della comunicazione Thistan Medès France ai microfoni di France inter: «Hold-Up utilizza per 2 ore e 45 minuti quello che in gergo si chiama ‘millefoglie argomentativo’. Per smontarlo, ci vuole un lavoro di ore se non di giorni. Alcuni lo fanno, ma il risultato arriva dopo che il male è fatto». E se il documentario è un successo di pubblico, c’è da dubitare che molti di quelli che lo hanno visto abbiano tempo e voglia di confrontarlo con la complessità e la fatica che la vera ricerca scientifica implica.
29.9.20
Perché il Mes può far scattare la sirena dell’Euro
Luigi Pandolfi (il manifesto)
Economia. Non si cambia l’Europa accettandone le logiche che più hanno contribuito a far crescere diseguaglianze, precarietà e povertà
«Adesso il Mes». È un vero e proprio fuoco di fila, dopo le elezioni regionali, sulla cosiddetta «linea pandemica» del Fondo Salva Stati. Perché rinunciare a 36 miliardi quando ce li darebbero addirittura a tassi negativi? Il coronavirus sta mettendo l’economia mondiale con le spalle al muro. Torna pertanto il tema del come e del quanto possano fare le istituzioni pubbliche per evitare che a pagare il prezzo più alto di questo nuovo shock economico siano i ceti più vulnerabili della società. C’è bisogno di tanti soldi e, soprattutto, che arrivino alla vita reale.
In Europa, questo dovrebbe implicare un ricongiungimento della politica monetaria con quella fiscale, con un ruolo decisivo della Bce su entrambi i fronti. Ma tant’è. Finora ogni Stato ha fatto da sé, con tutti i problemi strutturali che si portava dietro. L’Italia ha approvato tre manovre per un valore di 100 miliardi in meno di sei mesi, al netto delle garanzie pubbliche per le imprese. Tantissimo in confronto a tutte le manovre di bilancio costruite negli anni scorsi sotto l’ombrello del fiscal compact.
È stato giusto non badare al deficit e al debito in questa fase. Il disavanzo del settore pubblico agisce nelle crisi come i pompieri di fronte a un incendio. Il problema è che siamo solo all’inizio. E non siamo in America o in Giappone. Qui la regola è che in casi eccezionali si può «deviare» dagli obiettivi di finanza pubblica, ma dopo bisognerà in un modo o nell’altro rientrare nei ranghi. Anche il Recovery fund è incardinato nel «Semestre europeo» e impone «riforme di contesto». Il rischio che dopo la fase emergenziale possa arrivare il tempo della resa dei conti è reale, complice il combinato disposto di recessione ed esplosione del rapporto debito/pil. L’uscita di Conte su «Quota 100» e Reddito di Cittadinanza c’entrano qualcosa? Difficile pensarla diversamente.
Ma veniamo al Mes, che con i conti c’entra eccome. L’istituto è nato per assicurare assistenza finanziaria a paesi falliti o sull’orlo del fallimento, in un quadro istituzionale, quello dell’Unione, che esclude l’ipotesi di salvataggio «solidale» . Quelli che «non possiamo sputare su 36 miliardi» sottolineano che il finanziamento avverrebbe a tassi migliori e che non ci sarebbero condizioni, se non quella di spendere i soldi per la sanità. Troppo semplice. Forse sarà vero – il Trattato istitutivo però non è stato modificato – che «in entrata» non ci sarebbe un memorandum da sottoscrivere, come fu in passato per la Grecia e altri Paesi europei (oggi non intenzionati a ricorrervi di nuovo), ma ciò non esclude che lo spettro del commissariamento del Paese possa materializzarsi in futuro.
Qualunque Stato europeo, a norma dei Trattati vigenti e, nello specifico, del regolamento 472/2013 (Two pack), con o senza Mes, potrebbe incappare in una procedura di «sorveglianza rafforzata» nel caso di «gravi difficoltà per quanto riguarda la sua stabilità finanziaria, con probabili ripercussioni negative su altri Stati membri nella zona euro», ma l’esposizione debitoria con il Fondo Salva Stati potrebbe rendere più concreta e futuribile tale circostanza.
Nel caso dell’Italia, un peggioramento significativo del quadro di finanza pubblica – certo a questo punto – susciterebbe una comprensibile apprensione in ordine alla sua solvibilità, oltre che alla stessa «stabilità dell’euro». E, per effetto del cosiddetto Early Warning System, il meccanismo d’allarme preventivo sulla capacità di rimborso del debitore di cui può avvalersi il Mes (è stato esplicitamente richiamato nel comunicato dell’Eurogruppo dello scorso 8 maggio), la sirena inizierebbe a suonare proprio in Lussemburgo. Il Fondo Salva Stati, valutando per sé la sostenibilità di medio e lungo periodo del nostro debito, andrebbe a svolgere in questo modo una funzione di sentinella per conto dell’intero sistema. Il «vincolo esterno» ne uscirebbe rafforzato e il debito con i mercati indebolito, perché il Mes, tra tutti i creditori, vanterebbe un diritto di precedenza nel caso che il Paese rischiasse il default.
Non si cambia l’Europa accettandone le logiche che più hanno contribuito a far crescere diseguaglianze, precarietà e povertà.
24.6.20
Statue abbattute e revisione storica. Tutti quei crimini che oggi incominciamo a vedere
Statue abbattute e revisione storica. Tutti quei crimini che oggi incominciamo a vedere
Torniamo a parlarne oggi perché ad Anversa una statua del sovrano è stata rimossa da una piazza a seguito del movimento che, tra Stati Uniti e Europa, sta abbattendo o imbrattando le statue di personaggi che sono venerati come simboli della nazione, ma che allo stesso tempo si sono macchiati di crimini coloniali e schiavisti.
In Belgio il movimento Réparons l’Histoire ha lanciato una petizione chiedendo di rimuovere tutte le statue di Leopoldo II. Intendiamoci: è chiaro che la storia non si 'ripara' e non è compito degli storici giudicare il passato; il loro ruolo è studiarlo, comprenderlo e insegnarlo. Tuttavia, non bisogna neppur credere ingenuamente che la realtà politica e il pensiero etico si esprimano e si esauriscano tutti e solo all’interno delle aule universitarie e dei seminari accademici: l’iconoclastia, cioè l’abbattimento dei simboli di potere o la cancellazione delle immagini, sono una costante della nostra storia; e la dimensione simbolica di tale azione non può nemmeno essere posta alla stregua di una qualche conferenza erudita.
A Londra una statua di Winston Churchill è stata imbrattata con uno scritta che accusa lo statista inglese di essere stato un razzista, il che è noto è comprovato: Churchill definiva 'bestie' gli indiani e diceva che gli espropri dei Nativi americani e degli aborigeni australiani erano giustificati dalla necessità del trionfo della razza bianca; e fece anche di peggio, come quando durante la Seconda guerra mondale non permise alle derrate alimentari di raggiungere il Bengala, sotto il controllo britannico, affetto da una grave carestia, preferendo stornarle verso i suoi compatrioti: un’azione che portò alla morte di quattro milioni di persone.
Eppure per gli inglesi Winston Churchill significa la vittoria contro il nazifascismo: ecco che, dinanzi all’assenza di una memoria condivisa e al fenomeno per cui l’eroe secondo alcuni è un aguzzino secondo altri, la rabbia iconoclasta si propone come una risposta antropologicamente pregnante.
L’ha benissimo spiegato, a proposito di altre iconoclastie, David Freedberg nel suo apprezzatissimo Il potere delle immagini. Nel caso di Leopoldo II la storia è forse meno nota. Nel 1876, il re belga organizzò l’Associazione Internazionale Africana con la collaborazione dei principali esploratori sul continente e il sostegno di diversi governi europei per la promozione dell’esplorazione e della colonizzazione dell’Africa. Dopo che Henry Morton Stanley aveva esplorato la regione in un viaggio che si concluse nel 1878, Leopoldo corteggiò l’esploratore e lo assunse per sostenere i suoi interessi nella regione e, dal momento che il governo belga mostrava scarso interesse per l’impresa, il sovrano decise di portare avanti la questione per conto proprio.
La rivalità europea in Africa centrale condusse presto però a tensioni diplomatiche, in particolare per quanto riguardava il bacino del fiume Congo che nessuna potenza europea aveva ancora rivendicato. Nel novembre 1884 Otto von Bismarck convocò a Berlino una conferenza di 14 nazioni per trovare una soluzione pacifica alla crisi congolese. Nel corso di essa, pur senza formale approvazione delle rivendicazioni territoriali delle potenze europee in Africa centrale, ci si accordò su una serie di regole per garantire una pacifica spartizione dell’area. Esse riconoscevano il bacino del Congo come 'zona di libero scambio' (un eufemismo splendido!). Leopoldo II uscì dai lavori della dalla Conferenza con una grande quota di territorio a lui assegnata come 'Stato libero del Congo, organizzato come un’impresa corporativa privata gestita direttamente da lui attraverso un 'libero sodalizio', l’Association Internationale Africaine, appunto.
L’entità definita 'Stato libero', comprendente l’intera area dell’attuale Repubblica Democratica del Congo, sussisté dal 1885 al 1908: solo allora, alla morte di Leopoldo, il governo belga procedette senza entusiasmo a un’annessione (molti i voti contrari in Parlamento). Sotto l’amministrazione di Leopoldo II, lo 'Stato libero del Congo' era stato un disastro umanitario, un’autentica infame sciagura. La mancanza di dati precisi rende difficile quantificare il numero di morti causate dallo spietato sfruttamento e dalla mancanza di immunità a nuove malattie introdotte dal contatto con i coloni europei: come la pandemia influenzale del 1889-90, che causò milioni di morti anche nel continente europeo tra cui il principe Baldovino del Belgio. La Force Publique, esercito privato sotto il comando di Leopoldo, terrorizzava gli indigeni per farli lavorare come manodopera forzata per l’estrazione delle risorse. Il mancato rispetto delle quote di raccolta della gomma era punibile con la morte. Le punizioni corporali, comprese crudeli mutilazioni, erano ordinarie.
I miliziani della Force Publique erano tenuti a fornire una mano delle loro vittime come prova che 'giustizia era stata fatta'. Intere ceste di mani mozzate erano poste ai piedi dei comandanti; a volte i soldati ne tagliavano a prescindere dalle quote di gomma, per poter accelerare il congedo dal servizio militare. Nei raid punitivi contro i villaggi uomini, donne e bambini venivano impiccati e appesi alle palizzate. Il trattamento riservato agli indigeni, insieme alle epidemie, causò nel Congo di Leopoldo II una crisi demografica gravissima; anche se, come detto, le stime di morti variano, si parla di cifre che vanno tra i dieci e i venti milioni. Se tutti i regimi coloniali hanno accumulato una quota notevole di quelli che ormai definiamo 'crimini contro l’umanità', e che nella pratica significano massacri impuniti di popolazioni locali, il caso di Leopoldo II è particolarmente efferato perché il Congo, prima del 1908, era una sua proprietà personale e le leggi provenivano direttamente da lui: da un sovrano costituzionale, cattolico e liberale. Abbattere le statue dei responsabili di tali infamie non cambia certo il passato né risarcisce le vittime: semmai, chissà, forme più pesanti di damnatio memoriae sarebbero opportune soprattutto nei confronti di figuri che sino ad ieri venivano onorati come eroi civilizzatori. Il vero problema non è comunque l’iconoclastia quanto semmai il fatto che di questi crimini non si legga sui libri di scuola, che si continui a considerarli 'minori' rispetto ad altri.
E non parliamo del genocidio dei native Americans che fa parte integrante della storia della costruzione della 'nazione americana' statunitense. Troppo comodo sarebbe, anche nelle scuole, continuar a condannare genericamente il colonialismo senza conoscerlo e senza studiarlo, fingendo di non sapere che esso fu parte della marcia verso il 'progresso' e l’arricchimento dell’Europa liberista. Finché non faremo radicalmente e sistematicamente tutto ciò, il lavoro di 'purificazione della memoria' indirizzato a stigmatizzare i crimini nazisti e stalinisti sarà un esercizio ipocritamente lasciato a metà strada. Non esistono crimini 'condannabili' e crimini 'giustificabili': i crimini sono crimini e basta.
Ed è fino dalla scuola che bisogna imparare a riconoscerli, anche con una diversa lettura del passato. E ciò, attenzione, non è 'revisionismo'. È puramente e semplicemente revisione alla luce di criteri di approfondimento e di lucidità. Perché se la storia non è revisione – vale a dire esame e verifica continua del passato alla, luce del presente e in funzione del futuro –, allora non è nulla.
1.4.20
Perché la Svezia ha affrontato il coronavirus senza chiudere tutto
26.2.20
Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata
Giorgio Agamben (il manifesto)
Di fronte alle frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate misure di emergenza per una supposta epidemia dovuta al virus corona, occorre partire dalle dichiarazioni del Cnr, secondo le quali “non c’è un’epidemia di Sars-CoV2 in Italia”.
Non solo. Comunque “l’infezione, dai dati epidemiologici oggi disponibili su decine di migliaia di casi, causa sintomi lievi/moderati (una specie di influenza) nell’80-90% dei casi. Nel 10-15% può svilupparsi una polmonite, il cui decorso è però benigno in assoluta maggioranza. Si calcola che solo il 4% dei pazienti richieda ricovero in terapia intensiva”.
Se questa è la situazione reale, perché i media e le autorità si adoperano per diffondere un clima di panico, provocando un vero e proprio stato di eccezione, con gravi limitazione dei movimenti e una sospensione del normale funzionamento delle condizioni di vita e di lavoro in intere regioni?
Due fattori possono concorrere a spiegare un comportamento così sproporzionato.
Innanzitutto si manifesta ancora una volta la tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo. Il decreto-legge subito approvato dal governo “per ragioni di igiene e di sicurezza pubblica” si risolve infatti in una vera e propria militarizzazione “dei comuni e delle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un’area già interessata dal contagio di virus”.
Una formula cosi vaga e indeterminata permetterà di estendere rapidamente lo stato di eccezione in tutte le regioni, poiché è quasi impossibile che degli altri casi non si verifichino altrove.
Si considerino le gravi limitazioni della libertà previste dal decreto:
- divieto di allontanamento dal comune o dall’area interessata da parte di tutti gli individui comunque presenti nel comune o nell’area;
- divieto di accesso al comune o all’area interessata;
- sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma di riunione in un luogo pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso, anche se svolti in luoghi chiusi aperti al pubblico;
- sospensione dei servizi educativi dell’infanzia e delle scuole di ogni ordine e grado, nonché della frequenza delle attività scolastiche e di formazione superiore, salvo le attività formative svolte a distanza;
- sospensione dei servizi di apertura al pubblico dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura di cui all’articolo 101 del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, nonché l’efficacia delle disposizioni regolamentari sull’accesso libero e gratuito a tali istituti e luoghi;
- sospensione di ogni viaggio d’istruzione, sia sul territorio nazionale sia estero;
- sospensione delle procedure concorsuali e delle attività degli uffici pubblici, fatta salva l’erogazione dei servizi essenziali e di pubblica utilità;
- applicazione della misura della quarantena con sorveglianza attiva fra gli individui che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusa.
Si direbbe che esaurito il terrorismo come causa di provvedimenti d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia possa offrire il pretesto ideale per ampliarli oltre ogni limite.
L’altro fattore, non meno inquietante, è lo stato di paura che in questi anni si è evidentemente diffuso nelle coscienze degli individui e che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo, al quale l’epidemia offre ancora una volta il pretesto ideale.
Così, in un perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo.
7.2.20
Vi piace la democrazia dei miliardari?
Michael Bloomberg è accreditato di un patrimonio di oltre 61 miliardi di dollari: che, per capirci, è più del Pil di interi Paesi come Croazia o Uruguay. Secondo Forbes, è la quattordicesima persona più ricca del mondo. Per le primarie democratiche ha già speso 314 milioni di dollari, pur non essendo ancora entrato in corsa (lo farà per il supermartedì, il 3 marzo). I telespettatori americani sono subissati dai suoi spot - se n'è comprato pure uno per il Superbowl, unico tra i democratici. Ha assunto oltre 1.700 persone per la sua macchina elettorale
21.1.20
Oxfam. Un mondo diseguale: in 2mila hanno più ricchezze di 4,6 miliardi di persone
Un mondo diseguale: in 2mila hanno più ricchezze di 4,6 miliardi di persone
L’ascensore distributivo è bloccato come sempre (il patrimonio complessivo dei 22 Paperoni più ricchi del pianeta supera la ricchezza di tutte le donne africane), e pure quello sociale non gode di buona salute. In Italia, in un Paese dove il 30% degli occupati giovani guadagna meno di 800 euro al mese, l’influsso delle condizioni di origine si fa sentire subito dopo la conclusione del ciclo di studi: a parità di istruzione, in media il figlio di un dirigente ha un reddito netto annuo superiore del 17% rispetto al figlio di un impiegato.
Alla vigilia del Forum economico mondiale di Davos, il club super-esclusivo che dal 21 al 24 riunisce sulle nevi svizzere leader politici e big delle grandi aziende, che quest’anno si annuncia animato più che mai da donne (sono attese Greta Thunberg, Sanna Marin, Ursula von der Leyen, Christine Lagarde, ma poi ci torna anche Donald Trump), la ong britannica Oxfam ripropone il suo dossier che scandaglia nelle infinite ingiustizie del pianeta Terra. Con un focus proprio sulla disuguaglianza di genere e, in particolare, su un piccolo, grande tesoro presente nelle nostre case: il lavoro di cura (ma non retribuito).
Un fattore che, secondo le proiezioni fatte dall’organizzazione in miliardi di ore-lavoro, vale oggi più (ben 3 volte) del mercato globale di beni e servizi tecnologici ma che, per un incredibile paradosso, impedisce al 42% delle donne nel mondo di avere un impiego (solo il 6% degli uomini si trova nella medesima condizione).
Il nuovo rapporto annuale è un altro “mattone” su questa Terra delle disuguaglianze. Un solo dato su tutti: i 2.153 esseri umani più facoltosi del pianeta detengono una ricchezza pari al patrimonio di 4,6 miliardi di persone. Ma se si assottigliano nel mondo le distanze tra i livelli medi di ricchezza dei Paesi (effetto della globalizzazione?), i divari crescono però all’interno di molti Stati.
Anche in Italia: da dati aggiornati a metà 2019, il 10% più ricco possedeva oltre 6 volte la ricchezza globale della metà dei nostri connazionali. Effetto delle disparità nella distribuzione dei redditi da lavoro, che restano forti anche nell’era delle post-ideologie. In un mondo in cui il 46% di persone vive ancora con meno di 5 dollari e mezzo al giorno e dove il reddito medio globale da lavoro è calcolato a 22 dollari al mese (dato 2017), un lavoratore collocato nel 10% che ha i salari più bassi dovrebbe lavorare quasi tre secoli e mezzo (sì, secoli, non anni) per raggiungere la retribuzione media in un anno di un lavoratore della fascia più elitaria del 10%.
«Quest’anno abbiamo voluto però rimettere al centro – dice Elisa Bacciotti, direttrice delle campagne di Oxfam Italia – la dignità del lavoro, poco tutelato e scarsamente retribuito, frammentato o persino non riconosciuto». In effetti lo studio, intitolato “Time to Care”, si sofferma sul lavoro di cura, e su quello domestico sottopagato, che grava soprattutto sulle spalle delle donne. Uno sforzo enorme che viene fatto per garantire a tutti noi diritti essenziali, ma il cui valore nella società è tuttavia scarsamente riconosciuto.
Ancora nel 2018 l’11,1% delle donne italiane non ha mai avuto un impiego per prendersi cura dei figli, un dato che supera del 3,7% la media europea. Inoltre il 38,3% delle madri con figli con meno di 15 anni è stato costretto a modificare aspetti professionali per conciliare lavoro e famiglia. E il tasso d’occupazione delle madri tra i 25 e i 54 anni si attestava al 57%, contro il 72,1% delle donne senza figli nella stessa fascia d’età. E’ un fenomeno sul quale Oxfam suona con forza un campanello d’allarme rivolto alla politica: si stima che entro il 2030 avranno bisogno di assistenza nel mondo 2,3 miliardi di persone, con un aumento di 200 milioni rispetto al 2015.
L’altro tema messo a fuoco da Oxfam è il cosiddetto “ascensore sociale”, cioè la difficoltà nel migliorare le condizioni economiche nel passaggio da una generazione a quella seguente. L’Italia è un Paese poco mobile, già nella distribuzione del “reddito disponibile equivalente”: il rapporto analizza la sua evoluzione nel millennio fino al 2017 (ultimo anno coperto dalle rilevazioni Eu-Silc di Eurostat) per concludere che nell’ultimo decennio l’indice di Gini, il parametro statistico che misura le disuguaglianze, è sì rimasto piatto, ma vede ancora l’Italia in 23esima posizione per equità distributiva tra i Paesi dell’Unione.
E a essere penalizzate sono, ancora una volta, soprattutto le famiglie con 4 o 5 o più componenti. Inoltre, secondo gli analisti di Oxfam soltanto il 12% dei figli con un profilo patrimoniale “basso” riesce a raggiungere nell’arco della vita il quintile più ricco e, con l’attuale intensità del fenomeno, si stima che ci vorrebbero 5 generazioni per i discendenti del 10% più povero degli italiani solo per arrivare a percepire il reddito medio nazionale. Tendenze aggravate dall’ulteriore fenomeno della dispersione scolastica, su cui si lancia un altro allarme: l’abbandono tra i 18 e i 24 anni ha toccato nel 2018 il 14,5%, in crescita dopo quasi 10 anni di calo. E anche qui siamo “maglia nera” in Europa, quart’ultimi dopo Spagna, Malta e Romania.
11.1.20
La vera rappresaglia dell’Iran non è ancora arrivata
8/01/2020
Il Generale Soleimani certamente non era un santo, forse non era un “terrorista”. L’attacco alle basi in Iraq è solo l’inizio: Teheran si vendicherà contro gli Stati Uniti, ma con cautela.
Di sicuro Qassem Soleimani non era un santo.
Del resto si trattava di un Generale, cioè di qualcuno che faceva parte di quella categoria di uomini che, un po’ per formazione mentale e un po’ per mestiere, sono abituati a pensare che ci siano momenti in cui per risolvere problemi che rischiano di farsi troppo pericolosi o complessi una dosata violenza possa risultare più efficace di ogni altra soluzione possibile.
Per di più si trattava di un Generale formatosi come combattente nella terribile fornace di quegli otto anni di guerra contro l’Iraq che erano costati al suo paese più di un milione di morti. Terminato il conflitto, anche il periodo successivo si era rivelato tutt’altro che facile, in un incessante susseguirsi di forti tensioni che in un modo o nell’altro incidevano sulla fascia di sicurezza sciita estesa dalle sponde mediterranee del Libano alla provincia di Herat in Afghanistan. Una fascia di sicurezza che l’Iran era riuscito faticosamente a creare e che consolidava giorno dopo giorno proprio grazie all’azione di “Al Quds”, l’unità di elite dei Pasdaran che Soleimani comandava. Con quei precedenti, quell’ambiente, quel grado e l’incarico che rivestiva, Soleimani non era quindi certamente un santo.
Vi è da chiedersi se egli fosse anche lo spietato e pericoloso terrorista che le fonti americane dipingono tentando di spiegare – o giustificare – per quale motivo sia stato eliminato con una spietata freddezza, non abituale per una consolidata democrazia occidentale come gli Stati Uniti. L’unica giustificazione pienamente accettabile consisterebbe nel fatto che il Generale stesse preparando una presa di ostaggi all’ambasciata americana di Baghdad. Qualcosa cioè di molto simile a quella che a Teheran funestò alcuni decenni fa la presidenza di Carter. E sarà questa probabilmente la spiegazione che gli Usa prima o poi forniranno a tutti i loro alleati… e che noi non sapremo mai in quale misura corrisponda o meno alla realtà dei fatti.
Domandarsi se Soleimani fosse o meno un terrorista rivela una certa ambiguità, visto che il quesito si presta a più risposte diverse e almeno in parte contrastanti fra loro. Al momento non esiste una definizione di terrorismo o di terrorista universalmente accettata, per cui persone o movimenti che in alcune parti del mondo sono visti e combattuti come tali in altre vengono acclamati quali eroici alfieri di una rivoluzione in atto o di una particolare ideologia. In seno a grandi organizzazioni come la Nato, che hanno la guerra al terrorismo fra i proprio compiti istituzionali, si è ricorsi così all’escamotage di considerare quali terroristici solo i movimenti inseriti (con il consenso di tutti gli Stati membri) in un’apposita lista nera che li bolla ufficialmente come tali.
Il sistema si è rivelato molto dubbio nel corso degli anni, considerato come ad esempio l’Ira irlandese non sia mai entrata in elenco per l’opposizione degli Usa e come la Turchia da un lato protegga alcune sigle islamiche perlomeno dubbie mentre dall’altro insiste perché vi vengano registrati il PKK e altre organizzazioni curde. Nella lista non rientrano nemmeno i Pasdaran iraniani, di cui l’Unità Al Quds faceva parte come corpo di elite, malgrado l’insistenza degli Stati Uniti, bloccata da tutti gli altri membri Nato interessati a continuare il dialogo nucleare con Teheran. Del resto, i Pasdaran altro non sono che una parte dello strumento militare ufficiale di uno Stato indipendente e sovrano, riconosciuto come tale da tutto il mondo e membro delle Nazioni Unite.
Difficile quindi definire con eccessiva semplicità Soleimani come un terrorista, anche se operava in un contesto e usava metodi che a volte molto si avvicinavano alla nostra idea di una azione terroristica. Da valutare inoltre come la guerra non dichiarata che egli combatteva fosse quella nuova forma di “guerra ibrida” che viene attualmente condotta nel quadro del decisivo scontro in corso fra la branca sunnita e quella sciita della religione islamica e che è portata avanti senza esclusione di colpi e utilizzando tutti i mezzi possibili – fatte salve, per ora, le armi di distruzione di massa.
Senza attaccare etichette all’uno o all’altro dei contendenti, prendiamo atto di come la tensione stia pericolosamente crescendo in una vastissima area in cui, pur non disponendo del peso politico necessario per svolgervi un ruolo rilevante, l’Unione Europea conserva notevoli interessi residui, al punto tale da impegnarvi in missioni di vario tipo migliaia di soldati dei suoi Stati membri. Quello che rende più allarmante tale situazione è oltretutto il modo in cui pur avendo rinunciato a una gestione personale e diretta dell’intero “Mediterraneo allargato”, gli Usa si sentano in diritto di intervenirvi egualmente con azioni puntuali ogni volta che ritengano opportuno farlo.
Che il presidente Donald Trump debba distogliere l’attenzione della sua opinione pubblica dal processo di impeachment attualmente in corso nei suoi confronti aggiunge al tutto un ulteriore elemento di incertezza e di preoccupazione. Per il momento l’attenzione generale è focalizzata sulla risposta iraniana, promessa a chiare lettere dalle massime autorità di quel paese e iniziata ad arrivare con il bombardamento di basi statunitensi in Iraq.
Che il regime non escluda alcuna possibilità è dimostrato da come ha subito denunciato l’accordo nucleare, riprendendo a pieno ritmo la centrifugazione dell’uranio, da tempo soggetta a importanti restrizioni. Il ventaglio di azioni che si apre all’Iran appare particolarmente ampio, visto che l’eventuale rappresaglia potrebbe assumere forme diverse e avvenire in tempi e luoghi molto differenti. Non vi è infatti alcuna difficoltà a reperire, non soltanto nell’area in cui operava Solemaini ma in tutto il mondo, un obiettivo statunitense o di qualcuno dei suoi alleati più stretti – Israele, l’Arabia Saudita, il Regno Unito… – che possa essere considerato remunerativo. Per di più è molto probabile che l’Iran abbia da tempo piani di contingenza e cellule dormienti sparse in tutto il mondo da attivare proprio in casi come questo.
La capacità di azione iraniana non va sottovalutata. Teheran è divenuta negli ultimi decenni una media potenza dotata di un considerevole rilievo in tutti i settori. In politica la sua dirigenza è maturata al punto da poter gestire rapporti e situazioni molto complesse senza rinunciare all’idea di restituire colpo su colpo attendendo, se necessario anche a lungo, il momento più propizio per agire. La vera debolezza può essere costituita dalla divisione interna del paese, sanguinosamente evidenziata dalle recenti manifestazioni. L’uccisione di Soleimani potrebbe però funzionare come un efficace collante nazionale, convincendo le parti ad accantonare momentaneamente i loro dissidi per presentare un fronte comune alla minaccia esterna.
I missili di Teheran possono ormai arrivare sino all’Europa, mentre i suoi droni hanno dimostrato la loro efficacia nell’attacco alle raffinerie saudite. L’abbattimento ad altissima quota di un grande e costosissimo apparato da ricognizione americano testimonia inoltre dei progressi compiuti in ambito contraereo.
Non va trascurato che per gli sciiti il martirio è parte della propria religione e la morte viene accettata con una serenità che certo non esiste in un Occidente terrorizzato dall’ipotesi di perdite fra i propri soldati. In caso di scontro diretto si tratterebbe di un elemento di superiorità di cui qualunque oppositore dovrebbe tenere conto. L’anello debole dello schieramento iraniano sembra essere ancora il settore navale: i barchini dei Pasdaran non sono certo in grado di contrastare le portaerei statunitensi. La configurazione geografica del Golfo Persico rende però possibile integrare con gli interventi da riva le lacune marittime, attenuando il gap. Azioni di Teheran dirette ad ostacolare il traffico navale nell’area appaiono quindi pienamente possibili, come evidenziato fra l’altro dagli avvenimenti degli ultimi mesi in quella parte della rotta del petrolio.
Il mercato dell’energia e in particolare quello degli idrocarburi sono di conseguenza percorsi da un certo nervosismo, malgrado questa crisi giunga in un momento di relativa abbondanza della risorsa e in quadro di assoluta autosufficienza degli Stati Uniti. È un nervosismo ingiustificato e forse anche speculativo, visto che le esportazioni dell’Iran sono ridotte a circa un quarto di quelle di un tempo, a causa dell’embargo in atto. L’unico cliente di rilievo che rimane a Teheran, ossia la Cina, è tanto grande e potente da poter tranquillamente trascurare anche eventuali ulteriori inasprimenti del regime in ambito petrolifero.
Il livello di sofisticazione raggiunto dagli iraniani nella guerra cibernetica è un interrogativo di particolare interesse. Una reazione persiana in questo settore potrebbe provocare effetti devastanti, evitando al contempo di fare vittime. Le voci correnti parlano di grandi capacità di Teheran nel settore, ma la materia riveste un livello di riservatezza tanto elevato da far sì che si tratti solo, appunto, di voci.
Dunque, cosa succederà? Anche se tutte le ipotesi restano aperte, le previsioni per il momento non appaiono eccessivamente pessimistiche. La risposta iraniana sarà accuratamente calibrata per dare soddisfazione ai falchi interni e all’intero mondo sciita ma non irritare oltre misura gli americani. Il divario di forze fra i due contendenti resta infatti considerevole e gli ayatollah sanno molto bene che fino a novembre il principale interesse di Trump sarà la rielezione. A quella scadenza gli converrebbe presentarsi da Commander in Chief di un intero paese reso compatto da acque internazionali agitate, piuttosto che unicamente come un Mister President che deve rendere conto al suo elettorato di comportamenti in parecchie occasioni troppo disinvolti.
Ciò probabilmente indurrà Teheran a muoversi con cautela, limitando le reazioni più immediate a quella che un tempo veniva indicata come “una frenetica gesticolazione verbale” e attendendo le presidenziali negli Stati Uniti prima di sferrare la vera risposta. Del resto l’Iran è una civiltà che ha appreso nei secoli e sulla propria pelle la virtù dell’attendere. E tutta la strategia orientale insiste da sempre su come il tempo più giusto per compiere un’azione altro non sia che quello in cui si presentano le migliori condizioni per portarla a termine con successo.