Articolo pubblicato su “Studi sulla questione criminale” il 06.05.2021.
Io non sono una fan della moltiplicazione dei reati e tantomeno dell’uso del diritto penale per il suo potenziale simbolico (e pedagogico). Dunque, ho storto il naso anche per la legge Mancino sulla criminalizzazione dei discorsi d’odio e di incitazione alla violenza per motivi razziali, etnici o nazionali. Però, questi reati ci sono già in parecchi ordinamenti, e l’estensione di questa criminalizzazione ai discorsi d’odio per orientamento sessuale e identità di genere (così, testualmente, chiamata in vari documenti internazionali) è stata richiesta più volte da organismi, appunto internazionali (cfr. per esempio, al Report of the Independent Expert on protection against violence and discrimination based on sexual orientation and gender identity, UN General Assembly, 12 July 2018, o la Risoluzione adottata dal Consiglio dei diritti umani, 30 giugno, 2016, intitolata Protection against violence and discrimination based on sexual orientation and gender identity) E poi, forse, talvolta, il potenziale simbolico e pedagogico del diritto può venir utile: la violenza e il bullismo verso chi è percepito/a come omosessuale o transgender è in Italia una vera piaga, e io apprezzo che questo ddl instauri una giornata contro l’omolesbotransfobia, soprattutto se in questa giornata di tutto questo si parlerà nelle scuole.
Qui, però, vorrei occuparmi soltanto delle obiezioni che a questo ddl sono state avanzate da alcune femministe e persone che si dichiarano parte della sinistra. Soprattutto, ma non solo, in un appello che ha raccolto parecchie firme, e che a me sembra sconcertante per confusione, pochezza argomentativa, contraddittorietà interna, scarsa conoscenza giuridica, per non parlare dell’ignoranza totale rispetto ad altri saperi, compresa la filosofia prodotta da molto femminismo.
In sintesi, questo appello dice che sì, va bene una legge contro i discorsi d’odio nei confronti di omosessuali, lesbiche e transessuali (sic), ma non va bene che si nomini l’identità di genere, perché cancellerebbe la differenza sessuale, il cui riconoscimento giuridico è una vittoria delle donne, e perché introdurrebbe una “fluidità di genere” foriera di un piano inclinato in cui si finirebbe per legittimare la prostituzione e la gestazione per altri, nonché si darebbe luogo a una “confusione antropologica”.
Ora, mi chiedo: dove sarebbe questo riconoscimento giuridico della differenza sessuale? E perché sarebbe “una vittoria delle donne”? Dal testo è chiaro che lì differenza sessuale indica uno spartiacque biologico: da una parte le femmine, dall’altra i maschi, biologicamente intesi (dunque, una interpretazione del concetto di differenza sessuale che niente ha a che vedere con la tradizione italiana del pensiero della differenza). Nel nostro ordinamento giuridico questa differenza (biologica) si può certamente trovare, ma non mi pare proprio in conseguenza di una vittoria del movimento delle donne. In costituzione, per esempio, si dice all’art.37 che le condizioni di lavoro della donna “devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare”. Si intende questo? La 194, dovuta (anche) alle mobilitazioni del movimento delle donne, certo presuppone la differenza biologica tra maschi e femmine, ma non la nomina. La legge contro la violenza sessuale, anche questa richiesta dai movimenti delle donne, è, come tutte le leggi penali (stalking compreso), declinata al neutro. Parità, pari opportunità, quote “rosa” nominano semmai il genere.
E che cosa si intende con “confusione antropologica”? Sembra evidente che ci si rifaccia qui ad una antropologia, ossia ad una visione dell’umano, particolare: ossia a quella della tradizione giudaico-cristiana, secondo cui “uomo e donna li creò”. Però, appunto, è una visione particolare, relativa a una specifica cultura in un certo momento storico. Di “antropologie” ne esistono molte altre, come dovrebbe sapersi. Per esempio, vi sono state e vi sono culture che riconoscono non due, ma tre o quattro generi…
Si dice poi che nominare il sesso assieme a orientamento sessuale, identità di genere, disabilità, ecc. porta a definire le donne come un’altra minoranza da tutelare, dove le donne una minoranza non sono. Da quando “sesso” equivale a “donne”? Semmai ci si dovrebbe preoccupare del fatto che con questo ddl anche un uomo, che si identifica come “uomo”, eterosessuale può invocare qualche discriminazione sofferta, appunto, in quanto uomo eterosessuale. Se invece “sesso” significa qui “misoginia” (però non c’è scritto), beh allora l’odio (e la paura) nei confronti delle donne e del femminile va di pari passo con l’odio (e la paura) verso le sessualità non conformi, assimilate appunto al femminile, minacciose le une e le altre di una “virilità”, una identità maschile tradizionale, assai traballante.
Naturalmente, il ddl Zan nulla dice rispetto a prostituzione e gpa, essendo un ddl che vuole colpire i discorsi d’odio, così che questa storia del piano inclinato, del pendio scivoloso, cui nominare l’identità di genere condurrebbe ha a che fare soltanto, penso, con le fantasie e gli incubi dei e delle sottoscrittrici di questo appello.
Voglio però dire qualcosa sul “genere”, su che cosa questa parola indichi, perché mi sembra di vederne vari fraintendimenti, sia da parte di chi la osteggia in nome del “sesso”, sia da chi la depreca perché “abbiamo fatto tanti sforzi per decostruirlo, il ‘genere’, per liberarcene, ed ecco che ora torna?”. Da quando questo termine è stato introdotto, per indicare gli aspetti, e le aspettative, sociali e culturali attribuiti storicamente a chi viene definito donna e uomo, cosa che è avvenuta attorno alla fine degli anni 60 del secolo scorso (con buona pace di chi, richiamandosi all’art.3 Cost. afferma che la Costituzione non lo nomina!), da parte di storiche e sociologhe, il dibattito non si è mai fermato e la letteratura che se ne occupa è enorme.
Ripeto qui quanto ho scritto molte volte: considero il genere un’istituzione sociale che, lungo i secoli e in buona parte (ma non ovunque) nel mondo, divide gli umani in due grandi categorie, i maschi e le femmine, attribuendo caratteristiche diverse agli uni e alle altre, dove quelle dei maschi sono valutate superiori a quelle delle femmine, instaurando così una gerarchia tra le due categorie e imponendo l’eterosessualità come la modalità “normale”, se non l’unica, di rapporto tra loro. Ciò che abbiamo decostruito non è il “genere”, ma questa declinazione del genere, così aprendo la via per molti e diversi modi di “farlo” (cfr. Butler). Perché non è che ci si possa spogliare della cultura, così magari trovando qualche essenza vera “al disotto” della cultura stessa. Non c’è un fuori dalle istituzioni, non c’è un fuori dalla cultura: noi siamo indissolubilmente natura e cultura, i nostri corpi sono insieme biologia e storia, la nostra percezione di noi stessi (la nostra identità) si forma nell’interazione con altri significativi, dunque attraverso il linguaggio. La decostruzione dell’istituzione genere, così come l’abbiamo conosciuta nell’ultimo secolo, produce non la scomparsa del genere, ma modi diversi e plurali di intenderlo e praticarlo. Perché, è bene precisarlo, non solo donne (e uomini) si diventa, ma anche umani si diventa: non c’è umanità al di fuori delle relazioni sociali entro cui ci formiamo, non c’è umanità fuori da una (qualsiasi) cultura.
Mi domando poi perché si parla sempre e soltanto di persone nate con un corredo biologico maschile che transitano verso una identità di genere femminile, e mai del contrario. Insomma perché le donne nate biologicamente tali temono di venir soppiantate da maschi che si dichiarano donne (!), ma gli uomini nati biologicamente tali non sembrano altrettanto spaventati dall’idea di persone nate biologicamente femmine che transitano verso una identità di genere maschile?
La differenza biologica tra maschi e femmine sembra rilevare semmai rispetto alla procreazione, giacché solo le donne partoriscono. Ossia, solo gli esseri umani dotati di utero possono portare avanti una gravidanza. Per ora, certamente, è così. Oggi, però, ci sono esseri umani dotati di utero che si dichiarano maschi (e che tali sembrano a tutti gli effetti, almeno secondo le convenzioni fisiche vigenti). Sono persone, identificate come femmine alla nascita, che a un certo punto decidono di diventare “maschi”, ossia di percorrere un itinerario fisico e culturale che le porta ad identificarsi come “maschi”, e che, però, scelgono di conservare alcune caratteristiche biologiche proprie delle femmine, ossia l’utero. Sulla base di ciò che viene chiamato identità di genere, siamo dunque in presenza di uomini che possono partorire. (Perché non vi sia polemica sulle “donne” che diventano “uomini”, pur mantenendo l’apparato riproduttivo femminile, sarebbe questione da capir meglio).
Ovviamente, questo esempio corrobora chi sostiene che, dal punto di vista biologico, ci sono solo maschi e femmine (con l’eccezione delle persone intersex, le quali sono però un’infima minoranza). L’identità di genere si può pure scegliere, ma solo chi ha un certo corredo cromosomico, e i relativi organi che ne sono la conseguenza, può in effetti partorire.
Insomma, ha un senso cercare di stabilire la “verità” dei nostri corpi nella biologia e/o nella cultura quando si tratta di individuare regole giuridiche?
O anche, che rilevanza hanno o devono avere il sesso biologico oppure l’identità di genere per il diritto?
La risposta potrebbe essere: dipende dal bene o diritto che si vuole tutelare, dai comportamenti che si vogliono proibire, e così via.
Nel caso della legge Zan, ad esempio, si vogliono proibire comportamenti che discriminano o istigano alla violenza nei confronti di persone individuate, da chi commette il reato, sulla base della loro identità di genere: qui identità di genere sta ad indicare il genere scelto dalla persona in questione (dopo un percorso medico e psicologico difficile e complesso), che differisce o può differire rispetto al genere attribuito alla nascita.
Il sesso biologico, invece, fa davvero la differenza rispetto alla procreazione e dunque al diritto e ai diritti che la concernono. Solo, dicevamo, persone provviste di utero possono, per ora almeno, portare avanti una gravidanza e partorire. Ciò che equivale a dire che tra femmine (biologiche) e maschi vi è un’asimmetria insuperabile rispetto alla procreazione: le femmine normalmente fertili per riprodursi hanno bisogno solo di una goccia di sperma, i maschi hanno bisogno di una o più femmine in carne e ossa, ossia di utero e di ovociti. A lungo, e per certi versi ancora, nella nostra cultura, questa asimmetria biologica è stata culturalmente e socialmente interpretata alla rovescia, ossia privilegiando la paternità rispetto alla maternità, conferendo dunque diritti riproduttivi al padre (ossia al marito della madre, che fosse o no il padre biologico): patria potestas, trasmissione del cognome, designazione come capofamiglia. Rafforzati dalla criminalizzazione dell’aborto volontario e dalla stigmatizzazione delle cosiddette madri singole. La contraccezione e, specialmente, l’approvazione prima della riforma del diritto di famiglia e poi della legalizzazione dell’aborto volontario (a certe condizioni), nonché il mutamento socio culturale avvenuto, anche grazie ai movimenti femministi, negli ultimi 50 anni hanno certamente cambiato questa situazione, ma non radicalmente e nemmeno in maniera irreversibile.
Dunque, direi, calma e gesso please: il ddl Zan non è un attentato nei confronti delle donne dotate di utero e vagina, men che meno è un attentato nei confronti della maternità (che in molti commenti soi-disant femministi contrari a questo ddl sembra essere diventata il nucleo, il nocciolo duro, del “femminile”: curioso, invece, come in questo modo ci si allei con i veri attentatori alla libertà femminile, quelli che militano contro la 194 e per il ritorno alla famigliola tradizionale, quelli che hanno votato la famigerata legge sulla procreazione medicalmente assistita). Questo ddl ha una portata molto più modesta: estendere ad alcuni soggetti le tutele già accordate ad altre minoranze dalla legge Mancino.
Ultimo punto: non esistono “le donne” e “gli uomini”, esistono donne (e uomini) ricche e povere, bianche, nere, gialle, verdi, giovani e vecchie, e via dicendo. “Le donne” non sono un gruppo sociale: sono, semmai, quando si organizzano in quanto donne, un soggetto politico, altrettanto plurale quanto plurali sono le differenze e le disuguaglianze all’interno di questo soggetto.
Leggi anche: Ida Dominijanni, Gli effetti collaterali della legge Zan.
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