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6.7.09

"È vero, non abbiamo rispettato gli impegni"

Bob Geldof durante l'incontro con Silvio Berlusconi

Berlusconi incalzato da Geldof ammette i ritardi nei pagamenti:
«E' la crisi, rimedierò».
«Signor presidente, tutti hanno lo stesso problema»

INTERVISTA DI MARIO CALABRESI

Silvio Berlusconi e Bob Geldof si incontrano nel cortile di Palazzo Chigi. Il presidente del Consiglio è tormentato dal torcicollo, ma mantiene la promessa di rispondere alle critiche che la rock star famosa per il suo impegno per l’Africa gli ha fatto pubblicamente. Geldof, appena arrivato da Londra, sta ripassando le domande e i dati sugli aiuti italiani all’Africa. Si ritrovano un attimo dopo nello studio del presidente del Consiglio. Si siedono al centro, uno accanto all’altro; le loro squadre sono su due divani contrapposti – i consiglieri di One, la Ong per l’Africa, da un lato; e gli uomini della Farnesina e di Palazzo Chigi dall’altro, tra cui Gianni Letta e Paolo Bonaiuti. Quello che segue è il resoconto di un’intervista non convenzionale, uno scambio che a tratti è sembrato quasi un incontro di pugilato. Ho temuto un paio di volte che Berlusconi prima, Geldof poi, si alzassero abbandonando la sala, ma alla fine ce l’abbiamo fatta ad arrivare fino in fondo e lo scontro è stato leale. Geldof: «Signor presidente, vado subito alla sostanza. Lei è lo statista di più lungo corso del G8. Nel 2001, a Genova, avete creato il Fondo Globale per l’Hiv/Aids, rendendo disponibile una terapia salva vita gratuita per 3 milioni di persone in Africa. Quindi ha partecipato al vertice di Gleneagles, dove vi eravate impegnati ad investire in aiuti lo 0,51% del Prodotto Interno Lordo entro il 2010, e lo 0,7% entro il 2015: l’Italia, al momento, ha mantenuto solo il 3% di questa promessa. Dalle speranze di Genova siamo passati alla delusione di Gleneagles: non sente il peso di questa responsabilità?»

Berlusconi comincia a leggere da un appunto: «Lei ha ragione, c’è un ritardo nei pagamenti. Noi, però, siamo stati via dal governo per due anni e mezzo. Quando siamo tornati, abbiamo trovato un debito del 110% rispetto al Pil. Ora, a causa della crisi economica, questo debito è salito al 120% e l’Unione Europea non ci permette di restare a questi livelli. Nel fare la legge finanziaria, il Parlamento ha deciso di limitare le spese. Ci è dispiaciuto ridurre anche gli aiuti all’Africa, e su questo abbiamo aperto un dibattito. Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti si è impegnato a tornare in linea con i nostri impegni entro tre anni». Geldof si innervosisce: «Il G8 è in programma fra tre giorni, non tre anni: come presidente di questo vertice, cosa si impegna a fare?». Berlusconi: «Guardi, quanto è accaduto è il contrario di ciò che sto facendo personalmente: quest’anno ho finanziato un orfanotrofio in Thailandia e un ospedale per bambini in Brasile. Comprendo la sua preoccupazione e apprezzo molto il lavoro che fa per i più poveri, ma abbiamo avuto ostacoli oggettivi». Berlusconi dà la parola al consigliere diplomatico di Tremonti, che comincia a spiegare: «Abbiamo iniziato a ripianare i ritardi nei pagamenti verso la Banca Mondiale e le altre organizzazioni finanziarie internazionali. Entro il 2010 raggiungeremo la quota dello 0,33% del Pil destinato agli aiuti, e arriveremo allo 0,51% nel 2015». Geldof lo interrompe: «Mi scusi, sono consapevole di questo. Grazie per la spiegazione». E si rivolge al presidente del Consiglio: «Non ci credo. Per riuscire a realizzare questo piano dovreste fare un lavoro incredibile. E poi non abbiamo più bisogno di piani: ora servono azioni. Sono stufo dei piani, bisogna agire. Dobbiamo avere più aiuti pubblici allo sviluppo. Quando tagliate gli aiuti, levate il cibo dalla bocca dei bambini affamati; togliete letteralmente gli aghi dalle vene dei malati. Perché dobbiamo comportarci così? L’Africa è il secondo mercato emergente del mondo, dopo la Cina. Ha più paesi democratici e meno guerre dell’Asia. Qui stiamo parlando di pochi spiccioli: perché è così difficile reperire i fondi per aiutarla? La cancelliera tedesca Merkel, il premier britannico Brown, persino il presidente francese Sarkozy ha aumentato gli aiuti, ma l’Italia li ha ridotti di 400 milioni. Le economie di tutti i paesi sono un disastro, ma tutti mantengono le promesse che hanno fatto ai poveri. Meno l’Italia. Come può guidare il G8? Dov’è la sua credibilità? E’ una questione umana, non tattica. Siamo stanchi di vedere la gente che muore di fame!» Berlusconi fa un cenno di assenso, si capisce che è stato colpito dall’immagine dei bambini affamati. Geldof aggiunge: «Le parlo come uomo d’affari. Ho visto l’accordo concluso con Gheddafi, tutto business e concretezza: perché non estendere questo atteggiamento all’intero continente? Guiderà il G8 verso una percezione diversa dell’Africa?» Berlusconi: «Sì, sì. Io sono anche il leader che ha più esperienza, e non solo su questo tema. Gli altri sono dei bambini, confronto a me. Su questo punto, però, ho dovuto seguire le posizioni del mio ministro per l’Economia. Ha una forte personalità e ritiene che come prima cosa si debbano rispettare gli obblighi con le istituzioni europee e quelle finanziarie internazionali. Però ha promesso che torneremo in linea con gli impegni presi per gli aiuti allo sviluppo entro tre anni. Vede, lei vive questo problema con intensità emotiva: i soldi sono cibo, e io apprezzo molto il suo lavoro. Ne ho parlato con Tremonti - dice Berlusconi scherzando -, ci ho pure litigato: mi ha presentato le dimissioni un mare di volte. Io però le ho respinte, perché non ho un altro ministro a disposizione. Sul tavolo del G8 ci saranno cinque o sei problemi di grande importanza: l’Africa sarà uno di questi. Dopo, nella finanziaria, vedrò di cambiare il piano per il rientro». Geldof scuote la testa. Mostra a Berlusconi i documenti che il premier aveva approvato al G8 di Gleneagles: «Qui c’è la firma di un paese e l’onore di un uomo».

Berlusconi li legge e ammette: «Mi dispiace, abbiamo commesso un errore». Geldof allora riprende: «Una ragione per cui la crisi in cui ci troviamo è così grave sta proprio nel fatto che abbiamo lasciato il 50% della popolazione mondiale fuori dal nostro sistema. Come puoi vivere con meno di due dollari al giorno? E se guadagni così poco, come puoi comprare i nostri prodotti? L’Africa è un mercato più grande dell’India, del Brasile, della Russia o del Messico: non crede che dovremmo includerla? Se i cittadini africani possono comprare i nostri prodotti, ci sarebbero più posti di lavoro anche in Italia». Berlusconi stringe i pugni: «Lei ha ragione: quando si assume un impegno, bisogna mantenerlo. Noi siamo in ritardo, e questo ritardo dobbiamo colmarlo. Mi dispiace di non aver mantenuto le promesse, ci siamo fatti prendere da tutte le cose che ci sono cadute addosso. La crisi, il terremoto. Abbiamo anche una situazione di forte contrasto con l’opposizione, giudici che ci attaccano...». Geldof lo blocca ancora: «Ma questa, signor presidente, non è una discussione sui media o il sistema giudiziario: stiamo parlando di gente povera che non ha difese». A quel punto, per cercare di abbassare i toni, interviene Gianni Letta, che interrompe Geldof: «Ha sentito: il nostro presidente ha espresso la volontà di cercare una soluzione». Geldof: «D’accordo, ma il G8 è fra tre giorni. Il presidente americano Obama ha detto che vuole affrontare l’emergenza dei paesi poveri: possiamo decidere qualcosa di concreto?»

Berlusconi: «Ho avuto un ottimo incontro col presidente Obama, mi ha fatto una grande impressione. Ha detto che vuole creare un fondo per la sicurezza alimentare: lui ha promesso di stanziare un miliardo di dollari per i prossimi quattro anni, e ora chiede che gli altri sette paesi del G8 mettano un altro miliardo. Io darò una risposta positiva». Geldof: «Saranno nuovi soldi, oppure verranno dagli aiuti che avreste dovuto finanziare già in passato?» Berlusconi: «Nuovi fondi, sì. Vede che faccio sul serio? Io prima di incontrarla ho letto le cose che lei ha scritto, i rimproveri per gli impegni non rispettati, eppure non mi sono sottratto a questa intervista. L’ho fatto perché apprezzo il suo sforzo. Siamo nel torto assoluto e voglio impegnarmi con una persona come lei, che spende la sua vita in questa bellissima missione. Va bene? Cercheremo di non deluderla». Geldof: «Signor presidente, lasciamo perdere l’intervista con “La Stampa”, parliamo francamente tra noi: cosa farà di concreto?». Di nuovo Letta interviene: «Il nostro presidente raccoglierà i suoi suggerimenti ed elaborerà una risposta nei prossimi giorni». Geldof: «E’ una questione di credibilità. Credibilità politica. Lei rischia di diventare il “Signor 3%”, quello che mantiene solo il 3% delle sue promesse. Cosa farà di concreto all’Aquila?». Berlusconi non capisce cosa significhi «Mister 3%», resta interdetto. Il suo assistente Valentino Valentini, che è seduto tra loro e traduce, gli spiega l’accusa di Geldof. Allora Berlusconi si fa più serio e scandisce le parole: «Io come imprenditore non ho mai mancato ad una promessa, e con gli elettori mi sto comportando nello stesso modo. In questo caso c’è stata una impossibilità di bilancio che non è dipesa da me. Se avessimo dato i soldi in questa direzione avremmo avuto delle penalità terribili dall’Europa. Siamo stati nell’impossibilità di adempiere agli impegni, impossibilitati a spendere. Adesso dobbiamo trovare un modo per chiudere altre spese e spostare i soldi nella direzione degli aiuti. Abbiamo forse la possibilità di farlo, ma sono tutti tagli molto dolorosi». Geldof: «Ma questo sarebbe un investimento». Berlusconi: «Sì, ne sono sicuro. Ho letto l’ultima relazione dell’Onu secondo cui nei prossimi 15 anni ci saranno due miliardi di persone in più al mondo, che nasceranno nei paesi esclusi dal benessere. Ci rimettiamo tutti, se non facciamo in modo che la libertà, la democrazia e quindi il benessere si diffondano. Ma ad un certo momento non abbiamo avuto la possibilità materiale di farlo, perché l’Europa che ci minacciava delle penalità...». Geldof: «Non rimproveri Bruxelles, presidente: Bruxelles è più lontana da Roma dell’Africa. Io sono stato a Lampedusa: se volete fermare la tragedia dell’immigrazione clandestina, dovete aiutare i paesi di provenienza a creare condizioni di vita migliori e aiutare a svilupparsi le loro economie. Signor presidente, quando i ricchi diventano meno ricchi, i poveri diventano ancora più poveri». Berlusconi: «Certo: più quelle persone diventano povere, più diventano disperate. So bene che aiutarle non è solo un dovere, ma anche un nostro interesse». Geldof: «Vuol dire che a L’Aquila farà qualcosa?». «Prenderò la guida. Insieme ad Obama agiremo, ne sono assolutamente convinto. Vedremo di farlo».

16.11.08

Abu Ghraib a Genova

Barbara Spinelli

Non è stato inutile il processo al massacro nella scuola Diaz, avvenuto il 21 luglio 2001 a Genova durante il vertice G8, così come non è stato inutile il processo alle violenze nella caserma di Bolzaneto. All’epoca si sostenne che non era accaduto nulla, che la polizia aveva agito normalmente contro i giovani inermi. Ora non lo si può dire più e alcuni colpevoli son stati condannati, anche se a pene lievi e forse destinate a esser cancellate da condoni e prescrizioni. Lo scandalo c’è stato, l’infamia fu consumata. Nel diritto italiano mancano le parole per dirlo, ma nel mondo questi comportamenti hanno un nome non controverso: si chiamano tortura, trattamenti inumani e degradanti. Il fatto che l’Italia non abbia ancora accolto il reato di tortura nel proprio ordinamento, 20 anni dopo aver ratificato la Convenzione Onu dell’84, non cambia la sostanza del delitto.

Nessuno nega ormai che a Bolzaneto e alla Diaz giovani donne e uomini furono spogliati, minacciati di stupro, pestati. Che a Bolzaneto un poliziotto spezzò la mano d’un ragazzo, divaricandogli le dita, e il ricucimento dell’arto avvenne in infermeria senza anestesia. Che gli studenti furono costretti a stare ore nella posizione del cigno, gambe allargate, braccia in alto, faccia al muro. Che donne con mestruazioni dovettero mostrare le perdite di sangue davanti agli sghignazzi delle forze dell’ordine. Che dovettero defecare davanti a poliziotti eccitati.

Queste cose son successe nel 2001 in Italia esattamente come - poco dopo - a Abu Ghraib. Quando succedono c’è un salto di qualità, si entra in una zona crepuscolare, altra. Si smette di dire «il crimine può accadere», è già accaduto.

Clausewitz, che studiò le guerre napoleoniche, scrisse nel 1832: «Una volta abbattute le barriere del possibile, che prima esistevano per così dire solo nell’inconscio, è estremamente difficile rialzarle». Si rivelò vero per il genocidio ebraico. È vero per le torture a Genova, a Abu Ghraib, a Guantanamo.

I massimi responsabili non hanno pagato, perché, dice la sentenza, mancavano le prove. Non c’era inoltre un «grande disegno», anche se il pubblico ministero Enrico Zucca sostiene di non aver mai menzionato disegni. Tuttavia i capi sono sempre responsabili quando un poliziotto loro subalterno commette delitti, senza necessariamente esser colpevoli. Questa responsabilità è occultata, anche se si dovrà leggere la sentenza per esserne sicuri. La guida della polizia era affidata allora a Gianni De Gennaro: sostituito nel 2007, poi capo gabinetto di Amato al Viminale, poi - con Berlusconi - promosso a supercommissario ai rifiuti di Napoli e a direttore del Cesis riformato (Dipartimento Informazioni per la Sicurezza). Il suo silenzio sul G8 pesa. Così come pesa lo stupido giubilo della destra. Non c’è niente da giubilare, quando le barriere del possibile precipitano. L’effetto del precipizio è squassante per lo Stato, la polizia, i cittadini. Tanto più oggi, che i giovani ricominciano l’impegno politico come i giovani lo ricominciarono dopo anni di apatia al vertice del G8 di Genova.

Il questore Vincenzo Canterini ha scritto una lettera ai suoi uomini, venerdì, in cui non pare consapevole di questa frana di prestigio e credibilità. Ex comandante del VII Nucleo mobile nei giorni del G8, condannato a 4 anni di reclusione dal Tribunale di Genova, parla con risentimento, annunciando che lui continuerà a portare il casco, non si sa bene per quale missione. È d’accordo con il proprio vice, Michelangelo Fournier, anch’egli condannato a due anni: alla Diaz avvenne una «macelleria messicana», dice a la Repubblica. Ma i suoi poliziotti non sono colpevoli; sono «martiri civili». La lettera è minacciosa: «Lasciamo tutte queste persone nei loro passamontagna e con i loro bastoni, diamogli l’illusione di avere vinto, e facciamogli vedere che alla lunga saremo noi a vincere». Rimettiamoci il casco, incita. Visto che di lettere si parla, vale la pena citare una lettera che fece storia, nel ’68 francese, quando le violenze furono più gravi e lunghe che a Genova. È il messaggio inviato da Maurice Grimaud, prefetto di Parigi, ai propri subordinati. Grimaud ebbe un comportamento decisivo: oggi gli storici concordano sul fatto che senza di lui, il ’68 sarebbe finito in bagno di sangue, generando terroristi di tipo tedesco o italiano. Invece, nulla. Grimaud cercò di capire le dimensioni profonde e mondiali del movimento, invitando i poliziotti, il reticente ministro dell’Interno Fouchet e lo stesso De Gaulle a tenerne conto (intervista di Grimaud a Liaison, giornale della prefettura, 4-08). Capì che insidiati erano l’onore e dunque l’affidabilità delle forze dell’ordine, dei funzionari pubblici, infine dello Stato. Sentendo che nei commissariati serpeggiava odio (c’era stata la guerra d’Algeria) prese la penna, il 29 maggio ’68, e scrisse un messaggio personale a circa 20 mila poliziotti.

È una lettera che andrebbe letta alle forze dell’ordine e nelle università, non solo in Francia. In apertura Grimaud invita a discutere il tema, cruciale ma schivato, dell’eccesso nell’impiego della violenza: «Se non ci spieghiamo molto chiaramente e molto francamente su questo punto, vinceremo forse la battaglia della strada ma perderemo qualcosa di assai più prezioso, cui voi tenete come me: la nostra reputazione». Grimaud non nega che la polizia è ingiustamente umiliata dagli studenti, ma il suo linguaggio e il suo ordine sono inequivocabili: «Colpire un manifestante caduto a terra è colpire se stessi, e apparire in una luce che intacca l’intera funzione poliziesca. Ancor più grave è colpire i manifestanti dopo l’arresto e quando sono condotti nei locali di polizia per essere interrogati. (...) Sia chiaro a tutti e ripetetelo attorno a voi: ogni volta che viene commessa una violenza illegittima contro un manifestante, decine di manifestanti desidereranno vendicarsi. L’escalation è senza limiti». Comunque il prefetto si dichiara corresponsabile, qualsiasi cosa avvenga: «Nell’esercizio delle responsabilità, non mi separerò dalla polizia». L’autocontrollo è un dovere del servitore dello Stato: «Quando date la prova del vostro sangue freddo e del vostro coraggio, coloro che vi stanno davanti saranno obbligati ad ammirarvi anche quando non lo diranno».

Esiste dunque la possibilità di servire lo Stato senza infangarsi. Per la coscienza dei francesi l’esempio Grimaud conta e spiega forse, senza giustificarle, certe reticenze a estradare nostri ex terroristi. Anche in Italia esistono esempi simili, di servizio dello Stato e non della contingenza politica. Il prefetto di Roma Carlo Mosca era uno di questi. Ragionando come Grimaud, egli difese i Rom («Io non prendo le impronte a bambini») e poco dopo il diritto studentesco a manifestare. Nonostante buoni risultati (censimento degli insediamenti Rom; calo dei reati a Roma dal gennaio 2008; violenza degli stadi circoscritta) Berlusconi lo ha silurato, lo stesso giorno del verdetto di Genova.

Quando cade la barriera del possibile il crimine si ripete. I vigili di Parma che hanno sfregiato il giovane originario del Ghana, Emmanuel Bonsu Foster, lo testimoniano (che sia un immigrato regolare è irrilevante, è turpitudine anche con gli irregolari). Lo testimonia la prostituta nigeriana scaraventata in manette sul pavimento d’un commissariato, a Parma in agosto. A Genova hanno condannato i manovali (le «mele marce» di Bush) e due capi, Canterini e Fournier. Non basta: né per rialzare le barriere, né per correggere e riabilitare la polizia. Lo storico Marco Revelli, l’ex Presidente della Corte costituzionale Valerio Onida, il giornalisti Giuseppe D’Avanzo e Riccardo Barenghi hanno detto l’essenziale, su come la democrazia esca sfigurata da simili prove. Solo i cinici e i rassegnati immaginano che sia troppo tardi per cominciare a far bene le cose.

lastampa.it

11.11.05

Genova G8 «Così ci hanno massacrato»

G8, al processo per la Diaz il racconto di Lena Z. La testimonianza della giovane tedesca la cui foto con il volto coperto di sangue fece il giro del mondo. «Mi hanno bastonata e presa a calci, si divertivano a sentire i miei gemiti». Per lei costole fratturate e una riduzione della capacità polmonare del 30%
ALESSANDRO MANTOVANI
Racconta la fuga disperata al quarto piano, l'ultimo piano della scuola Diaz, «per creare il maggiore spazio possibile tra noi e la polizia». Ricorda di aver pensato a scappare dalle impalcature «ma rinunciammo - dice - perché temevamo che ci buttassero giù». Era in preda al panico mentre quelli sfondavano la porta. Quindi trovò un nascondiglio «in un piccolo locale vicino all'ascensore, una dispensa». Lei e il suo ragazzo decisero di presentarsi con le braccia alzate se la polizia li avesse trovati. Purtroppo non è bastato. Lena Z. ha 28 anni e ne aveva 24 al G8, quando è tornata a casa ad Amburgo con le costole fratturate e lesioni che comportano tuttora una riduzione della capacità polmonare del 30 per cento. Si occupa di botanica. Anche volendo non farebbe paura a nessuno, non certo a un poliziotto in assetto da guerra. E' più esile di quanto non sembri nella foto in barella all'uscita dalla Diaz, con il volto coperto di sangue, che fece il giro del mondo. E ieri è stata la prima delle 93 vittime della Diaz a testimoniare davanti al tribunale di Genova che sta processando i 29 dirigenti e funzionari della polizia accusati a vario titolo di falso, calunnia e lesioni per l'assalto alla Diaz e le prove fasulle (le due famose bottiglie molotov). «Nella dispensa - ha raccontato la giovane tedesca rispondendo al pm Enrico Zucca - siamo rimasti pochissimo, poi abbiamo sentito passi pesanti, di stivali, e altri rumori come se la polizia stesse picchiando con i bastoni sul muro. Sono arrivati e hanno aperto la porta. Il mio ragazzo è stato trascinato fuori subito, lo hanno circondato e hanno iniziato a colpirlo con il bastone. Quanti erano? Dieci-quindici... almeno dieci». C'è una contestazione dell'avvocato Porciani, uomo della destra milanese più estrema che c'è e legale dei capisquadra della celere romana: «Ha detto in ogni caso dieci, non almeno», sostiene l'avvocato. Il presidente Barone: «Se permette mi fido dell'interprete». Ma poco importa. Quel ragazzo fu massacrato da delinquenti in divisa, in sovrannumero e a volto coperto, non identificati e non più identificabili.

«Io - ha continuato Lena tenendo a bada il dolore dei ricordi e la tensione - ero rimasta lì, nella dispensa. Mi hanno tirata fuori per i capelli, credo di essere caduta quasi subito. Ero sdraiata e mi colpivano con i calci nella schiena e sul fianco con i bastoni. Ho sentito le mie costole che si fratturavano. Un poliziotto mi ha picchiato col ginocchio tra le gambe. Loro continuavano a picchiarmi e io sono scivolata di nuovo a terra. Avevo la sensazione che si stessero divertendo - ha esitato Lena - specie sentendo i rumori che facevo quando mi colpivano sullo sterno». «I suoi gemiti?», chiede il pm. «Sì, le mie grida, il mio respiro. Così ho deciso di non gridare più per non invogliarli a colpire ancora». Parole pesanti, pesantissime. Che però non hanno interrotto i feroci sghignazzi di alcuni degli avvocati dei superpoliziotti (non tutti, per carità, ma non facciamo nomi).

«Ero sdraiata contro il muro - ha proseguito la testimone/parte civile - Mi hanno spinta a calci verso le scale e mi hanno buttata giù, uno mi teneva per i capelli, avevo la testa all'altezza della sua anca e le gambe pendevano indietro. E da dietro altri poliziotti mi picchiavano ancora». Lena ricorda «una polvere bianca che bruciava sulle ferite, forse lacrimogeno». «Al secondo piano - prosegue - mi hanno gettata su altre due persone già a terra. Non si sono mossi. Ho chiesto loro in inglese se erano vivi o morti. Non mi hanno risposto. Lì mi sono accorta del sangue che scorreva sulla mia faccia, non riuscivo più a muovere il braccio destro. La polizia è passata più volte accanto a me e ognuno si fermava a sputarmi in faccia, alzandosi la visiera e togliendosi il fazzoletto rosso. Poi - altro particolare inquietante - hanno cercato di mettermi in un sacco di plastica nero, credo non volessero far vedere com'eravamo conciati». Alcuni difensori si sono opposti: «E' una valutazione della teste», hanno detto. Forse era un telo portato dai barellieri delle ambulanze, comunque non è decisivo. Il resto è chiarissimo e sarebbe bello se qualcuno trasmettesse in diretta questo processo, altro che "Un giorno in pretura". Qui infatti si misura la distanza tra la polizia reale e quella «democratica» e «di sicura affidabilità» di cui straparlano il ministro dell'interno Giuseppe Pisanu e i suoi aspiranti successori di centrosinistra. E misurarla è indispensabile se si vogliono rafforzare i poliziotti onesti e democratici, che per fortuna non mancano.

«Non mettiamo in dubbio che le cose siano andate così», questo l'esordio, significativo, del controesame dell'avvocato Romanelli che difende «Canterini and company» (parole sue), ovvero l'ex comandante della celere romana e i suoi capisquadra. Lena ha superato brillantemente i tentativi di trasformarla da vittima in imputata. «Lei e il suo ragazzo eravate state fermati nel pomeriggio, perché? Con chi era a Genova?», chiedeva Romanelli. «Ha detto di essere andata alla Diaz perché era un luogo sicuro per dormire, sicuro da cosa? Dai malviventi? Dai black bloc? Dalla polizia?». Ma lei risponde, schiva, chiarisce. Un buco nell'acqua dopo l'altro. «E' la vecchia tecnica dei processi per stupro», commenta un avvocato di parte civile che ha memoria lunga.

Sui manganelli ha detto «credo che fossero di gomma». Per la procura non era la risposta migliore perché i Canterini boys avevano i micidiali tonfa metallici, ben più duri della gomma, sperimentati al G8 e poi ritirati dal Viminale (i carabinieri ne usano una versione più leggera). Ma poi, quando Romanelli e Porciani hanno insistito sulle divise dei picchiatori, Lena ha indicato senza esitazione la divisa del settimo nucleo, diversa dalle altre per la cinta nera anziché bianca. «Avevano la cinta scura», ha detto, distinguendola da quella bianca dei poliziotti che la piantonarono successivamente in ospedale.

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