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28.10.19

Addio a operai e contadini, così è sparita l’Umbria rossa

Federica Geremicca  (La Stampa)


Dal Pci al Pd, la dispersione dei voti viene da lontano e poco o nulla è stato fatto per arginarla. Anziché sostenere chi è alle prese con la crisi si è preferito ammiccare alle eccellenze industriali

È come una slavina, un fiume che esonda, una diga che cede. Anche l’Umbria è conquistata dalla destra: e poco importa che il voto di ieri sia solo la certificazione di un processo già compiuto da tempo. Infatti, per le dimensioni che hanno assunto e per le ragioni che le hanno determinate, le elezioni umbre rappresentano un test che per il centrosinistra sarebbe suicida sottovalutare.

L’Umbria, del resto, non è stata persa ieri: Perugia è nelle mani del centrodestra già dal voto del 2014, Terni dall'anno scorso (eletto un sindaco leghista col 63% dei voti) e alle europee di cinque mesi fa Salvini aveva già staccato il partito di Zingaretti con un sensazionale 38 a 24. Significa qualcosa tutto questo? Testimonia, semplicemente, che la dissoluzione arriva da lontano: e che poco o nulla è stato fatto per provare a invertire la rotta.

Infatti, comunque la si veda, il voto umbro ha una sua specificità. E al di là del vento che tira, mette in primo piano errori che per i cittadini di quella regione hanno sfiorano l’incomprensibile. Gli ultimi possono essere riassunti in poche, anzi pochissime battute.

Gli errori
Il primo è senz’altro il lungo tira e molla sul che fare di fronte all’inchiesta giudiziaria sulla gestione della sanità che ha decapitato i vertici della Regione e del Pd: settimane di bracci di ferro e dietro-front sulle dimissioni di Catiuscia Marini, col doppio risultato di prolungare e amplificare lo scandalo, dando l’impressione - per di più - di non riuscire ad esercitare la necessaria severità di fronte a fatti di presunta corruzione.

Il secondo è sicuramente il mezzo patto elettorale siglato con i Cinquestelle, il Movimento che con le sue pesanti e continue denunce aveva di fatto dato il là all’inchiesta della magistratura. Come possono averla presa i cittadini umbri e gli elettori di Pd e M5S? Mettiamola giù semplice, e senza offesa per nessuno: le «guardie» si alleano coi «ladri», ma che roba è?

Il terzo errore è nella gestione della campagna elettorale. Già un’alleanza quasi inconfessabile (tanto da esser ridotta al rango di «civica»...) non è un gran punto di partenza. Ma se a questo poi si aggiunge che su tale alleanza arrivino a metter invece cappello i leader di Pd, M5S e Leu nell’ultimo giorno utile, la frittata è fatta (senza aggiungere il non senso dell'arrivo sul palco anche di Giuseppe Conte, dopo settimane passate a spiegare che il governo era fuori dalla contesa).

I giochi, probabilmente, erano già fatti, come testimoniato dalla sequela di sconfitte in molte città-simbolo della ex «Umbria rossa». Ma questo - piuttosto che rappresentare un alibi - non fa che appesantire la situazione, e render più complicato ogni proposito di rivincita. Infatti, progressivamente, anche in questa regione il Pd ha visto allentarsi - fino a diventare quasi inesistente - il suo rapporto con i ceti tradizionali di riferimento.

L’ultima roccaforte crollata
Non a caso, l’ultima a cedere è stata la Terni operaia, la città dell’acciaio, travolta dalla crisi nella quasi indifferenza della sinistra. Prima, progressivamente, altri ceti si erano allontanati. L’Umbria è terra di agricoltori, da sempre in guerra con l’Europa per una gestione lenta e incomprensibile dei fondi comunitari: e chi è che difende l’Europa e chi è che invece dice che bisognerebbe uscirne? L’Umbria, però, è anche terra di piccole e piccolissime aziende e di partite Iva: e le prime si sentono da sempre trascurate e le seconde trattate - da questo governo e dalla sua manovra - alla stregua di sicuri e irrecuperabili evasori fiscali.

Un episodio, se si vuole minore ma certo illuminante, è legato alla visita svolta da Conte venerdì in Umbria. Chi è andato a trovare, infatti, il presidente del Consiglio? Brunello Cucinelli, naturalmente. Figurarsi, un’eccellenza, niente da dire. Ma ha più bisogno di sostegno e vicinanza un’azienda che va a gonfie vele o operai e contadini - storicamente ceti di riferimento della sinistra - travolti da crisi e difficoltà? Già un altro premier di centrosinistra - Matteo Renzi - privilegiò le «eccellenze italiane» rispetto ai settori travolti dalla crisi: e l'avventura finì come finì. Può darsi che il vento che tira sia per ora inarrestabile. Ma ogni voto consegna una lezione. Quello umbro obbliga il Pd a riflettere sul serio: su cosa sia la sinistra oggi e su come è vissuta l’alleanza di governo giallorossa. Alle porte, infatti, c’è il voto in Emilia Romagna. E se la Lega può perdere le elezioni a Bergamo o a Milano, non è scritto da nessuna parte che il Pd debba vincerle per forza in «roccaforti rosse» che sono tali, ormai, solo nella memoria dei più anziani.

18.2.16

“La mia dolce morte in Svizzera, diecimila euro per non soffrire più”

Torino, la scelta di una donna immobilizzata dalla sclerosi: aspetto la chiamata

La diagnosi di sclerosi è stata fatta alla torinese Paola Cirio nel 2002: «E’ una discesa senza freni, ma la vita è mia e voglio il lieto fine Non so quando partirò per la Svizzera, ma so che è giusto farlo»


Andrea Malaguti

«Mi hanno detto che per morire ci vogliono cinque minuti e diecimila euro. Ti danno un gastroprotettore. E subito dopo un bicchiere di veleno, una sostanza di cui non ricordo il nome. A quel punto te ne vai. Senza sentire dolore. Mi hanno anche raccontato di un uomo che prima di spegnersi ha cominciato a russare.
Come se, finalmente, stesse dormendo sereno. E’ questo il suicidio assistito. E’ così che conto di finire la mia vita. In Svizzera. E’ già tutto predisposto, ho avuto la luce verde».

La torinese Paola Cirio cerca la buona morte, una pratica che in Italia è vietata e su cui il Parlamento comincerà una storica discussione a marzo. Prima il testamento biologico, poi l’eutanasia, ennesima parola tabù che inquieta il mondo cattolico. Un dibattito imposto dalla caparbietà dei radicali, dalle azioni di disobbedienza civile di Marco Cappato, da Mina Welby e da Sos Eutanasia. Davvero si può dire a qualcuno quando spegnere l’interruttore? «In questo Paese sui diritti civili siamo alla preistoria. La politica è patetica. Io ho deciso di raccontare il mio percorso perché penso non sia giusto che solo chi ha un po’ di soldi da parte possa decidere di crepare con dignità». In attesa dei Palazzi il mondo, come sempre, procede per conto suo.

L’ULTIMO ISTANTE

Seduta sul divano del piccolo salotto di casa, le gambe immobilizzate dalla sclerosi multipla, la signora Cirio, 53 anni, racconta come ha intenzione di fregare la morte battendola sul tempo. «Devo essere io a scegliere, non la malattia». Non c’è rabbia nelle sue parole. E lei trasmette un invidiabile senso di libertà. Quella che lo Stato non le concede. E che Paola si è presa comunque. «Non ho paura. E so che, anche se non mi ridaranno i soldi, posso tornare indietro fino all’ultimo istante. Ho un’opportunità in più».

E’ una donna minuta, con i capelli corti. Una collana di perle è l’unico vezzo che si concede. Da ragazza ha studiato all’istituto d’arte, forse più per ribellarsi alla madre che per vocazione. Ha finito per fare l’impiegata al Politecnico, ma se la fotografia della sua esistenza si limitasse a questo non racconterebbe nulla di lei. «Se dovessi definire la mia vita direi “spericolata”, alla Vasco. Ho molto viaggiato e ho molto visto, dal Laos al Mar Rosso e se ho scelto di andarmene stabilendo io come non è perché ho smesso di amare la terra, è perché voglio impedirmi di odiarla». Considera il dolore destinato a sopraffarla una punizione ingiusta. «Perché la dovrei accettare?».

LA MALATTIA

La sclerosi gliel’hanno diagnosticata nel 2002. «Ma già nel 1999 avevo capito di stare male. Diplopia. Ci vedevo doppio. All’ospedale mi dissero: potrebbe essere sclerosi. Lo era». Nessuno le ha spiegato come sarà il decorso della malattia, ma lei ha studiato per conto suo. Solo l’esito è certo. «A un certo punto i muscoli si paralizzano. Ma la testa rimane lucida. E allora sei in trappola e sai che non ti resta molto. In genere si muore per un attacco cardiaco. Un medico non te lo spiegherebbe mai in questo modo, ma io lo so». Arriva un momento in cui il corpo che ti è così familiare diventa non solo estraneo ma radicalmente ostile. «E’ una discesa senza freni». Così, proprio per non sentire addosso l’indicibile panico dei sepolti vivi, Paola ha cominciato il suo percorso. Si è rivolta all’associazione Exit, che a Torino ha una sede a pochi metri da casa sua. Poi Sos Eutanasia, che oggi la porta a Roma, in Senato, per raccontare la sua scelta, si è schierata al suo fianco.

LA CLINICA

«Mi hanno fatto capire che andando in Svizzera potevo decidere da sola. Ho detto: bene, lo faccio, perché ho pensato che quando la malattia mi paralizzerà non avrò neanche la forza di buttarmi dalla finestra. Ci ho pensato al suicidio, sa? Due volte. Un giorno avevo deciso di lanciarmi dal terrazzo di un mio amico che abita al nono piano. Non ho avuto il coraggio. E ho anche pensato che gli avrei creato un sacco di problemi. Un’altra volta ho immaginato di lasciarmi cadere sotto un treno. Ma anche in quel caso ha vinto la paura». Le è venuta in mente la storia di un’ amica che si è tolta la vita per amore. «Il treno l’ha tagliata in due. Mi sono detta che doveva esistere un sistema meno violento. L’ho trovato». Ha versato diecimila euro a un centro di Ginevra e inviato le sue cartelle cliniche. Dopo due mesi è arrivata la risposta. «Se vuole noi siamo qui per lei, luce verde». Si è sentita sollevata, perché è certa che arriverà un momento in cui si sentirà da qualche parte al di fuori dalla vita e dalla morte, sospesa tra il cielo e la terra in un luogo in cui non ha intenzione di stare. «Mandano un’ambulanza a prelevarti e quando arrivi in Svizzera ti fanno parlare con degli psicologi. Cercano di convincerti a non farlo. Se tu insisti loro ti assecondano. Ma io conosco un solo caso in cui qualcuno si è tirato indietro». Guarda fuori dalla finestra. Si vedono le montagne. Poche centinaia di metri più in là c’è lo stadio del Toro. «Ora ho una casa di 70 metri. Ma la preferisco a quella da 700 di uno come Bertone che si permette di dire agli altri che cosa è giusto».

LA FAMIGLIA

Paola Cirio non ha figli. Aveva un marito, ma lo ha messo alla porta anni fa. «Mi tradiva. E quando la malattia si è presentata si è comportato al contrario di come mi sarei aspettata». La sua famiglia è un nucleo ristretto. Una sorella più giovane, un padre malato e una madre con cui non è mai andata d’accordo. «Una cattolica praticante che non mi ha mai capita. Ma anch’io non capisco la Chiesa. Quando ho divorziato mi hanno esclusa. Come se in quella vicenda non fossi già la vittima. Oggi non credo più a nulla. Nè a Dio né all’eternità. Ho deciso di farmi cremare. E poi di far spargere le mie ceneri in un bosco svizzero. Va bene lì ma sarebbe lo stesso se fosse l’Alaska. Quando mia sorella ha scoperto che avevo deciso di chiedere il suicidio assistito ha pianto. Perché non mi hai detto nulla?, mi ha chiesto. Le ho detto che questa è la mia vita e che voglio il lieto fine. Non so quando arriverà il momento. Non so quando partirò per la Svizzera, ma so che è giusto. Credo abbia compreso. Mia madre no. Ma a questo punto che importa?».

7.12.15

Sono cambiate le regole del gioco: il voto a Marine Le Pen non è di protesta

Superati ormai gli schemi su cui era basata la dialettica politica tradizionale

Cesare Martinetti

Il Front National è il primo partito di Francia, Marine Le Pen cambia il paradigma politico di un paese fondatore dell’Unione europea e apre una dinamica imprevedibile nel vecchio continente. Un vittoria annunciata ma non per questo meno clamorosa: è un voto che segna qualcosa di molto più profondo, è il superamento dello schema politico novecentesco, saltano le categorie nelle quali si sono formati i partiti delle democrazie occidentali. Il 40 per cento di voti presi da Marine Le Pen e dalla nipotina Marion nella due regioni in cui erano candidate (Nord-Pas-de-Calais e Piccardia, Provenza-Costa Azzurra) costituiscono la somma dei voti di destra e sinistra, ex gollisti e socialisti. Nel resto del Paese il Front è al 30 per cento; secondo partito i “repubblicani” di Sarkozy con il 26. I socialisti sono al 23.

Tutto questo non si può più interpretare con la vecchia formula del voto di protesta. Non basta più. Bisogna prendere atto che la politica sta cambiando, inutili le vecchie formule che ancora si sentono oggi in Francia tipo «far fronte all’estrema destra» che è un modo appena più reticente di dire: no ai fascisti. Più lo si dirà e più voti andranno al Front. Il paese è già altrove. Sono anni che sociologi e sondaggisti avvertono un rimescolamento nel profondo della società.

I voti al Front National arrivano in gran parte dalle classi popolari, molti dei nuovi elettori frontisti hanno votato comunista per anni. È il voto dei delusi, dei dimenticati, è il voto di un paese profondo al quale la politica non sa più parlare. È un voto populista, postideologico e in questo senso introduce stabilmente nel paesaggio politico un soggetto “nuovo” ma non per questo anti-politico.

È un voto contro le élites politiche che giocano una piccola battaglia di apparati. È un voto contro la tecnocrazia gelida di Bruxelles da dove arrivano soltanto diktat cifrati che la gente traduce in perdita secca nella propria quotidianità. Non è un caso che l’unica regione in cui il Front arriva terzo con il 18 per cento dietro la destra al 30 e i socialisti al 25 è l’Ile-de-France e cioè la regione di Parigi: impensabile un voto contro le élites nella capitale delle élites.

È naturalmente un voto di paura dopo gli attentati. Ma sarebbe un errore pensare che i francesi hanno votato Front dopo Charlie Hebdo e le stragi di venerdì 13 novembre.

Una crescita continua

La dinamica elettorale per il Front è positiva da 2002, l’anno in cui il vecchio Jean-Marie Le Pen, padre di Marine riuscì a battere il premier socialista Lionel Jospin nel primo turno delle presidenziali e arrivò al ballottaggio con Chirac. Perse, è vero, per 82 a 18 (per cento). Ma il grande tabù era rotto. Da allora gli altri partiti, in particolare la destra ex gollista con Nicolas Sarkozy si sono lanciati all’inseguimento del paese che sembrava scivolare sempre di più nell’ombra del Front dando così corso a quella «lepenizzazione» degli spiriti che ieri ha sancito la vittoria di Marine Le Pen.

Sarzkoy il grande battuto

In questo senso il grande sconfitto di queste elezioni è proprio Sarkozy che stava faticosamente costruendo la candidatura per le presidenziali 2017 sognando la grande rivincita con Hollande che l’aveva umiliato tre anni e mezzo fa. Dopo questo risultato è molto difficile che Sarko, che ieri sera ha lanciato proclami di battaglia contro l’estrema destra rifiutando qualunque alleanza con il Ps per il secondo turno, possa essere candidato. Il grande rivale moderato Alain Juppé (l’unico che sembra in grado di battere la Le Pen in un ballottaggio perché capace di raccogliere anche molti voti socialisti) ha già annunciato battaglia nel partito.

Hollande e la sinistra divisa

Hollande è stato sconfitto ma meno di quel che si pensava. I voti della sinistra (come sempre dispersi) sommati fra loro fanno quasi ovunque più del Front. Ma si sa che un conto è la matematica e un altro conto la politica. Il presidente ha comunque molto recuperato grazie all’atteggiamento fermo e reattivo di fronte agli attentati. La «guerra» immediatamente dichiarata all’Isis, lo stato di emergenza messo in atto nel paese, l’attivismo diplomatico gli hanno riportato molti consensi persi nel deludente andamento economico del paese. Lui, certamente, sarà il candidato alla propria successione tra poco più di un anno.

Promesse mirabolanti

Detto questo bisognerà anche vedere che uso farà Marine Le Pen di questo risultato elettorale, che naturalmente dovrà essere confermato domenica prossima ai ballottaggi. Ma nel sistema francese le regioni hanno poteri molto meno significativi delle regioni italiane, non si potrà certo misurare il programma di governo del Front. La Pen vince su promesse mirabolanti: l’uscita dall’euro (che in verità negli ultimi tempi ha un po’ attenuato, forse nel timore di doversi poi trovare davvero a metterla in atto), la chiusura dei confini agli stranieri, nazionalizzazioni delle imprese che delocalizzano, etc. Ma questa sarà la partita del 2017 della quale sappiamo da fin d’ora che uno dei due candidati sarà Marine Le Pen. Resta da capire chi potrà (e saprà) sfidarla.

24.6.15

L’ideologia che condiziona i risultati

Mario Deaglio (La Stampa)

Pensavamo che il rinvio sistematico delle decisioni politicamente scomode fosse una prassi tipicamente italiana; dobbiamo constatare che sta rapidamente diventando una prassi europea. E’ questa, infatti, l’ottava volta da febbraio che una riunione sul debito greco, indicata come «decisiva» alla vigilia, si conclude con un rinvio. Una simile lentezza su una questione nella quale le cifre in gioco, pur importanti, non sono colossali pare dovuta a tre motivi diversi.

Il primo è il «rischio finanziario», ossia il pericolo che il debito greco provochi un effetto-valanga, travolgendo le banche (greche e di altri Paesi) che detengono i titoli di questo debito. Il loro valore crollerebbe in caso di non pagamento, il crollo coinvolgerebbe anche gli operatori che hanno nel loro portafoglio i titoli di queste banche. Si innescherebbe una catena mondiale di forti ripercussioni negative, come successe per la banca americana Lehman Brothers, con il pericolo di nuova recessione mondiale.

In realtà, questo rischio appare ben controllato perché la maggior parte del debito greco è ora sottratta alle normali contrattazioni, essendo detenuta da grandi istituzioni europee e internazionali che, pur con un segno meno in bilancio, non sarebbero compromesse da queste perdite.

La vera paura, che attanaglia mercati e governi, è un’altra: visto il parziale condono alla Grecia del debito, altri Paesi indebitati potrebbero mettersi sulla stessa strada. Perché il Portogallo, che sopporta, senza contestare Bruxelles, misure economiche molto gravose, a causa dei suoi debiti, dovrebbe continuare a essere «virtuoso», visto che un grande accordo sul debito greco dimostrerebbe che la virtù finanziaria non paga? Perché, la Spagna - che tra qualche mese potrebbe essere governata da Podemos - non dovrebbe opporsi alla continuazione di pesanti misure di austerità?

Questo rischio - che si può definire «rischio politico» - non è facile da controllare e rende particolarmente inquieta un’Unione Europea che vede aprirsi così, la strada della propria disgregazione. Per questo si sta facendo strada l’idea che, anche nel caso di un’uscita della Grecia dall’euro, dovrebbe essere fissato l’obiettivo del suo rientro: l’Unione Europea dovrebbe essere pronta, oltre ad accettare un lunghissimo prolungamento del periodo di restituzione, anche a finanziare trasformazioni produttive dell’economia ellenica, senza le quali, dentro o fuori dell’euro, l’economia greca rimarrebbe disastrata.

Il rischio che però intimorisce di più la comunità internazionale è quello di cui si parla di meno e che potrebbe essere definito il «rischio ideologico». Alcuni mesi fa, in diverse occasioni, il primo ministro greco, Alexis Tsipras, definì come «ricatto alla democrazia» l’intimazione al suo Paese di restituire, alle date concordate, quanto ricevuto in prestito. Affermando implicitamente che «la democrazia passa davanti al debito», Tsipras ha sostenuto che uno stato democratico potrebbe legittimamente non pagare, specie se i creditori sono banche straniere.

Andando ancora più in là, non manca chi sommariamente invoca la distruzione della ricchezza finanziaria, che deriverebbe da una nuova crisi, e una «ripartenza da zero». In questo caso, la Grecia potrebbe diventare la testa di ponte di un nuovo movimento mondiale per il non pagamento del debito estero, finalizzato al superamento dell’attuale ordine economico. Le potenzialità «sovversive» di questa posizione spiegano, tra l’altro, il tentativo del cancelliere tedesco, Angela Merkel, di evitare a ogni costo uno scontro nel quale un sistema di mercato come l’attuale, che si vanta di aver superato le ideologie, sarebbe particolarmente vulnerabile

Nell’attuale crisi, solo alla minuscola Islanda è riuscito di non pagare il debito, ma ha dovuto ugualmente accettare dure misure di austerità che ne hanno rimesso in piedi l’economia. Prima dell’economia, però, il dilemma posto dalla Grecia è una questione di grandi scelte preliminari, di ideologia, appunto. Nell’«Edipo Re», una delle più importanti tragedie greche, rispondendo all’indovinello della Sfinge, Edipo diede il via ad avvenimenti terribili e luttuosi. Per questo, finché può, a Bruxelles si preferisce rinviare o rallentare, non rispondere agli indovinelli.


4.6.15

L’Italia dei migranti è un patrimonio di 5 milioni di persone

La fotografia di Caritas e Migrantes: non solo un problema, ma una risorsa pari all’8,8%del Pil



Stefano Rizzato (La Stampa)

«E’ il cittadino che risiede nel nostro Paese da 30 anni, che attende la cittadinanza italiana o che l’ha già. È il ragazzo nato da cittadini immigrati e che viene chiamato straniero. Sono le coppie miste. Sono i migranti ricongiunti. I lavoratori sfruttati nei campi agricoli. Le donne sottopagate che curano i nostri anziani, i nostri bambini e le nostre case». È questo l’immigrazione in Italia, secondo il cardinale Francesco Montenegro, neo-presidente di Caritas italia. Non solo un problema da risolvere, ma una risorsa e una realtà già viva e consolidata. Un patrimonio fatto ormai di oltre 5 milioni di persone, distribuite in tutto il Paese, come emerge dal 24esimo Rapporto Immigrazione stilato da Caritas e Migrantes.

La Caritas: “No al muro tra noi e loro”
«Sono sceso dalla barca dei migranti per salire su quella della carità», ha detto il cardinal Montenegro, che ha visto da vicino anche i drammi del mare, da arcivescovo di Agrigento e “prete di Lampedusa”, come viene chiamato. «Non nego i problemi - prosegue - e L’Italia probabilmente non ha una sua ricetta per l’immigrazione. Ma le diverse regioni e città italiane hanno mostrato che la convivenza serena e pacifica è possibile. La storia non può e non deve rifare gli stessi errori. Siamo nell’era della globalizzazione e dell’immigrazione, ma ancora ci sono momenti in cui alziamo il muro del “noi e loro” e bisogna ricominciare da capo».



L’era delle migrazioni
Che sia davvero l’epoca dei migranti lo confermano anche i numeri dell’Onu, inclusi nel rapporto di Caritas e Migrantes. Nel mondo sono ormai 232 milioni, al 2013, le persone che vivono in un Paese diverso da quello d’origine. Nel 1990 erano 154 milioni. Sono soprattutto l’Europa e l’Asia ad ospitare i migranti, insieme con il 62 per cento del totale internazionale, seguite dal Nord America col 23 per cento. Gli 11 Paesi con il numero più alto di migranti mettono insieme il 54 per cento del totale: una lista che al primo posto - per distacco - ha gli Stati Uniti e all’ultimo proprio l’Italia.


In crescita i richiedenti asilo
Il numero ufficiale dei migranti registrati in Italia nel 2014 è di 4,9 milioni di persone. Ma la cifra è già cresciuta e secondo le stime Istat è arrivata a 5 milioni e 73 mila: l’8,3 per cento della popolazione. Un mondo fatto di lavoratori, che contribuiscono al PIL italiano - come mostra il rapporto - per 123 miliardi di euro, quindi circa l’8,8 per cento del totale. Nell’analisi delle richieste di permesso di soggiorno, restano largamente prevalenti i motivi di lavoro e di famiglia. Ma al terzo posto non ci sono più le ragioni di studio, ma le richieste di asilo e protezione umanitaria, che rappresentano il 4,8 per cento dei permessi di soggiorno.

Il rapporto, in sintesi, con le schede regionali

26.1.15

Effetto Tsipras sulle Borse, a Tokyo crolla l’euro

 (La Stampa)
In mercati in ansia dopo il trionfo di Syriza ad Atene. Ma il piano Bce smorza le tensioni

L’effetto Alexis Tsipras, vincitore indiscusso con la sua Syriza alle elezioni politiche in Grecia, si abbatte sull’euro che segna all’apertura dei listini di Borsa di Tokyo un tonfo sia contro il dollaro e sia contro lo yen, scendendo rispettivamente a 1,1139 e a 130,78. Nelle contrattazioni di venerdì sulla piazza valutaria di New York, l’euro si era già indebolito a 1,1200 dollari e a 132,02 yen sulle attese dell’affermazione di Tsipras, promotore dell’inversione di rotta delle politiche di risanamento ed austerità imposte dalla troika, alimentando i timori sull’arrivo di un’altra fase d’instabilità in Eurolandia.
In flessione anche il biglietto verde sulla divisa nipponica, sceso a quota 117,40

I mercati sono in apprensione per il destino del debito di Atene, che ammonta a circa 320 miliardi di euro. Gli analisti sembrano però escludere reazioni isteriche, un po’ per l’effetto “paracadute” rappresentato dal quantitative easing lanciato giovedì dalla Bce e un po’ per il fatto che - dopo il piano di aiuti condizionato alle misure di austerity imposte dalla troika (Fmi, Ue, Bce) - l’esposizione verso i privati, secondo i dati elaborati da Ig Markets, è scesa dal 59% al 17% del totale, a fronte di un 62% in mano ai governi dell’Eurozona, un 11% della Bce e un 10% dell’Fmi.
Insomma qualora dovesse aprirsi un tema di taglio del debito greco - punto qualificante del programma del movimento guidato da Alexis Tsipras - questa volta, a differenza che nella crisi del 2010, il problema sarà in primo luogo dei governi e della istituzioni europee e non di banche e fondi. «Il tema del contagio non è del tutto superato me si è ridotto» afferma Lucy O’Carroll, economista di Aberdeen asset management.

L’attenzione resta comunque elevata. «È nell’interesse del governo greco fare le riforme necessarie per risolvere i suoi problemi strutturali», commenta il presidente della Bundesbank Jens Weidmann alla tv tedesca Ard dopo i primi risultati del voto in Grecia. «Atene - continua - deve aderire alle condizioni del salvataggio». L’Ansa riferisce che il presidente della Bce Mario Draghi, quelli della Commissione Ue Jean Claude Juncker, del Consiglio Danald Tusk e dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem avranno una colazione di lavoro prima dell’Eurogruppo per discutere della Grecia.

Gli analisti di Axa Investment Management ammettono che «le incertezze sulle trattative tra la Grecia e i creditori internazionali faranno le loro vittime tra gli asset rischiosi» ma si aspettano un effetto «marginale» sul complesso dell’Eurozona. Lo stesso Tsipras ha detto di non avere come obiettivo l’uscita dall’euro e dunque dovrà cercare un compromesso con i suoi creditori, anche per non vedere i bond di Atene esclusi dagli acquisti della Bce.

La conferma di una vigilia tranquilla arriva anche dall’andamento dei rendimenti e degli spread dei titoli sovrani nell’Eurozona, scesi a livelli bassissimi grazie all’ombrello della Bce. Unica eccezione i bond greci, che nelle ultime sedute hanno registrato un’inversione della curva dei rendimenti, con i titoli triennali che rendono di più dei decennali (il 9,7% contro l’8,1%), segno che il mercato teme una ristrutturazione che andrà a colpire maggiormente le scadenza più vicine.

Alla riapertura delle borse europee si conosceranno con esattezza le dimensioni del successo di Syriza. E si capirà se il movimento anti-austerity´ avrà da solo i 151 voti necessari per controllare l’assemblea legislativa ellenica (ipotesi meno gradita al mercato) o dovrà trovare alleati più moderati, come il partito socialista Pasok o il To Potami guidato dal giornalista televisivo Stauros Theodorakis.

19.1.15

Cresce la disuguaglianza, in mano a 80 “paperoni” la ricchezza del 50% della popolazione povera

Cresce la disuguaglianza, in mano a 80 “paperoni” la ricchezza del 50% della popolazione povera

La denuncia in un rapporto di Oxfam: «Nel 2010 erano 388 persone, l’anno scorso 85». Secondo le stime nel 2016 l’1% della popolazione sarà più ricco del restante 99%
19/01/2015
La ricchezza detenuta dall’1% della popolazione mondiale, i “paperoni” del pianeta, supererà nel 2016 quella del restante 99% degli abitanti. La denuncia arriva dal rapporto “Grandi disuguaglianze” messo a punto da Oxfam, la confederazione internazionale (composta da 17 organizzazioni di diversi paesi), attiva sul fronte umanitario e su quello dello sviluppo.


Per Oxfam «l’esplosione della disuguaglianza frena la lotta alla povertà in un mondo dove oltre un miliardo di persone vive con meno di 1,25 dollari al giorno, e 1 su 9 non ha nemmeno abbastanza da mangiare». La direttrice esecutiva di Oxfam International, Winnie Byanyima, si chiede: «Vogliamo davvero vivere in un mondo dove l’1% possiede più di tutti noi messi insieme? La portata della disuguaglianza è - rimarca - semplicemente sconcertante e nonostante le molte questioni che affollano l’agenda globale, il divario tra i ricchissimi e il resto della popolazione mondiale rimane un totem, con ritmi di crescita preoccupanti». Secondo il direttore Generale di Oxfam Italia, Roberto Barbieri, «se il quadro rimane quello attuale anche le elite ne pagheranno le conseguenze».


Oxfam, in una nota, chiede ai governi di adottare un piano di sette punti per affrontare la disuguaglianza: dal «contrasto all’elusione fiscale di multinazionali e individui miliardari» all’introduzione «di salari minimi». Se lo scorso anno, sempre secondo Oxfam, «gli 85 paperon de’ paperoni del mondo detenevano la ricchezza del 50% della popolazione più povera (3,5 miliardi di persone). Quest’anno il numero è sceso a 80, una diminuzione - sottolinea - impressionante dai 388 del 2010. La ricchezza di questi 80 è raddoppiata in termini di liquidità tra il 2009-2014».

19.7.14

Bungaburla (Gramellini) (e: «Non ci fu la concussione», ecco perché Berlusconi è stato assolto (Ferrarella), e ancora: Innocente a sua insaputa (Travaglio)

Massimo Gramellini  (La Stampa)

Dunque non era un reato, ma solo una gigantesca figura di m. Prima che, sull’onda della sentenza di assoluzione, l’isteria superficiale dei media trasformi il fu reprobo Silvio in un martire, ci si consenta (direbbe lui) di ricordare che il bunga bunga potrà anche essere legale, ma rimane politicamente incompatibile con un ruolo istituzionale quale quello che il sant’uomo rivestiva all’epoca dei fatti.

Tocca ricorrere al solito esempio stucchevole, ma non c’è purtroppo altro modo per fare intendere a certe crape giulive il nocciolo della questione. Se il capo di qualsiasi governo occidentale, poniamo Obama, avesse telefonato dalla Casa Bianca a un funzionario della polizia di New York per informarlo che la giovane prostituta da lui fermata per furto era la nipote del presidente messicano e andava subito consegnata a Paris Hilton invece che ai servizi sociali – e si fosse poi scoperto che Obama medesimo nella sua casa privata di Chicago si intratteneva in dopocena eleganti con la medesima prostituta e una fitta schiera di «obamine» – forse il presidente americano sarebbe stato costretto a dimettersi l’indomani, ma più probabilmente la sera stessa. E allora quell’erotomane di John Kennedy che si intratteneva con due donne al giorno? Intanto è morto prima che lo si scoprisse, ma soprattutto agiva con discrezione, appunto, presidenziale. Non è moralismo. E’ la consapevolezza di rappresentare un Paese senza mettersi nelle condizioni di sputtanarlo a livello planetario. E’ senso dello Stato. Qualcosa che Berlusconi e i suoi seguaci non comprenderanno mai.

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«Non ci fu la concussione», ecco perché Berlusconi è stato assolto

In Appello cade anche l’accusa di prostituzione minorile.
L’ex premier non avrebbe saputo dell’età della ragazza

Luigi Ferrarella (Corriere)

Quando ad Arcore ebbe rapporti sessuali con una prostituta di 17 anni, Silvio Berlusconi non era consapevole che Karima «Ruby» el Mahroug fosse appunto minorenne. E la notte del 27 maggio 2010, quando da Parigi telefonò al capo di gabinetto della Questura milanese Pietro Ostuni per anticipargli che sarebbe arrivata la consigliere regionale Nicole Minetti a prendere in carico una ragazza che gli si segnalava come parente del presidente egiziano Mubarak, giuridicamente questa sua telefonata non ebbe contenuto di minaccia (anche solo implicitamente) costrittiva della volontà dei funzionari di polizia Pietro Ostuni e Giorgia Iafrate: costoro, invece, solo per un eccesso di zelo frutto di una propria condizione psicologica di timore reverenziale, operarono poi fino alle 2 di notte per propiziare un esito (l’affidamento di Ruby a Minetti) sicuramente gradito da Berlusconi benché da lui non illegittimamente preteso. È quanto «racconta», in attesa delle motivazioni tra 90 giorni, il dispositivo della sentenza con la quale ieri la Corte d’Appello di Milano (presidente Enrico Tranfa, relatrice Ketty Lo Curto, a latere Alberto Puccinelli) ha cancellato la condanna di primo grado a 7 anni di carcere, e ha assolto nel merito l’ex premier e attuale leader di Forza Italia, senza alcuna prescrizione e senza richiami alla vecchia insufficienza di prove.

Dall’accusa di prostituzione minorile Berlusconi è stato assolto «perché il fatto non costituisce reato», cioè perché nell’imputato mancava l’elemento psicologico che trasforma una condotta (pur verificatasi) in un illecito penale, in questo caso la consapevolezza che la ragazza fosse minorenne. L’accusa ricavava questa consapevolezza da accenni di Ruby in alcune intercettazioni con amiche (ai quali la difesa contrapponeva però altri spezzoni di segno opposto nelle intercettazioni della ragazza), e da elementi logici come il fatto che a portare Ruby ad Arcore da Berlusconi fosse stato chi (l’ex direttore del Tg5 Emilio Fede) la sapeva minorenne per essere stato suo giurato in un concorso di bellezza in Sicilia: la difesa replicava trattarsi di una deduzione sdrucciolevole, adombrava che Fede (insieme a Lele Mora legato a Berlusconi anche da forti prestiti di denaro) potesse comunque avere magari un interesse a tacere al premier l’età della ragazza, e rimarcava come tutti i testi avessero riferito che Ruby sembrava avere 23/24 anni. L’assoluzione odierna si presta a una curiosità «postuma»: nel senso che la medesima condotta del 2010, se commessa dopo l’entrata in vigore nell’ottobre 2012 della ratifica della Convenzione di Lanzarote del 2007, non sarebbe più stata scriminata, posto che da allora il cliente di una prostituta minorenne non può più invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa minorenne, salvo che si tratti di ignoranza inevitabile, cioè non rimproverabile quantomeno a titolo di colpa.
Sei dei sette anni di pena in primo grado, però, dipendevano dalla concussione, reato del pubblico ufficiale che abusa della sua qualità per costringere qualcuno a dargli indebitamente una utilità. Qui Berlusconi è stato assolto con la formula «perché il fatto non sussiste», segno che per i giudici non ci fu costrizione dei funzionari della Questura. E nemmeno vi fu una loro «induzione indebita», fattispecie tipizzata nel 2012 dalla legge Severino che, se ieri fosse stata sposata dai giudici, avrebbe condotto a riqualificare il reato e ricondannare l’ex premier, sebbene a pena inferiore.

Sin dall’inizio la concussione era statisticamente impervia visto che (nel caso propugnato dai pm Ilda Boccassini e Antonio Sangermano) la persona «costretta» dal pubblico ufficiale (il premier Berlusconi) era anch’essa un pubblico ufficiale (il capo di gabinetto della Questura). Non è un caso, dunque, che in questi giorni sia l’arringa dei difensori Franco Coppi e Filippo Dinacci, sia i tavoli dei giudici avessero (oltre alla sentenza delle Sezioni Unite su concussione/induzione) un libro in comune: quello di Gianluigi Gatta (professore associato di diritto penale alla Statale di Milano, «scuola» Marinucci-Dolcini) sulla condotta penalmente rilevante di «minaccia». Muovendo dall’osservazione del giurista Carrara sulla matrice latina del termine «concussione» («l’idea dello scuotere un albero per farne cadere i frutti»), lo studioso nel 2013 propendeva per l’idea che la minaccia, per essere presupposto di una concussione, dovesse essere un fatto aggressivo/prevaricatore ben diverso dal mero timore reverenziale che il soggetto passivo può provare nei confronti del superiore gerarchico, all’interno della propria condizione psicologica e senza che questo timore reverenziale sia determinato dalla minaccia esterna del soggetto attivo. Coppi aveva perciò sostenuto che, «se il concusso è idealmente solo chi sia preso per il collo e messo spalle al muro di fronte a un aut-aut, sotto inesorabile minaccia, questo non è il caso di Ostuni, i cui moti interni non dipendono dalla condotta di Berlusconi, ma dalla soggezione psicologica verso chi ha ruolo superiore.

Chi non ha il coraggio di dire no, non è protetto dal diritto: se Ostuni al massimo si è sentito condizionato dalla richiesta di Berlusconi, se ha avuto timore reverenziale verso chi magari ha pensato di compiacere, questi (lo dico elegantemente) sono fatti suoi, non ricollegabili a una minaccia di Berlusconi». Il pg Piero de Petris indicava l’architrave della concussione nella balla di Berlusconi sulla storia di Ruby parente di Mubarak: «Poiché la Questura già in pochi minuti verifica che non è vero, il potenziale intimidatorio percepito da Ostuni sta proprio nella falsità della parentela con Mubarak prospettata da Berlusconi come foriera di un incidente diplomatico con l’Egitto: e dunque Ostuni esegue la prestazione richiesta da Berlusconi (affidare Ruby a Minetti) in esecuzione dell’ordine ricevuto, e non certo perché indotto dalla storia dell’inesistente parentela» o da un generico «timore reverenziale verso il premier». Argomento rovesciato dalla difesa: «Solo un pazzo incosciente avrebbe usato una bugia con le gambe cortissime: era invece segno che Berlusconi credeva davvero Ruby parente di Mubarak, e non la sapeva minorenne, tanto da poi subito allontanarla. La riprova è che, quando dopo 8 giorni Ruby è di nuovo in Questura, nessuno più fa nulla e Ruby finisce in comunità».

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Innocente a sua insaputa
Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano)
Cambiata la legge salvato il Caimano

Ormai è un giochino un po’ frusto, ma ben si attaglia al nostro caso: Silvio Berlusconi è innocente a sua insaputa. Da settimane sia lui sia i suoi legali davano per scontata una condanna anche in appello, almeno per le telefonate intimidatorie alla Questura di Milano per far affidare Ruby al duo Minetti-Conceicao, ed escludevano dal novero delle cose possibili la sconcertante assoluzione plenaria che invece è arrivata ieri. Speravano in uno sconto di pena per la concussione; e confidavano nella vecchia insufficienza di prove per la prostituzione minorile. Non era scaramanzia, la loro. E neppure sfiducia congenita nelle “toghe rosse”, nel “rito ambrosiano” e nei giudici “appiattiti” sui pm: questa è propaganda da dare in pasto agli elettori-tifosi più decerebrati. Ma B. e i suoi avvocati sanno benissimo che ogni collegio giudicante fa storia a sé, come dimostrano i tanti verdetti favorevoli al Caimano proprio a Milano (molte prescrizioni, anche grazie a generose attenuanti generiche, e poche assoluzioni).

Perché allora l’avvocato Coppi confessa, in un lampo di sincerità, che l’assoluzione va al di là delle sue più rosee aspettative? Perché sa bene che il primo dei due capi di imputazione, quello sulle ripetute telefonate di B. dal vertice internazionale di Parigi ai vertici della Questura, è un fatto documentato e pacificamente ammesso da tutti: ed è impossibile negare che, quando un capo di governo chiede insistentemente un favore a un pubblico funzionario, lo mette in stato di soggezione o almeno di timore reverenziale. Che, nel diritto penale, si chiama concussione. Magari non per costrizione (come invece ritenne il Tribunale), ma per induzione (come sostennero la Procura e, nel nostro piccolo, anche noi con l’articolo di Marco Lillo di qualche giorno fa). Se il processo si fosse concluso entro il 2012, entrambe le fattispecie di concussione sarebbero rientrate nello stesso reato, con pene graduate. Il 30 dicembre 2012, invece, il governo Monti e la maggioranza di larghe intese Pd-Pdl varò la legge Severino che scorporava l’ipotesi dell’induzione, trasformandola in un reato minore, di cui rispondono anche le ex-vittime trasformate in complici (ma la Procura di Bruti Liberati, testardamente, ha sempre difeso i vertici della Questura, insistendo a considerarli vittime). In pratica, nel bel mezzo della partita, si modificò la regola del fuorigioco, alterando il risultato finale. Cambiata la legge, salvato il Caimano. Ora vedremo dalle motivazioni della sentenza in che misura quella scriteriata “riforma”–fatta apposta per salvare Penati e B., nella migliore tradizione dell’“una mano lava l’altra”, anzi le sporca entrambe – ha inciso sul verdetto di ieri. Ma il sospetto è forte, anche perché – come osserva lo stesso Coppi – “i giudici non potevano derubricare il reato” dalla concussione per costrizione al nuovo reato di induzione: le sezioni unite della Cassazione, infatti, hanno già stabilito che l’induzione deve portare un “indebito vantaggio” a chi la subisce. E i vertici della Questura non ebbero alcun vantaggio indebito, affidando Ruby a Minetti&Conceicao: al massimo evitarono lo svantaggio indebito di essere trasferiti sul Gennargentu. Dunque pare proprio che la sentenza di ieri, più che Tranfa (il presidente della II Corte d’appello), si chiami Severino. Vedremo se reggerà davanti alla Cassazione. Che potrà confermarla, chiudendo definitivamente il caso; oppure annullarla per motivi di illegittimità, ordinando un nuovo processo di appello e precisando esattamente i confini della costrizione e dell’induzione. E non osiamo immaginare che accadrà se nel processo Ruby-ter si accerterà che le Olgettine, principali testimoni del bunga-bunga, sono state corrotte dall’imputato del Ruby-uno per mentire ai giudici: ce ne sarebbe abbastanza per una revisione del processo principale, inficiato dalle eventuali false testimonianze di chi avrebbe potuto provare ciò che, a causa delle loro menzogne, non fu ritenuto provato. Nell’attesa, alcuni punti fermi si possono già fissare. 1) Chi sostiene che questo processo non avrebbe mai dovuto iniziare non sa quel che dice. Il giro di prostituzione, anche minorile, nella villa di Arcore, così come le telefonate di B. alla Questura, sono fatti assolutamente accertati, dunque meritevoli di una verifica dibattimentale (doverosa, non facoltativa) in base a due leggi del governo B. (Prestigiacomo e Carfagna sulla prostituzione minorile) e a una terza votata anche dal Pdl (Severino). Tantopiù che la Corte d’appello, se giudica insussistente il fatto (cioè il reato) della concussione/ induzione, ritiene che invece il fatto degli atti sessuali a pagamento con Ruby sussista eccome, ma non costituisca reato (forse per mancanza di dolo o “elemento soggettivo”: cioè perché non è provato che B. sapesse della minore età di Ruby). 2) L’assoluzione in appello non significa che la Procura che ha condotto le indagini e il Tribunale che ha condannato B. abbiano sbagliato per dolo e colpa grave e vadano dunque puniti in base alla tanto strombazzata “responsabilità civile”: sia perché gli errori giudiziari non sono soltanto le condanne degli innocenti, ma anche le assoluzioni dei colpevoli, sia perché tutti i magistrati hanno deciso in base al proprio libero convincimento sulla base di un materiale probatorio che, dal punto di vista fattuale, è indiscutibile (i soli dubbi riguardavano se B. avesse consumato atti sessuali con Ruby e se fosse consapevole dell’età della ragazza, che indubitabilmente si prostituiva lautamente pagata). 3) Il discredito nazionale e internazionale per B. non è dipeso dalla condanna di primo grado (giunta soltanto un anno fa, dopo la sconfitta elettorale), ma dai fatti emersi dalle indagini con assoluta certezza: il giro di prostituzione nelle sue ville, l’abuso di potere delle telefonate alla Questura, i milioni di euro alle Olgettine dopo l’esplodere dello scandalo e le tragicomiche giustificazioni (“nipote di Mubarak”, “cene eleganti” e simili) sfoderate dal protagonista su quelle condotte indecenti. Indecenti in sé: lo erano ieri e lo sono anche oggi. A prescindere dalla loro rilevanza penale, visto che nessuna sentenza di assoluzione potrà mai dire che quei fatti non siano avvenuti. 4) Sarebbe puerile collegare la sentenza di ieri con l’atteggiamento remissivo di B. sulle “riforme” e sul governo Renzi: se il Caimano s’è trasformato in agnellino, anzi in zerbino del Pd, è perché spera sempre nella grazia da Napolitano o da chi verrà dopo (che lui confida di concorrere a eleggere con la stessa maggioranza delle “riforme”). Non certo perché i giudici, giusti o sbagliati che siano i loro verdetti, prendano ordini dal governo o dal Pd. Altrimenti non si spiegherebbero le tre condanne in primo grado che B. si beccò fra il 1997 e il ’98, nel bel mezzo dell’altro inciucio: quello della Bicamerale D’Alema. 5) Nessuna sentenza d’appello può più “r i abilitare” B.: né per i fatti oggetto del processo Ruby, che sono in gran parte assodati; né per quelli precedenti, che appartengono ormai alla storia, anzi alla cronaca, e nera. Ieri si è deciso in secondo grado sulle telefonate alla Questura e sulla prostituzione minorile di Ruby, non si è condonata una lunga e inquietante carriera criminale. Quale reputazione può mai invocare un pregiudicato per frode fiscale, ora detenuto in affidamento in prova ai servizi sociali, che per giunta si circondava di un complice della mafia come Dell’Utri, attualmente associato al carcere di Parma, e di un corruttore di giudici per comprare sentenze in suo favore come Previti, cacciato dal Parlamento e interdetto in perpetuo dai pubblici uffici? Mentre si discute sul reato o meno di riempirsi la casa di mignotte, e si chiede ai giudici di dirci ciò che sappiamo benissimo da noi, si dimentica che in quella stessa casa soggiornò per due anni il mafioso sanguinario Vittorio Mangano. Nemmeno quello è un reato: ma è un fatto. Molto più grave di tutti i reati mai contestati all’imputato B. Erano i primi anni 70 e Renzi non era ancora nato. Ma è bene ricordarglielo, specialmente ora che il Caimano rialza il capino. Quousque tandem, Matteo, gabellerai l’ex Papi Prostituente per un Padre Costituente?

3.7.13

Merkel sul lavoro: “I giovani devono essere più mobili”

Intervista alla Cancelliera tedesca:
«Non ci deve essere una generazione perduta, deplorevole il poco impegno dei ceti più ricchi»

Francesca Sforza
inviata a berlino (La Stampa)

Dal birraio greco allo studente italiano, la Conferenza sul lavoro che si apre oggi a Berlino ha due obiettivi: contrastare la disoccupazione giovanile e difendere il lavoro europeo dagli scossoni della crisi con un massiccio sistema di riforme. Ne è convinta la Cancelliera Angela Merkel, che in un’intervista alla Stampa e ad altre cinque grandi testate europee illustra il suo pensiero: c’è una grande responsabilità delle elitès economiche, adesso si tratta di riconquistare la fiducia globale e di garantire più circolazione di cervelli nel mercato del lavoro europeo.

Cancelliera Merkel, mancano meno di novanta giorni alle prossime elezioni federali, come mai soltanto ora la disoccupazione giovanile è entrata di prepotenza nella sua agenda?
La disoccupazione giovanile in Europa mi preoccupa già da molto tempo. L’anno scorso mi sono consultata a questo proposito con i sindacati e i datori di lavoro e quando all’inizio di quest’anno al Consiglio Ue abbiamo approvato il quadro di bilancio dell’Ue per i prossimi anni, siamo riusciti a dedicare 6 miliardi di euro esclusivamente alla lotta contro la disoccupazione giovanile. Il Presidente Hollande e io abbiamo inoltre discusso con rappresentanti di grandi imprese europee su quale possa essere il loro contributo. Ho anche parlato a più riprese con gli industriali tedeschi, chiedendo loro di dare una mano, ad esempio studiando eventuali misure da far poi adottare alla Camera di Commercio greco-tedesca o alle imprese tedesche in Portogallo. L’approvazione del recente bilancio Ue conferma la volontà di procedere in questa direzione.

Cosa risponde a chi vede nel vertice sul Lavoro di domani a Berlino un’operazione di vetrina finalizzata a migliorare l’immagine della Germania, più che di sostanza?
Direi che oggi la disoccupazione giovanile è forse il problema europeo più impellente. E noi tedeschi, che dalla riunificazione abbiamo maturato le nostre esperienze riuscendo a ridurre la disoccupazione con riforme strutturali, ora possiamo mettere a disposizione queste esperienze.

Tornando ai fondi stanziati dal Consiglio Europeo, si potrebbe osservare che il denaro messo a disposizione non risolve il problema. Non è d’accordo anche lei sul fatto che il problema del mercato del lavoro è più profondo?
È vero, e non è possibile risolverlo unicamente con iniezioni di denaro, ci vogliono riforme sagge. Per esempio non è saggio che la legislazione sul lavoro in alcuni Paesi venga flessibilizzata soltanto per i giovani e non per i più anziani, che lavorano già da tempo. In momenti economicamente difficili, questo fa aumentare la disoccupazione giovanile. E poi abbiamo bisogno di maggiore mobilità in Europa. Il Ministro Federale del Lavoro Ursula von der Leyen ha molto lavorato per rafforzare la rete di cooperazione Eures tra la Commissione europea e i servizi pubblici per l’impiego. Si tratta di un servizio che può aiutare molte persone a cercare un posto di formazione o di lavoro in un altro Paese.

Resta il fatto che gli aiuti europei spesso non vengono utilizzati, e che le riforme del lavoro in molti Paesi sono bloccate o in fase di stallo. Che cosa la rende ottimista sul fatto che questa volta andrà diversamente?
Con la Conferenza di Berlino iniziamo a scambiare in modo mirato esperienze concrete su misure che funzionano. In questo contesto saranno riuniti i Ministri del lavoro e i capi delle agenzie nazionali per l’impiego, ovvero proprio chi ha esperienza pratica. Non solo, in ambito ue ormai qualcosa l’abbiamo imparato, dal momento che da due anni impieghiamo le risorse dei fondi strutturali in modo più flessibile, destinandole a quei progetti che hanno veramente priorità per la crescita e l’occupazione. Come viene impiegato ora il denaro lo si può vedere dal fatto che per il 2013 nell’Ue prevediamo manovre di bilancio pari complessivamente a oltre dieci miliardi di euro. Nell’Ue dovremmo poi aspirare a procedure omogenee per la fondazione di imprese, ad esempio nel settore informatico, anziché avere 27, e ora 28, regolamentazioni nazionali. Questo sì che spingerebbe gli investitori internazionali a venire in Europa.

Oltre a Pep Guardiola vengono in Germania migliaia di giovani spagnoli, ma anche italiani o greci, che però finiscono per fare soltanto mini-lavori o instaurare rapporti di lavoro precari. E’ d’accordo sul fatto che non può essere un modello?
I giovani che vogliono lavorare in altri Paesi Ue trovano effettivamente situazioni molto diverse, alcuni un buon posto di formazione o un lavoro promettente, altri invece attività più semplici. Ma anche da queste nel corso del tempo, avendo padronanza della lingua, possono passare a lavori migliori. Ad ogni modo non abbiamo intenzione di ampliare il settore a basso salario, poiché proprio di operai specializzati da noi c’è una grande richiesta e non sempre si riesce a colmarla con i lavoratori tedeschi, che naturalmente vogliamo raggiungere per primi. Ripeto: l’Europa necessita di un mercato del lavoro più mobile. A tal fine la naturalezza con cui studenti e accademici si muovono nel mercato interno può essere ancora migliorata per gli operai specializzati, per i quali a volte le barriere linguistiche costituiscono un ostacolo. Pertanto noi vogliamo estendere il programma di scambio europeo Erasmus anche ai giovani in formazione.

Non ha paura del potenziale di contestazione politica della cosiddetta “generazione perduta”?
Se ci sono disfunzioni è compito dei politici fare qualcosa per risolverle. La disoccupazione giovanile in alcuni Paesi è troppo elevata da diversi anni, adesso è cresciuta ulteriormente con la crisi. In un continente che invecchia questa è una situazione insostenibile. Una generazione perduta semplicemente non ci deve essere.

Esiste uno speciale modello tedesco contro la disoccupazione giovanile?
Anche se dal 2005 abbiamo dimezzato la disoccupazione giovanile, i problemi non mancano, ad esempio non tutti i ragazzi che terminano la scuola sono anche effettivamente in grado di affrontare una formazione. Noi dobbiamo occuparci di loro e il modo migliore è e rimane il sistema duale, ossia il mix di formazione scolastica e aziendale. Ormai possiamo offrire un contratto di apprendistato a tutti i giovani che lo vogliano, a differenza di quanto accadeva qualche tempo fa, quando ad esempio la formazione avveniva al di fuori delle aziende, in appositi laboratori per l’apprendistato. Anche se non è possibile per ogni Paese introdurre un sistema duale tutto insieme, la formazione extra-aziendale resta una via d’uscita. E poi vorrei dire un’altra cosa: è un errore puntare esclusivamente sull’accademizzazione dei giovani. In Germania abbiamo visto che anche la valorizzazione di professioni come l’operaio specializzato o il maestro artigiano dà ottimi risultati.

I mercati del lavoro e i dati sulla disoccupazione nei Paesi dell’Europa del Sud non sono paragonabili con quelli tedeschi. Come si fa a ragionare su soluzioni comuni a fronte di situazioni tanto diverse?
In nessun posto si può pensare di eliminare la disoccupazione giovanile in un sol colpo. Le faccio un esempio: dopo l’unificazione tedesca c’è stato un periodo in cui ho sperato che un grande investitore arrivasse nella mia circoscrizione elettorale e mi risolvesse il problema della disoccupazione, che so, al 25 %. Ovviamente quell’investitore non venne mai e in quell’occasione ho capito che la questione andava costruita pezzo per pezzo: dieci posti di lavoro qui, sei lì, cinque da una parte, altri tre da un’altra. L’importante è che sul posto operino consulenti esperti, che conoscono e incontrano regolarmente i giovani. Bisogna da una parte dare loro speranza, ma dall’altro spronarli a impegnarsi personalmente. E come questo possa riuscire al meglio, lo possiamo solo imparare gli uni dagli altri confrontando esperienze pratiche. Qualsiasi struttura centralizzata, sia a Madrid o a Berlino, non potrebbe funzionare.

Lei ha mai avuto paura di rimanere senza lavoro?
Fortunatamente no. Ma nei primi anni della mia carriera politica mi sono chiesta che cosa avrei fatto se all’improvviso la mia esperienza in politica si fosse chiusa. In quel caso pensai che avrei potuto fare la direttrice di un ufficio per l’impiego; è bello poter aiutare le persone a trovare un lavoro.

Beh, adesso diventa “direttrice dell’ufficio europeo per l’impiego”…
…No, il mio compito è un altro. Consiste nel porre le giuste basi politiche in Germania e con i miei colleghi in Europa.

Le difficoltà non mancano: pensi ad esempio al birraio greco. Ha abbassato del 20% il costo del lavoro per unità di prodotto, ma il suo credito è due volte e mezzo più caro che in Germania. Come può diventare competitivo, come farà ad assumere più persone?
Il problema degli alti costi di rifinanziamento delle imprese si è effettivamente rivelato più ostinato di quanto ci aspettassimo in Europa. Per un periodo possono intervenire la Banca Europea degli Investimenti o anche l’Istituto di Credito per la Ricostruzione tedesco (KfW), sull’aiuto del quale il Ministro Federale delle Finanze Schäuble sta negoziando con la Spagna, il Portogallo e prossimamente anche con la Grecia. Io appoggio anche l’intenzione del Primo Ministro greco Samaras di istituire una banca di sostegno greca come partner del KfW. Ma per una soluzione duratura del problema abbiamo bisogno di regole migliori per il settore bancario e quindi soprattutto di una vigilanza bancaria centrale credibile, che potrà restituire la fiducia degli investitori e portare nel lungo termine a interessi più bassi.

Come mai è stato sottovalutato il problema degli interessi per il normale finanziamento del credito?
Perché fino a questo momento non avevamo mai assistito a una perdita così massiccia di fiducia nelle banche, e addirittura nella vigilanza finanziaria. Ma con una vigilanza bancaria europea e stress test più ambiziosi possiamo riconquistare la fiducia perduta.

In Spagna ad esempio la banca di sostegno statale non funziona. Non crede che si debba accelerare sul progetto di un’unione bancaria?
Stiamo facendo progressi in tutti gli aspetti dell’unione bancaria, ma la velocità senza la precisione non aiuta. La vigilanza entrerà in vigore l’anno prossimo. La Banca Centrale Europea deve prima assumere centinaia di persone altamente qualificate e assicurarsi poi la sua reputazione come autorità di vigilanza con severi stress test. Stiamo lavorando per armonizzare i sistemi nazionali di garanzia dei depositi, fermo restando che il sistema tedesco di tutela dei depositi deve rimanere e rimarrà in vigore per la Germania senza variazioni. I Ministri delle finanze inoltre hanno ora concordato una direttiva Ue per la gestione della liquidazione delle banche. Per noi tedeschi è importante il principio secondo cui il controllo e la responsabilità devono collocarsi sullo stesso piano. Determinate possibilità di intervento potranno esserci soltanto apportando modifiche ai Trattati.

Il solo pensiero di modificare i Trattati fa rizzare i capelli a molti suoi colleghi...
Nel corso degli anni non potremo sicuramente fare a meno di modificare i Trattati. Adesso tuttavia dovremmo fare tutto quanto sia possibile senza modifiche ai Trattati, altrimenti ci vorrebbe troppo tempo per ottenere qualcosa. Siamo Stati di diritto, dunque le nostre azioni devono fondarsi sul diritto e sulla legge e sui Trattati. È stato ad esempio così per l’Esm, per il quale abbiamo dovuto insistere su limitate modifiche ai Trattati, ed è così anche per tutte le questioni della vigilanza bancaria.

Oggi la Germania sembra in prima linea nel sostegno ai programmi occupazionali, persino i limiti del deficit vengono resi meno rigidi. È finita l’epoca dell’austerità?
Continuo a non vedere una reale contrapposizione tra solidità del bilancio e crescita. Del resto chiediamoci: come è nata la crisi del debito? L’indebitamento in alcuni Paesi era così elevato che gli investitori non si fidavano più di loro e quindi non acquistavano più i loro titoli. Gli interessi erano saliti alle stelle, i Paesi potevano finanziarsi solo a prezzo di interessi disastrosi. In una situazione simile un maggiore indebitamento non può essere una soluzione. No, i deficit vanno ridotti affinché gli investitori internazionali tornino ad avere fiducia e si creino di nuovo i margini finanziari per investire nel futuro. E in questo contesto abbiamo già fatto un bel po’ di strada in Europa.

Ma gli investitori non guardano soltanto all’ammontare dei debiti…
… Vero, è altrettanto decisivo quanto competitivo è un Paese, quante industrie ha e quanto è efficiente la sua amministrazione. Bisogna guardare se l’andamento dei salari e la produttività divergono troppo. Tutto questo lo abbiamo dolorosamente capito in Europa con lo choc della crisi. A quel punto era chiaro che non si poteva andare avanti così. Quindi, ribadisco, la strada imboccata è quella giusta: consolidamento del bilancio da una parte e fondamentali riforme strutturali dall’altra. Da ciò ha origine una crescita sostenibile. E poi ciascun Paese deve chiedersi concretamente con che cosa può guadagnare denaro, quali industrie vuole e quali servizi. Il settore dell’edilizia da solo non potrà farcela, in Germania lo abbiamo visto quando il boom edilizio dopo la riunificazione ha subito ad un certo momento una battuta d’arresto.

Colpisce tuttavia il fatto che ora Lei cambi tono e parli più di programmi e di investimenti che di risparmi. Non è così?
Le due cose sono legate. Io ho sempre detto che dobbiamo procedere passo dopo passo. Qualcosa lo abbiamo raggiunto: i deficit in Europa si sono all’incirca dimezzati. Adesso non dobbiamo perdere la pazienza.

L’eurozona è l’unica regione del mondo ancora in recessione. Che cosa c’è di sbagliato?
Se nei Paesi colpiti dalla crisi si sgonfia l’ipertrofica amministrazione pubblica, se si riduce un settore edilizio sovradimensionato, non c’è da meravigliarsi che poi quei Paesi non possano crescere. Prendiamo ad esempio le repubbliche baltiche, che dopo duri anni di rinunce, a seguito di riforme incisive, ora stanno di nuovo molto meglio e registrano tutte di nuovo una crescita. L’insegnamento da trarre è che chi orienta le sue strutture alla competitività, nel medio termine torna anche a crescere. Ho l’impressione che in molti Paesi la gente sappia molto bene che cosa sia andato male nel passato. Mi dispiace che oggi soffrono di più proprio coloro che non hanno assolutamente contribuito a questi sviluppi sconsiderati, cioè i giovani o i poveri. Chi aveva il capitale in molti casi ha lasciato da tempo il proprio Paese o ha altre forme di protezione. Credo che i ricchi nei Paesi più gravemente colpiti dalla crisi potrebbero, con un impegno maggiore, portare più risorse alla collettività. Trovo estremamente deplorevole che le élite economiche si assumano così poca responsabilità per questa situazione.
Perché ha voluto coinvolgere il Fmi nella lotta contro il debito? Gli europei non potevano farcela da soli?
Il Fmi ha un’esperienza nel trattamento degli Stati con un debito eccessivo come nessun’altra istituzione al mondo. Abbiamo beneficiato molto della sua reputazione e della sua cognizione di causa quando si trattava di negoziare i programmi di aiuto con i Paesi interessati.

Proprio nelle ultime settimane il Fmi sta diventando sempre più nervoso riguardo alla sostenibilità del debito greco. Gli statuti potrebbero costringerlo ad uscire. Questo significa che se ciò dovesse avverarsi l’Europa dovrebbe sostenere un programma per il debito della Grecia anche senza il Fmi?
La Grecia ha fatto tangibili passi in avanti grazie al governo Samaras indirizzato molto verso le riforme. Parto dal presupposto che la sostenibilità del debito sussisterà anche in futuro.

Non ci sarà allora un nuovo taglio del debito?
Non lo vedo.

Che messaggio può lanciare, in conclusione, a quei Paesi dell’Europa del Sud che ritengono che le loro economie siano soffocate da una linea tedesca troppo rigida, semplicemente per il fatto che hanno una storia diversa dal punto di vista dello sviluppo economico, magari più incentrata sulle piccole e medie imprese che sulla grande industria?
Se un Paese desidera strutturare la propria economia in modo completamente differente da quella tedesca ben venga. Sono contenta se vie diverse portano al successo. Naturalmente nessuno può contestare la necessità di essere competitivi e di dover lavorare per il benessere e guadagnarselo. Se però guardo all’Italia, alla Spagna o alla Grecia allora vedo settori molto diversi che hanno successo. Non credo che la dimensione sia il parametro determinante per il successo. Quello che conta è che noi tutti siamo consapevoli di quanto il mondo sia cambiato. La Cina, l’India, il Brasile, la Corea del Sud e molti altri Paesi sono da tempo nostri concorrenti nei settori in cui eravamo leader. Noi dobbiamo reagire e cambiare. L’Organizzazione Mondiale del Commercio ci dice che la maggior parte della crescita avviene oggi in parte fuori dal nostro continente. O offriamo a queste regioni del mondo prodotti attraenti ed innovativi o ci rassegniamo a perdere quote di mercato e conseguentemente prosperità ed è proprio questo che non voglio né per la Germania né per l’Europa.

Al congresso del Suo partito a Lipsia nel 2011 era più volte tornata sul tema di un’Europa maggiormente integrata. Oggi il suo programma elettorale è piuttosto diverso al proposito. Quale Europa desidera?
Nell’Ue avremo bisogno nel medio termine di altre modifiche ai Trattati. Ma ora abbiamo problemi più urgenti che dobbiamo affrontare rapidamente, e comunque più rapidamente di quanto non si possano modificare trattati. Nel nostro programma elettorale per le europee ci dedicheremo più intensamente di adesso alle grandi questioni istituzionali. Nel programma per le elezioni al Bundestag abbiamo fissato i prossimi passi necessari.

Ha già rinunciato all’idea di elezione diretta del Presidente della Commissione?
Riguardo a questo argomento sono più scettica rispetto al mio stesso partito, che nel 2011 si era pronunciato in favore dell’elezione diretta. Nel caso di un’elezione diretta del Presidente della Commissione vedo problemi nel tessuto delle istituzioni europee.

Dopo i fatti delle scorse settimane: qual è il posto della Turchia in Europa?
La Turchia è per noi in Europa un partner molto importante e stretto. Stiamo conducendo con la Turchia negoziati ad esito aperto sulla sua adesione. Dopo gli avvenimenti delle ultime settimane l’Europa non è semplicemente passata all’ordine del giorno, perché i diritti umani non sono negoziabili. Il compromesso ora raggiunto, e cioè di poter aprire il prossimo capitolo dei negoziati sull’adesione ad ottobre, dopo la presentazione da parte della Commissione del rapporto sui progressi compiuti, corrisponde ad ambedue le esigenze.

E’ davvero rimasta sorpresa per le dimensioni del Datagate in Gran Bretagna e negli Stati Uniti? E per quale motivo critica le intercettazioni se poi la Germania ne fa uso per difendere la sua sicurezza?
Come la maggior parte dei tedeschi, so molto bene che più volte servizi stranieri ci hanno aiutato a scoprire gruppi terroristici in Germania e impedire in tempo i loro attentati. Tuttavia, accanto al bisogno di sicurezza va sempre tenuto in conto il bisogno della tutela della privacy, tra ambedue deve essere stabilito un equilibrio. I nostri servizi e i nostri ministeri stanno cercando chiarimenti a tutti i livelli, e quindi anche a livello europeo, per quanto accaduto e perciò anche in merito alle nuove questioni sul tavolo dallo scorso weekend. Ritengo che sia un fatto grave spiare gli amici con cimici nelle nostre ambasciate o nelle rappresentanze dell’Ue, non va proprio. Non siamo più all’epoca della guerra fredda. Non vi è dubbio alcuno che la lotta al terrorismo anche tramite informazioni dei servizi su quanto avviene in internet sia assolutamente necessaria, ma non vi è neanche dubbio alcuno che debba essere mantenuta la proporzione. È questo pensiero che guida la Germania nei colloqui con i nostri partner.

L’intervista è stata realizzata in collaborazione con Frédéric Lemaître (Le Monde), Berna Gonzàles Harbour (El Pais), Kate Connolly (The Guardian), Tasos Telloglou (Kathimerini) e Stefan Kornelius (Süddeutsche Zeitung) 

22.2.13

Benni: Grillo? altro che fascista lui odia il militarismo

Il vecchio amico: e pensare che gli dissi “sei disimpegnato...”
di Andrea Malaguti (La Stampa)

Stefano Benni, chi è Beppe Grillo per lei?
«Un amico un po’ ingombrante».
Quando vi siete conosciuti?
«Tanti anni fa, tramite Cencio Marangoni il suo impresario, ci trovammo a un ristorante e mi chiese se volevo collaborare con lui».
Come è cambiato da allora?
«Ha trent’anni e trenta chili di più».
Con che criterio scriveva i testi per lui?
«Non ho mai scritto testi per lui nel senso tecnico del termine. Parlavamo, ci scambiavamo qualche idea, oppure lui leggeva un mio pezzo su qualche giornale e prendeva la battute. Non sembrava quasi lavoro, ci divertivamo. Infatti per lo più non mi pagava... ».
Che cosa ha pensato quando è entrato in politica?
«Quando ho visto che da comico un po’ qualunquista stava diventando un comico di contenuti, che aveva voglia di parlare del mondo, sono stato contento, abbiamo fatto un pezzo di strada insieme. Ad esempio Beppe è stato uno dei primi a parlare in scena della catastrofe climatica, dello strapotere delle banche e della finanza, del problema delle carceri. Allora era controinformazione, non ricerca di voti. Poi un po’ alla volta ha scoperto il web e ha voluto entrare nel mondo del consenso politico. Ho rispettato la sua scelta, ma lì le nostre strade si sono allontanate».
Qual è stato il ruolo della televisione nella sua carriera?
«Penso gli abbia dato molto in fretta un’immensa notorietà. Ma la sua vocazione è teatrale, a contatto col pubblico, lì diventa un animale, gode».
Perché adesso rifiuta la tv?
«E’ l’unica cosa in cui mi ha dato retta in tanti anni ».
Con Sky prima ha accettato l’intervista, poi ha detto no.
«Non ho capito bene cos’è successo, certose aveva detto di sì doveva andarci. Penso che abbia deciso che, a questo punto, era meglio la piazza. Mi sembra che tutti i politici improvvisamente abbiano capito che la televisione non è più il centro di tutto».
Grillo è un dittatore, un rivoluzionario o un uomo qualunque molto arrabbiato?
«Non sta in nessuna di queste definizioni. E’ molto sicuro e aggressivo col pubblico, in privato è pieno di dubbi e ha bisogno di amici, come tutti. Non vive solo di politica, anche se sembra».
Non è un fascista?
«No. In tanti anni lo ho sentito parlare con orrore della militarismo, della propaganda, della violenza contro i deboli. Non può essere cambiato in pochi mesi. Si ripresenta Berlusconi e abbiamo il coraggio di dire che il pericolo per la democrazia è Grillo? ».
Fascista no, sfascista?
«Beppe ha capito che se spara cannonate prende voti. Non ha inventato lui questo metodo, lui lo sfrutta a volte con abilità, a volte meccanicamente e con superficialità. E’ un difetto che accomuna satira e politica: pensiamo che più gridiamo, più diciamo la verità. Non è così: la vera indignazione è calma e dolorosa, non esibita. Dopo le elezioni, Beppe dovrà avere il coraggio di cambiare, di lasciare da parte gli effetti speciali. Il difficile per lui e per il suo Movimento comincia adesso. Ma credo che se ne rendano benissimo conto.
Grillo è di destra o di sinistra? E la distinzione ha ancora senso?
«Per me sì, per lui molto meno, e su questo abbiamo litigato spesso».
A chi porterà via voti?
«Non capisco la parola “portare via”, in un paese dove la gente cambia idea e dimentica ogni dieci minuti. L’ elettorato di Beppe è molto vario. Chiedete lumi ai diecimila sondaggisti italiani».
Come se lo immagina tra cinque anni?
«Sarà L’imperatore di Tutte le Galassie. naturalmente. E io avrò il granducato di Sardegna e la presidenza della Finmeccanica, me lo ha promesso».
C’è qualcosa che unisce Grillo e Berlusconi?
«Non vedo affinità. Come modello di oratoria Silvio si ispira a Mussolini, Beppe a Jack Nicholson in Shining. E Beppe ha una moglie dolcissima che non gli fa pagare dei miliardi di alimenti».
Il MoVimento 5 Stelle esisterebbe senza di lui?
«Credo di sì. Anzi, dovrà esistere anche senza di lui».
La rete è democratica?
«Schizodemocratica. Ha dentro la democrazia e il potere, l’accesso alle informazioni e lo sfruttamento commerciale, la critica e l’esibizionismo. Ci vorrà tempo per capire dove andrà. Sarà una battaglia tra libertà e controllo. Ho molta paura delle multinazionali dei dati. Mi piace come lavorano certi hacker, è un nuovo tipo di intelligenza critica che io non ho».
Che battuta scriverebbe oggi per Grillo?
«Accidenti al giorno che ti ho detto: sei un comico troppo disimpegnato».
Ultima cosa. Lei lo vota ?
«Non dico mai per chi voto. L’unica volta che l’ho fatto, con Cofferati, ho preso una gran fregatura».

26.1.13

Sulle banche più vigilanza da Bruxelles

Stefano Lepri (La Stampa)

Nell'Europa continentale le banche che hanno combinato più guai sono quelle vicine al potere politico locale: le Landesbanken (banche regionali) tedesche, le Cajas de ahorro (Casse di risparmio) spagnole, il Monte dei Paschi. Per fortuna le dimensioni del caso italiano, pur grave in sé, appaiono assai inferiori a quanto accaduto negli altri due Paesi, dove è questione di svariate decine di miliardi di euro.
Se è così è fuori luogo che si indigni chi, come Giulio Tremonti e la Lega Nord, appena dieci anni fa intendeva accrescere in tutte le Fondazioni bancarie il peso degli enti locali (li fermò la Corte Costituzionale). Ancor più è paradossale proporre di nazionalizzare il Mps: per sottrarlo all'influenza dei dirigenti locali del Pd lo si' restituirebbe ad accordi spartitori tra tutti i partiti nazionali, come negli Anni 80. Il problema di un controllo esiste. Se le banche vengono sorrette con denaro dei contribuenti, occorre dissipare anche il più piccolo sospetto che si faccia un regalo ai banchieri. I 3,9 miliardi al Monte regalo non sono, sono un prestito a tassi di interesse assai alti, dunque il Tesoro ci guadagna; però occorre la garanzia che gli sbagli non si ripetano. Le vecchie ricette si rivelano tutte inadeguate. Il grande disordine della finanza mondiale nasce dall'illusione, di marca ultraliberista, che quel mercato così complicato e oscuro potesse regolarsi da solo. Ma se poi i banchieri di Wall Street quando volevano piazzare i titoli più tossici trovavano facile rifilarli alle Landesbanken, vuol dire che anche l'intrusione del potere politico nell'economia provoca danni gravissimi. Ovvero, gli alti rischi della finanza sregolata hanno attirato cattivi banchieri che sugli affari normali guadagnavano poco perché prestavano agli amici degli amici. Ancor peggio, una parte delle difficoltà dell'area curo si deve alle complicità tra governi e poteri bancari nazionali nel loro insieme. Per due anni almeno la Spagna si era rifiutata di riconoscere l'ampiezza del buco nelle sue Cajas: Tuttora la Germania resiste a una sorveglianza comune europea sulle sue banche medio-piccole, dopo averne lavato in casa i panni sporchi. Avremmo meglio avviato a soluzione la crisi dell'euro se una sola autorità sovrannazionale avesse potuto decidere quali banche in difficoltà chiudere e quali soccorrere, in modo trasparente, sotto controllo collettivo. Le controindicazioni del controllo politico sono minori se Io si esercita al livello più alto possibile. Invece l'intreccio troppo stretto fra Stati e banche fa sì che le fragilità degli uni si riflettano sulle altre, e viceversa. Resta vero che le banche italiane hanno sbagliato assai meno di altre, grazie alla vigilanza della Banca d'Italia. La lunga crisi le ha tuttavia messe in difficoltà; potrebbero prestare più soldi alle imprese se fossero più capitalizzate, ma il sistema proprietario che si regge sulle Fondazioni ha abbastanza esaurito le energie. I suoi limiti risaltano anche nell'apprendere che ora il più qualificato aspirante alla presidenza dell'Associazione bancaria è un ex politico. La vicenda anomala del Mps mostra inoltre in versione politicizzata i difetti del più asfittico capitalismo familiare all'italiana: rifiutare gli apporti di capitale esterni per paura di diluire il proprio controllo, strapagare acquisizioni valutate in termini di potere più che di guadagno. Far parte di una unione monetaria richiede banche non necessariamente grandi (le economie di scala sono dubbie), ma aperte oltre i confini nazionali.

10.1.13

L’ e-commerce della droga? Funziona, vi spieghiamo come

Gabriele Martini (La Stampa)

Online è possibile acquistare decine di droghe sintetiche provenienti oltre che dal Nord America anche dalla Russia, dal Brasile e dai Pesi dell’Est Europa

Viaggio nei segreti del più grande sito di spaccio al mondo: l’ impunità è garantita


Come Scampia, più di Scampia. C’è una piazza di spaccio aperta 24 ore su 24, sette giorni su sette, dove migliaia di pusher vendono, impuniti, qualsiasi tipo di droga. Possibile? Sì, possibile. Provare per credere.

Il Paese dei balocchi per tossici è un sito internet. Si chiama «Silk Road», via della seta. Intendiamoci: arrivarci non è facile. Questo ebay della droga all’apparenza non esiste: se si digita l’indirizzo sul browser non si ottiene nulla. Ma il sito esiste, eccome. Sta nascosto in un angolo buio della rete: l’Internet sommerso, il «Darknet». Per entrare in questo mondo virtuale parallelo bisogna utilizzare «Tor», un software gratuito che rende anonima la navigazione. È lo stesso sistema che permette agli attivisti iraniani di scambiare informazioni o ai blogger cinesi di aggirare la censura. Si carica il programma e dopo pochi minuti il gioco è fatto: si naviga nell’immensa zona franca senza controlli né regole, dove nessuno sa chi fa cosa.

Silk Road sembra Amazon. Ci sono foto della merce, prezzi, tempi di consegna e recensioni dei compratori. Il logo è un beduino su un cammello. Da qualche mese sono sparite le armi. Bandite. Tutto il resto è lì, a portata di clic. Abiti contraffatti, medicine, sostanze dopanti, passaporti falsi, materiale pornografico. Briciole rispetto alle 4.400 droghe in vendita. La moda del momento sono le nuove sostanze sintetiche: 4-MMC e Crystal meth. Incolori, inodori e insapori. Preparate in modo artigianale, a volte si rivelano mix letali. Falciano giovani vite nelle periferie di Mosca, nelle discoteche di Ibiza e ai rave party sulle spiagge brasiliane. E’ lo sballo globalizzato: abbatte frontiere e viaggia in piccoli pacchi da un continente all’altro seminando dipendenza.

Su Silk Road i pagamenti avvengono in Bitcoin, la moneta elettronica che non lascia tracce. Si tratta di soldi virtuali generati automaticamente da una serie di computer in rete tra loro. Per comprarli basta una carta di credito. Si versiamo i Bitcoin sull’account ed ecco che tutto è pronto per l’acquisto, protetti dall’anonimato più assoluto. Molti spacciatori rifiutano di spedire ai nuovi arrivati. Non sempre il primo tentativo funziona: il rischio è finire nella lista nera dei «compratori sospetti». Ma conquistata la fiducia dei venditori, non resta che passare allo shopping. Dopo qualche giorno i pacchetti di droga arrivano a destinazione.
«Quello di Silk Road è un contesto smaterializzato, difficilmente aggredibile», ammettono gli investigatori. L’offerta di droga cresce con trend esponenziale. C’è chi spaccia pochi grammi di erba, ma c’è anche chi vende fino a un chilo di cocaina o centinaia di pasticche di ecstasy alla volta. Non sono numeri da piccoli spacciatori. Andrea Ceccobelli, Capitano del Nucleo frodi tecnologiche della Finanza, lancia l’allarme: «C’è il rischio concreto che la criminalità organizzata utilizzi questi nuovi canali. In altri Paesi sta già succedendo: in Russia da anni le mafie arruolano laureati in informatica». Carlo Solimene, direttore della Divisione investigativa della Polizia Postale e delle Comunicazioni, non si sbilancia: «Il fenomeno nel nostro Paese non sembra ancora particolarmente esteso». Sui trafficanti italiani il riserbo è massimo: «Posso solo dire – spiega Solimene – che ci sono attività investigative in corso».

In sei mesi il numero di venditori su «Silk Road» è più che che raddoppiato. Secondo uno studio della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, il volume d’affari nel primo semestre del 2012 è stato di 1,5 milioni di euro al mese. Sarà felice il misterioso amministratore del sito, che incassa una commissione del 6% su ogni transazione. Si fa chiamare «Dread Pirate Roberts» (come il simpatico pirata di un film fantasy). Definisce «eroi» i venditori. Da mesi l’Agenzia federale antidroga Usa gli dà la caccia. Inutilmente. Anche lui è un nickname su un sito che non esiste.

11.12.12

Il partito del suicidio finanziario

Mario Deaglio (La Stampa)

Borsa che scende, «spread» che sale. Può sembrare una alchimia finanziaria lontana dalla vita di tutti i giorni, dai bilanci di imprese e famiglie. Purtroppo non è così, come abbiamo sperimentato negli ultimi cinque anni. Forse il modo migliore per rendersi conto dell’importanza di quest’infausta congiunzione consiste nel partire da una constatazione semplice e apparentemente incredibile: mediamente l’Italia deve restituire ai suoi creditori un miliardo di euro al giorno, domeniche escluse, ossia circa 300 miliardi l’anno per i prossimi 6-7 anni.

Come fa l’Italia a restituire somme così ingenti? Immediatamente prima della scadenza, «rifinanzia» il debito, ossia si fa prestare, con le aste sul debito pubblico, una somma all’incirca pari a quella in scadenza, con questa rimborsa Btp, Cct, Bot e quant’altro, giunti al termine della loro vita. Sono ormai vent’anni che l’Italia fa così e ha gestito tutto sommato in maniera soddisfacente, dal punto di vista finanziario, un debito enorme.

Grazie all’euro, il mercato ha a lungo attribuito il medesimo rischio al debito sovrano di tutti paesi della nuova moneta, e, per conseguenza, il costo di questo rifinanziamento è stato relativamente moderato.

In un certo senso ci siamo fatti scudo dei bassi tassi applicati ai tedeschi.

Dalla metà del 2011 le cosa sono cambiate, sotto la spinta delle crisi greca, irlandese, portoghese e spagnola: i mercati hanno cominciato a guardare dentro alle strutture finanziarie dei paesi debitori. E quello che hanno visto per l’Italia proprio non li ha soddisfatti. Per conseguenza, il rifinanziamento del debito ha cominciato a costarci molto più caro di prima. Si consideri che, per ogni miliardo preso a prestito dallo Stato italiano - e quindi per ogni giorno lavorativo - 100 punti in più di «spread» equivalgono a un costo addizionale di 10 milioni di euro. 500 punti di spread si traducono in un aggravio di circa 50 milioni al giorno, ossia 18 miliardi l’anno: per procurarseli, lo Stato deve tagliare le spese o aumentare le entrate. A luglio 2011 si profilò un’ulteriore complicazione: alle aste si presentarono assai pochi aspiranti compratori, divenne difficile, anche a tassi estremamente elevati, trovare chi, un giorno dopo l’altro, volesse prestar soldi allo Stato italiano.

Questo è il baratro finanziario in cui l’Italia non è caduta perché è riuscita contemporaneamente a ridurre lo spread e migliorare i propri conti pubblici. La minaccia è però sempre lì, una sorta di infezione in agguato che può attaccare il «sistema nervoso centrale» della finanza pubblica e far precipitare nel caos il paese in poche settimane.

Di fronte a questa situazione viene sussurrata, ma a voce sempre più alta, da alcune forze politiche l’eventualità di non pagare, di non restituire il debito in scadenza, una sorta di rinascita del «menefreghismo» di marca fascista che, in una canzonetta di quel regime, proponeva precisamente la non restituzione del debito («Albione, la dea della sterlina/ s’ostina vuol sempre lei ragione/ ma Benito Mussolini/ se l’italici destini/ sono in gioco può ripetere così:/ me ne frego non so se ben mi spiego»).

Il menefreghismo applicato al debito rappresenterebbe il suicidio finanziario, e non solo, del Paese per almeno tre motivi. Il primo - del quale si è avuto un segno premonitore con le forti cadute dei titoli bancari nella giornata di ieri - sarebbe rappresentato dal crollo delle banche, che hanno investito gran parte delle risorse finanziarie a loro disposizione precisamente in titoli del debito pubblico italiano, il cui valore precipiterebbe. Il secondo sarebbe la distruzione della cospicua parte dei risparmi finanziari degli italiani, investita in titoli statali. Il terzo sarebbe l’evidente difficoltà del Paese a trovare all’estero nuovi prestatori, dei quali avrebbe disperato bisogno.

L’Italia sarebbe costretta a riadottare la lira - o una nuova moneta nazionale - che si svaluterebbe immediatamente nei confronti dell’euro e del dollaro.

A questo punto, i risparmi non divorati dalla svalutazione del debito pubblico sarebbero distrutti da un’inflazione galoppante in quanto i prezzi dei beni importati andrebbero alle stelle, a cominciare da quelli dei prodotti petroliferi. Certo, le merci italiane ritornerebbero temporaneamente competitive, ma le imprese dovrebbero rapidamente rialzare i prezzi per l’aumento dei costi delle materie prime importate. La messa al bando dall’Unione Europea e la chiusura delle frontiere dei nostri partners alle merci italiane ne sarebbero ulteriori, possibili conseguenze.

Dietro al baratro finanziario si profilerebbe così un abisso economico-sociale, e quindi anche politico, un’eventualità della quale i cittadini devono prendere coscienza. Il segretario del Pdl, Angelino Alfano ha affermato che il suo partito non vuole «mandare il paese a scatafascio». A scatafascio però sicuramente andrebbe se il suo partito imboccasse la deriva populista, eco sinistra di un menefreghismo lontano e disastroso. Il che, allo stato degli atti, non sembra proprio di poter escludere.

3.12.12

L’età dell’abbondanza (di informazioni)

Prosegue il viaggio de «La Stampa»
nel nuovo mondo digitale per scoprire come la tecnologia sta trasformando le nostre vite e quali sono e saranno le sfide e le opportunità che offre a ciascuno di noi. Questa quarta puntata dell’inchiesta è dedicata
alla cultura e all’informazione.

Giuseppe Granieri (La Stampa)

Noi siamo i nuovi consumatori - ha scritto recentemente Craig Mod - siamo i nuovi lettori, i nuovi scrittori, i nuovi editori. Con questa affermazione, Craig, uno dei più affermati book designer e una delle voci più attente all’innovazione nel mondo dell’editoria, non dice una cosa nuova. Già nel 2005 Kevin Kelly, un altro gigante dell’analisi del mondo contemporaneo, aveva scritto su «Wired» che entro una decina di anni tutti scriveremo il nostro libro, comporremo la nostra canzone e produrremo il nostro film.

Se vogliamo provare a ricostruire il senso di una cultura che sta iniziando a funzionare in un modo nuovo, questa è una delle possibili narrazioni. La tecnologia, che per anni abbiamo trattato come una sottocultura per «appassionati di computer» - magari anche un po’ sociopatici - sta abilitando milioni di persone a produrre contenuti. Detto in un altro modo, i costi di pubblicazione e di distribuzione tendono a zero. E l’accesso ai prodotti culturali sta diventando più semplice ed economico.

Veniamo da secoli in cui l’informazione (in tutte le sue forme, anche più universali, dal libro alla notizia) era un bene scarso. Era costosissimo produrla e distribuirla, farla circolare fisicamente, dare ai cittadini la possibilità di incontrarla. Tutta l’industria culturale si era disegnata intorno a questo limite funzionale. Un canale televisivo costa, un giornale è una grande avventura imprenditoriale, il vantaggio competitivo di un grande editore era la capacità di distribuire fisicamente un libro in tutte le librerie.

Poi nel giro di pochi anni, straordinariamente pochi, questo modello è andato in crisi. È cambiato il nostro modo di informarci e di leggere, abbiamo fatto amicizia con YouTube, il giornalismo sta imparando dai blogger la grammatica della Rete. E si stima che l’anno prossimo, con la facilità di produrre e distribuire ebook, si pubblicheranno tra i 10 e i 15 milioni di libri.

La previsione di Kelly non era un gesto visionario. Già oggi, semplicemente inclusi nel sistema operativo dei computer, anche quelli più a buon mercato, abbiamo software che ci consentono di fare produzione video. E solo pochi anni fa uno studio di montaggio richiedeva investimenti per decine di milioni di vecchie lire. Oggi possiamo scrivere un romanzo, dargli la forma dell’ebook e distribuirlo in tutto il mondo in pochi minuti. «La pubblicazione - scriveva Clay Shirky qualche mese fa - è diventata un pulsante». Il tastino Publish che trovi su Amazon, il tastino Post che trovi sui blog. O il tastino Upload che ci propone Youtube.

Tecnicamente, dunque, possiamo farlo tutti. Quello che ci manca è il dominio dei linguaggi espressivi. Posso produrre facilmente un video, ma non è detto che io sappia farlo. Posso mettere in vendita il mio libro, ma non è detto che io sappia scrivere. Qui subentra un altro fattore critico: la maggior lentezza della cultura rispetto alla tecnologia. Ma - lo abbiamo visto accadere con i blog e con il self-publishing negli Stati Uniti - la Rete diventa una formidabile comunità di pratiche. Si osservano i casi di successo, si condividono dati e consigli, si guarda a ciò che fanno i migliori. E si cresce.

Così l’idea stessa di alfabetizzazione tende a diventare più complessa. In un mondo come quello contemporaneo, essere alfabetizzati non significa più solo saper leggere e scrivere. Significa, piuttosto, essere in grado di navigare tra le informazioni, di usare nuovi strumenti, di saper riportare su se stessi il ruolo di «mediazione culturale» che prima delegavamo ai pochi che erano abilitati a diffondere cultura.

In tempi veloci come i nostri, il purista è per definizione un conservatore. Siamo nel mezzo di una grande «volgarizzazione» della cultura. Ma non è una volgarizzazione che possiamo raccontarci con una trama simile a quella dell’invasione dei barbari. È un processo che non accade per la prima volta: la stampa, per esempio, deve essere sembrata una specie di macchina infernale agli amanuensi. Il problema, se vogliamo, è che la «ferraglia per stampare libri» ci ha messo secoli per cambiare la grammatica culturale e portare, per esempio, al pensiero scientifico moderno e all’illuminismo. E all’idea di enciclopedia, che è un grande tentativo di mettere ordine nella conoscenza.

Internet e le tecnologie digitali sono molto più veloci. In un battito d’ali hanno costretto l’intera industria culturale a inseguire nuove regole del gioco. E noi stessi, da almeno 15 anni, stiamo raccontando il cambiamento dopo averlo visto accadere. La Rete fa un lavoro semplice da descrivere, ma bellissimo e potente. Consente a chiunque di immettere innovazione da ogni punto. E ogni innovazione apre nuove idee, ci fa pensare che possiamo fare le cose in modo diverso o che possiamo fare cose nuove. E, per quanto abbiamo visto finora, se dai a milioni di persone la possibilità di far cose che prima non potevano fare, le persone le fanno.

La nostra cultura ha sempre lavorato verso le volgarizzazioni. Ha sempre cercato di essere più efficiente nella circolazione e nell’accesso alla conoscenza. Ciò che alla gente del tempo sembrava volgare (i romanzi a puntate sui giornali) per noi oggi è diventato un classico: vedi alla voce Balzac o Hugo. Poi, certo, nuove soluzioni portano sempre nuovi problemi, un po’ come la ricerca scientifica - alla fine - produce solo nuove domande. Così ci troviamo di fronte a un modello - quello dell’abbondanza - che mette in crisi diversi punti di riferimento con cui siamo cresciuti. L’abbondanza di prodotto culturale ci obbliga a cambiare il nostro approccio (siamo noi a scegliere cosa ci interessa quando ci interessa) e ci richiede capacità nuove, tutte da imparare.

Ma, soprattutto, ridefinisce l’idea del valore del prodotto culturale. Prima era scarso, e pagavamo il supporto. Oggi è abbondante e tendiamo ad aspettarci che costi sempre meno. Ma qui, a cascata, arrivano i problemi: come si pagherà il lavoro di chi produce cultura? Alcuni mesi fa, in un’intervista a La Stampa, l’editore americano Richard Nash spiegava che difficilmente nei prossimi anni si faranno soldi vendendo i contenuti. Non sappiamo se è vero. Ma la cultura sta cambiando e tutti noi dobbiamo essere capaci di pensarla in modo diverso, di produrla invece di inseguirla.