Rossana Rossanda (il manifesto)
Qualche osservazione.
Prima. Dunque l'assassinio del nemico non è un opzione perseguita dalla sola Israele ma dalle Nazioni Unite e da queste trasmessa alla Nato nell'accordo di tutti i governi. Giovedì sera, nel caos di informazioni e disinformazioni sulla fine di Gheddafi, una cosa era certa, che Gheddafi è stato catturato, ferito, trascinato per strada, linciato e, già coperto di sangue, ucciso. Dai ribelli, con la benedizione del loro comando e il "via" della Nato e dell'Onu.
Qualche mese fa gli Stati Uniti avevano spedito un commando di addestrati alla demenza, a penetrare urlando nella casa dove l'alleato Pakistan ospitava Bin Laden, e ad ammazzarlo, infermo e inerme, in camera da letto, senza che potesse far un gesto. Tutto lo stato maggiore di Obama assisteva all'operazione, il commando essendo dotato di cineprese. Obama s'è rallegrato sia dell'uccisione sia dei rottweiler del comando speciale, e nessuno si è vergognato. Che terroristi e dittatori vadano ammazzati da prigionieri e senza processo deve essere un nuovo articolo della Carta delle Nazioni Unite. Le virtuose democrazie danno licenza di uccidere piuttosto che consegnare i loro nemici al Tribunale penale internazionale, dove potrebbero rivelare i molti intrallazzi fatti assieme. Resta da qualche parte un lembo di diritto internazionale? Non lo vedo.
Seconda. Non credo da un pezzo, e l'ho scritto, alle dittature progressiste.
Come il "socialismo di mercato", sono un ossimoro che anche il manifesto ha fatto proprio. Si dà il caso che io sia fra i fondatori di questo giornale, ed è fra noi una divergenza non da poco. Viene da lontano, dagli anni '60 e '70 quando abbiamo creduto che alcuni paesi, specie "arretrati", potessero svolgere un ruolo mondiale positivo con un regime interno indecente. Famoso l'assioma dei "due tempi": prima demoliamo i monopoli stranieri e poi vedremo con la democrazia. Fino a sembrare una variante del pensiero socialista, l'antimperialismo. Concetto sempre più confuso dopo lo sfascio dell'Urss, la Russia restando "altro" dal comando Usa, la Cina diventando un gigante del capitalismo mondiale con relativo supersfruttamento della manodopera, Cuba restando soltanto antiamericana perché, ha detto sobriamente Fidel Castro, il modello cubano non ha funzionato.
Anche i regimi latino-americani sono in genere antimperialisti sì, socialisti no. Chissà che cosa vuol dire, in un mondo dove delle due superpotenze ne è rimasta una sola ma i candidati all'egemonia mondiale nei commerci, sulla schiena dei popoli propri e altrui, si moltiplicano. Non siamo ancora alle guerre commerciali ma alla corsa a chi arriva primo nella spartizione del bottino dei paesi terzi, diretti da qualche satrapo che ha preso l'eredità del colonialismo. Storie bizzarre di degenerazione, specie in Africa, dove diversi leader anticolonialisti, tolto di mezzo lo straniero, piuttosto che far crescere il loro paese si sono occupati di liquidare senza esitazione gli avversari interni.
Terza. Che una parte consistente dei relativi popoli sia venuta a sentirsi oppressa è non solo comprensibile ma giusto. Che nelle rivolte di una popolazione giovane, nella quale un pensiero politico non ha potuto circolare, si inseriscano le potenze predatrici esterne era da attendersi. Non è stata la sinistra ad abbattere i dittatori. Essa non abbatte più nessuno. La mancanza di un pensiero e una struttura capace di assicurarsi libertà politica e protezione sociale, si rivela drammatica una volta abbattuto o fuggito il "tiranno", perché c'è sempre un esercito, o una nuova borghesia, un vecchio fondamentalismo pronti a prenderne il posto. I popoli in rivolta sono presto spossessati, vedi Tunisia e Egitto.
L'Europa lo sa, ma di quel che succede sull'altra sponda del Mediterraneo si occupano gli affaristi, non i residui delle sinistre storiche né i germogli della sinistra nuova che cercano di emergere fuori dai muri delle istituzioni. Un vecchio amico ha protestato quando chiedevo che si riformasse qualcosa come le Brigate internazionali - ma che dici, la rivoluzione spagnola era una cosa seria, queste rivolte sono derisorie. Non ne sappiamo molto e ce ne importa ancora meno.
Anche noi abbiamo dovuto contare su alleati più potenti per abbattere il fascismo. Ma qualche struttura politica, qualche partito ha innervato la resistenza che ha potuto anche presentarsi alle forze alleate come possibile nucleo di una dirigenza democratica. Queste strutture politiche dovevamo aiutarle a formarsi, accompagnarle. Invece ieri sulla Tunisia, oggi sulla Libia, domani magari sulla Siria diamo i voti a chi sia il peggio: Gheddafi o la Nato? Il meglio ai non europei non appartiene.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
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23.10.11
Post-coloniali?
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21.10.11
Presidente, more solito!
Commento di Silvio Berlusconi alla morte di Gheddafi: "Sic transit gloria mundi!". E la frase fa il giro del mondo.
Da uno che ha baciato l’anello al dittatore di Tripoli in vita non potevamo aspettarci che un glorificazione in morte: “Sic transit gloria mundi”.
Silvio Berlusconi non ci ha nemmeno pensato un attimo e la sua frase ha fatto immediatamente il giro del mondo. Ma lui è abituato così. Parla “apertis verbis”, insomma chiaro e franco, come nella recente occasione del nome del suo nuovo partito. E lo fa “coram populo”, senza chiedersi “cui prodest?”, senza assolutamente riflettere, almeno una volta, “cum grano salis”.
Certo “de gustibus non disputandum est”. Eppure sarebbe meglio farlo: “Sapiens ut loquatur multo prius consideret” (un sapiente prima di parlare deve molto pensare). Ma non sembra la regola del nostro Presidente. Forse, dopo quel baciamano, era naturale associare gloria a Gheddafi: “Promissio boni viri est obligatio”. (Le promesse delle persone per bene sono un impegno che va mantenuto). Anche con una fulminea dichiarazione “post mortem”.
Il Cavaliere parla “pro domo sua”, “sic et sempliceter”, anzi “ ridendo dicere verum”, “sine ira et studio”, neppure “una tantum”. E non lo fa “ob torto collo”, ma, “mirabile visu” (cosa incredibile a dirsi), insomma “more solito”, “ex abrupto” (all’improvviso) “ex abundantia cordis” (dal profondo del cuore).
Cosa c’è stato tra lui e Gheddafi? Forse un “do ut des”? Se fosse vero sarebbe stato meglio una “damnatio memoriae” piuttosto che esercitarsi nel “carpem diem”, nel cogliere l’attimo di una dichiarazione “ad hoc” sicuramente ed esageratamente “ad abundantiam”. Tutto questo “absit iniuria verbo”, sia detto senza offesa.
Da uno che ha baciato l’anello al dittatore di Tripoli in vita non potevamo aspettarci che un glorificazione in morte: “Sic transit gloria mundi”.
Silvio Berlusconi non ci ha nemmeno pensato un attimo e la sua frase ha fatto immediatamente il giro del mondo. Ma lui è abituato così. Parla “apertis verbis”, insomma chiaro e franco, come nella recente occasione del nome del suo nuovo partito. E lo fa “coram populo”, senza chiedersi “cui prodest?”, senza assolutamente riflettere, almeno una volta, “cum grano salis”.
Certo “de gustibus non disputandum est”. Eppure sarebbe meglio farlo: “Sapiens ut loquatur multo prius consideret” (un sapiente prima di parlare deve molto pensare). Ma non sembra la regola del nostro Presidente. Forse, dopo quel baciamano, era naturale associare gloria a Gheddafi: “Promissio boni viri est obligatio”. (Le promesse delle persone per bene sono un impegno che va mantenuto). Anche con una fulminea dichiarazione “post mortem”.
Il Cavaliere parla “pro domo sua”, “sic et sempliceter”, anzi “ ridendo dicere verum”, “sine ira et studio”, neppure “una tantum”. E non lo fa “ob torto collo”, ma, “mirabile visu” (cosa incredibile a dirsi), insomma “more solito”, “ex abrupto” (all’improvviso) “ex abundantia cordis” (dal profondo del cuore).
Cosa c’è stato tra lui e Gheddafi? Forse un “do ut des”? Se fosse vero sarebbe stato meglio una “damnatio memoriae” piuttosto che esercitarsi nel “carpem diem”, nel cogliere l’attimo di una dichiarazione “ad hoc” sicuramente ed esageratamente “ad abundantiam”. Tutto questo “absit iniuria verbo”, sia detto senza offesa.
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24.8.11
Libia, i dubbi del dopo-Gheddafi. E l’occidente dà già lezioni di democrazia
Per Usa ed Europa, è forte il rischio di un nuovo Iraq. Rovesciare i tiranni arabi è un gioco pericoloso, quando chi li sostituisce non è eletto dal popolo
di Robert Fisk (dal Fatto Quotidiano)
È stata la seconda notte insonne per i dittatori e i satrapi ancora al potere nel mondo arabo. Quanto ci vorrà perché i liberatori di Tripoli si trasformino per incanto nei liberatori di Damasco, di Aleppo e di Homs? O di Amman? O di Gerusalemme? O del Bahrain? O di Riad? Ovviamente si tratta di situazioni diverse e non assimilabili.
La primavera – estate – autunno dei Paesi arabi ha dimostrato non solo che le vecchie frontiere coloniali restano inviolate quale tremendo tributo all’imperialismo, ma che ogni rivoluzione ha le sue caratteristiche. Tutte le rivolte arabe hanno i loro martiri e le loro vittime, ma alcune ribellioni sono più violente di altre. Come ebbe a dire Saif al-Islam, figlio di Gheddafi, all’inizio della sua parabola discendente: “La Libia non è la Tunisia né l’Egitto… Qui ci sarà una guerra civile. Scorrerà il sangue per le strade”. E così è stato. Non ci resta che scrutare la sfera di cristallo.
La Libia sarà una superpotenza del Medio Oriente, a meno di imporre una sorta di occupazione economica in cambio dei bombardamenti della Nato che hanno contribuito a “liberare” il Paese e, svanita l’ossessione di Gheddafi per l’Africa centrale e meridionale, sarà un Paese meno africano e più arabo. Le sue libertà potrebbero contagiare il Marocco e l’Algeria. Entro certi limiti gli stati del Golfo saranno contenti visto che hanno sempre considerato Gheddafi mentalmente instabile, oltre che malvagio. Ma rovesciare i tiranni arabi è un gioco pericoloso, quando il loro posto viene preso da governanti arabi non eletti dal popolo.
Chi ricorda la guerra dimenticata del 1977 durante la quale Anwar Sadat inviò i suoi bombardieri per distruggere le basi aeree di Gheddafi – le stesse basi che la Nato ha bombardato negli ultimi mesi – dopo che Israele aveva avvertito il presidente egiziano che Gheddafi stava progettando il suo assassinio? Ma la dittatura di Gheddafi è stata di 30 anni più longeva di Sadat. Ma, non diversamente dagli altri, la Libia ha sofferto le conseguenze del cancro del mondo arabo: la corruzione finanziaria e morale. Il futuro sarà diverso? Abbiamo passato troppo tempo a lodare il coraggio dei “combattenti della libertà” libici che scorrazzavano per il deserto e troppo poco tempo ad esaminare la natura del mostro, dell’ambiguo Consiglio nazionale di transizione il cui presunto capo, Mustafa Abdul Jalil, non ci ha ancora spiegato se i suoi sono coinvolti nell’assassinio, avvenuto il mese scorso, del comandante militare delle forze ribelli.
L’Occidente ha già cominciato a dare lezioni di democrazia alla Nuova Libia dicendo con supponenza alla leadership politica libica, non eletta dalla popolazione, come evitare il caos che noi stessi abbiamo inflitto agli iracheni dopo averli “liberati” otto anni fa. Chi prenderà le mazzette nel nuovo regime – democratico o meno – una volta che si sarà insediato nella stanza dei bottoni? E così come tutti i nuovi regimi hanno nel loro seno personaggi oscuri del passato – la Germania di Adenauer quanto l’Iraq di Maliki – la Libia dovrà trovare una sistemazione per le tribù di Gheddafi.
Le scene della Piazza Verde erano dolorosamente simili al delirio delle folle di adoratori che appena qualche settimana prima inneggiavano a Gheddafi. Nel 1944, dopo la liberazione di Parigi, un aiutante di campo fece notare al generale De Gaulle che il numero di quelli che lo applaudivano era simile al numero di coloro che qualche settimana prima avevano applaudito Petain. Come è possibile? “Semplice” – rispose De Gaulle – “Ils sont les memes” (sono gli stessi), sembra abbia risposto il generale De Gaulle. Non tutti. Quanto tempo passerà prima che qualcuno bussi alla porta del sedicente moribondo Abdulbaset al-Megrahi, l’attentatore di Lockerbie – sempre che sia veramente colpevole – per scoprire il segreto della sua longevità e per capire che ruolo ha ricoperto nei servizi segreti di Gheddafi?
Quanto ci metteranno i liberatori di Tripoli a mettere le mani sugli archivi del ministro del Petrolio e del ministro degli Esteri di Gheddafi per scoprire i segreti delle romantiche storie d’amore del terzetto Blair – Sarkozy -Berlusconi con l’autore del Libro Verde? O saranno le spie britanniche e francesi a mettere le mani sui documenti segreti? E quanto tempo passerà prima che gli europei chiedano di sapere perché, se la Nato è stata così decisiva in Libia – come dichiarano ai quattro venti Cameron e i suoi alleati – non la si impiega contro le legioni di Assad in Siria servendosi di Cipro come base aerea allo scopo di distruggere gli 8mila carri armati e blindati del regime che assediano le città siriane?
O bisogna pensar male, pensare cioè che Israele si augura ancora segretamente (come aveva fatto vergognosamente nel caso dell’Egitto) che il dittatore siriano rimanga in sella, per poter firmare con lui la pace riguardante le alture del Golan? Israele, che ha reagito al risveglio arabo con ambiguità e immaturità. Ma perché diamine i politici israeliani non hanno accolto con gioia la rivoluzione araba, accogliendo a braccia aperte popoli che dicevano di volere la democrazia che Israele ha sempre auspicato e ha invece ucciso cinque soldati egiziani in occasione dell’ultimo scontro a fuoco a Gaza? Deve riflettere a lungo. Ben Ali liquidato. Mubarak liquidato. Saleh più o meno liquidato. Gheddafi rovesciato. Assad in pericolo. Abdullah di Giordania ancora alle prese con una combattiva opposizione. La monarchia sunnita che, da una posizione di minoranza governa il Bahrain, continua autolesionisticamente a pensare di poter conservare il potere in eterno.
A questi cataclismi della storia gli israeliani hanno risposto con una sorta di sgomenta, ostile apatia. Nel momento stesso in cui Israele dovrebbe dichiarare pubblicamente che i suoi vicini arabi vogliono solamente le libertà che Israele già ha – che c’è una fratellanza democratica che non conosce frontiere – di fatto continua a costruire insediamenti in terra araba e ad auto-delegittimarsi accusando il mondo di tentare di distruggere lo Stato israeliano. Ma in un’ora così critica non possiamo dimenticare l’Impero Ottomano.
All’apice del suo potere si poteva viaggiare dal Marocco a Costantinopoli senza passaporto. Se anche Siria e Giordania conquistassero la libertà, potremmo viaggiare dall’Algeria alla Turchia e poi in Europa senza nemmeno il visto. L’Impero Ottomano rinato! Non vale per gli arabi, ovviamente. Loro debbono sempre avere bisogno del visto. Ma non siamo ancora a quel punto. Quanto ci metteranno gli sciiti del Bahrain e le apatiche masse saudite sdraiate sopra montagne di denaro, a chiedere perchè non possono controllare il loro Paese e a scendere in piazza per rovesciare i loro governanti ormai vestigia di un tempo che fu?
Immaginiamo la tristezza con cui Maher al-Assad, fratello di Bashar e comandante della famigerata Quarta Brigata siriana, deve aver ascoltato l’ultima telefonata di Mohammed Gheddafi ad Al Jazeera. “Ci sono mancate saggezza e lungimiranza”, diceva con tono lamentoso Mohammed prima che la sua voce fosse sovrastata dal crepitio delle armi da fuoco. “Sono qui in casa!”. Poi: “Dio è grande”. E la linea è caduta. Ogni leader arabo non eletto dal popolo – o ogni leader musulmano “eletto” con elezioni farsa – avrà riflettuto ascoltando la voce di Mohammed Gheddafi. La saggezza è senza dubbio alcuno una qualità che scarseggia in Medio Oriente e la lungimiranza è una dote trascurata sia dagli arabi che dagli occidentali. Est e Ovest – ammesso che li si possa dividere così grossolanamente – hanno perso la capacità di pensare al futuro.
Contano solo le prossime 24 ore. Domani ci saranno delle manifestazioni di protesta a Hama? Che dirà Obama domani sera in televisione nell’ora di massimo ascolto? E Cameron cosa dirà al mondo? La teoria del domino è un inganno. La primavera araba è destinata a durare anni. Meglio che ci pensiamo e ci prepariamo. Non esiste la “fine della storia”.
© The Independent
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
di Robert Fisk (dal Fatto Quotidiano)
È stata la seconda notte insonne per i dittatori e i satrapi ancora al potere nel mondo arabo. Quanto ci vorrà perché i liberatori di Tripoli si trasformino per incanto nei liberatori di Damasco, di Aleppo e di Homs? O di Amman? O di Gerusalemme? O del Bahrain? O di Riad? Ovviamente si tratta di situazioni diverse e non assimilabili.
La primavera – estate – autunno dei Paesi arabi ha dimostrato non solo che le vecchie frontiere coloniali restano inviolate quale tremendo tributo all’imperialismo, ma che ogni rivoluzione ha le sue caratteristiche. Tutte le rivolte arabe hanno i loro martiri e le loro vittime, ma alcune ribellioni sono più violente di altre. Come ebbe a dire Saif al-Islam, figlio di Gheddafi, all’inizio della sua parabola discendente: “La Libia non è la Tunisia né l’Egitto… Qui ci sarà una guerra civile. Scorrerà il sangue per le strade”. E così è stato. Non ci resta che scrutare la sfera di cristallo.
La Libia sarà una superpotenza del Medio Oriente, a meno di imporre una sorta di occupazione economica in cambio dei bombardamenti della Nato che hanno contribuito a “liberare” il Paese e, svanita l’ossessione di Gheddafi per l’Africa centrale e meridionale, sarà un Paese meno africano e più arabo. Le sue libertà potrebbero contagiare il Marocco e l’Algeria. Entro certi limiti gli stati del Golfo saranno contenti visto che hanno sempre considerato Gheddafi mentalmente instabile, oltre che malvagio. Ma rovesciare i tiranni arabi è un gioco pericoloso, quando il loro posto viene preso da governanti arabi non eletti dal popolo.
Chi ricorda la guerra dimenticata del 1977 durante la quale Anwar Sadat inviò i suoi bombardieri per distruggere le basi aeree di Gheddafi – le stesse basi che la Nato ha bombardato negli ultimi mesi – dopo che Israele aveva avvertito il presidente egiziano che Gheddafi stava progettando il suo assassinio? Ma la dittatura di Gheddafi è stata di 30 anni più longeva di Sadat. Ma, non diversamente dagli altri, la Libia ha sofferto le conseguenze del cancro del mondo arabo: la corruzione finanziaria e morale. Il futuro sarà diverso? Abbiamo passato troppo tempo a lodare il coraggio dei “combattenti della libertà” libici che scorrazzavano per il deserto e troppo poco tempo ad esaminare la natura del mostro, dell’ambiguo Consiglio nazionale di transizione il cui presunto capo, Mustafa Abdul Jalil, non ci ha ancora spiegato se i suoi sono coinvolti nell’assassinio, avvenuto il mese scorso, del comandante militare delle forze ribelli.
L’Occidente ha già cominciato a dare lezioni di democrazia alla Nuova Libia dicendo con supponenza alla leadership politica libica, non eletta dalla popolazione, come evitare il caos che noi stessi abbiamo inflitto agli iracheni dopo averli “liberati” otto anni fa. Chi prenderà le mazzette nel nuovo regime – democratico o meno – una volta che si sarà insediato nella stanza dei bottoni? E così come tutti i nuovi regimi hanno nel loro seno personaggi oscuri del passato – la Germania di Adenauer quanto l’Iraq di Maliki – la Libia dovrà trovare una sistemazione per le tribù di Gheddafi.
Le scene della Piazza Verde erano dolorosamente simili al delirio delle folle di adoratori che appena qualche settimana prima inneggiavano a Gheddafi. Nel 1944, dopo la liberazione di Parigi, un aiutante di campo fece notare al generale De Gaulle che il numero di quelli che lo applaudivano era simile al numero di coloro che qualche settimana prima avevano applaudito Petain. Come è possibile? “Semplice” – rispose De Gaulle – “Ils sont les memes” (sono gli stessi), sembra abbia risposto il generale De Gaulle. Non tutti. Quanto tempo passerà prima che qualcuno bussi alla porta del sedicente moribondo Abdulbaset al-Megrahi, l’attentatore di Lockerbie – sempre che sia veramente colpevole – per scoprire il segreto della sua longevità e per capire che ruolo ha ricoperto nei servizi segreti di Gheddafi?
Quanto ci metteranno i liberatori di Tripoli a mettere le mani sugli archivi del ministro del Petrolio e del ministro degli Esteri di Gheddafi per scoprire i segreti delle romantiche storie d’amore del terzetto Blair – Sarkozy -Berlusconi con l’autore del Libro Verde? O saranno le spie britanniche e francesi a mettere le mani sui documenti segreti? E quanto tempo passerà prima che gli europei chiedano di sapere perché, se la Nato è stata così decisiva in Libia – come dichiarano ai quattro venti Cameron e i suoi alleati – non la si impiega contro le legioni di Assad in Siria servendosi di Cipro come base aerea allo scopo di distruggere gli 8mila carri armati e blindati del regime che assediano le città siriane?
O bisogna pensar male, pensare cioè che Israele si augura ancora segretamente (come aveva fatto vergognosamente nel caso dell’Egitto) che il dittatore siriano rimanga in sella, per poter firmare con lui la pace riguardante le alture del Golan? Israele, che ha reagito al risveglio arabo con ambiguità e immaturità. Ma perché diamine i politici israeliani non hanno accolto con gioia la rivoluzione araba, accogliendo a braccia aperte popoli che dicevano di volere la democrazia che Israele ha sempre auspicato e ha invece ucciso cinque soldati egiziani in occasione dell’ultimo scontro a fuoco a Gaza? Deve riflettere a lungo. Ben Ali liquidato. Mubarak liquidato. Saleh più o meno liquidato. Gheddafi rovesciato. Assad in pericolo. Abdullah di Giordania ancora alle prese con una combattiva opposizione. La monarchia sunnita che, da una posizione di minoranza governa il Bahrain, continua autolesionisticamente a pensare di poter conservare il potere in eterno.
A questi cataclismi della storia gli israeliani hanno risposto con una sorta di sgomenta, ostile apatia. Nel momento stesso in cui Israele dovrebbe dichiarare pubblicamente che i suoi vicini arabi vogliono solamente le libertà che Israele già ha – che c’è una fratellanza democratica che non conosce frontiere – di fatto continua a costruire insediamenti in terra araba e ad auto-delegittimarsi accusando il mondo di tentare di distruggere lo Stato israeliano. Ma in un’ora così critica non possiamo dimenticare l’Impero Ottomano.
All’apice del suo potere si poteva viaggiare dal Marocco a Costantinopoli senza passaporto. Se anche Siria e Giordania conquistassero la libertà, potremmo viaggiare dall’Algeria alla Turchia e poi in Europa senza nemmeno il visto. L’Impero Ottomano rinato! Non vale per gli arabi, ovviamente. Loro debbono sempre avere bisogno del visto. Ma non siamo ancora a quel punto. Quanto ci metteranno gli sciiti del Bahrain e le apatiche masse saudite sdraiate sopra montagne di denaro, a chiedere perchè non possono controllare il loro Paese e a scendere in piazza per rovesciare i loro governanti ormai vestigia di un tempo che fu?
Immaginiamo la tristezza con cui Maher al-Assad, fratello di Bashar e comandante della famigerata Quarta Brigata siriana, deve aver ascoltato l’ultima telefonata di Mohammed Gheddafi ad Al Jazeera. “Ci sono mancate saggezza e lungimiranza”, diceva con tono lamentoso Mohammed prima che la sua voce fosse sovrastata dal crepitio delle armi da fuoco. “Sono qui in casa!”. Poi: “Dio è grande”. E la linea è caduta. Ogni leader arabo non eletto dal popolo – o ogni leader musulmano “eletto” con elezioni farsa – avrà riflettuto ascoltando la voce di Mohammed Gheddafi. La saggezza è senza dubbio alcuno una qualità che scarseggia in Medio Oriente e la lungimiranza è una dote trascurata sia dagli arabi che dagli occidentali. Est e Ovest – ammesso che li si possa dividere così grossolanamente – hanno perso la capacità di pensare al futuro.
Contano solo le prossime 24 ore. Domani ci saranno delle manifestazioni di protesta a Hama? Che dirà Obama domani sera in televisione nell’ora di massimo ascolto? E Cameron cosa dirà al mondo? La teoria del domino è un inganno. La primavera araba è destinata a durare anni. Meglio che ci pensiamo e ci prepariamo. Non esiste la “fine della storia”.
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I veleni in coda a una dittatura
Sergio Romano
Il regime di Gheddafi è virtualmente morto, ma potrebbe riservarci ancora qualche sorpresa. Non commettiamo l’errore di pensare che il Colonnello sia stato sempre impopolare. Le sortite nazionaliste e anti-occidentali piacevano a una parte della società libica e dell’opinione pubblica africana. I laici e i musulmani moderati approvavano il rigore con cui aveva combattuto e spento i focolai dell’islamismo radicale. Le straordinarie risorse naturali del Paese hanno arricchito il clan familiare del leader e creato una larga cerchia di profittatori, ma hanno anche consentito la nascita di nuovi ceti sociali, soprattutto negli apparati della pubblica amministrazione e dell’economia statale.
Accetteranno, senza opporre resistenza, di rinunciare a ciò che hanno conquistato? Non tutti coloro che hanno combattuto per lui negli scorsi mesi erano mercenari prezzolati o poveri soldati costretti dai loro ufficiali a morire per il capo. La guerra civile ha creato rancori che potrebbero riemergere nei prossimi mesi e minacciare la stabilità del Paese. Le tribù sono entità complesse e imprevedibili su cui abbiamo informazioni insufficienti. Quanto tempo sarà necessario perché la Libia possa considerarsi interamente pacificata? Dov’è, nelle file dei ribelli, la dirigenza che sarà in grado di assicurare la transizione? Fra coloro che andranno al potere dopo il crollo del regime, molti chiederanno giustizia. Il Tribunale penale internazionale, in particolare, sarà felice di affermare la propria competenza e sembra pronto a processare sia Gheddafi, se la sua vita non terminerà in un altro modo, sia i figli e altri membri del suo clan familiare.
Un processo a Gheddafi sarebbe una pietra miliare nella lunga strada verso la giustizia internazionale. Ma qualcuno ricorderà un brillante testo teatrale, pubblicato a Londra durante la Seconda guerra mondiale, in cui un uomo politico laburista, Michael Foot, mascherato sotto lo pseudonimo di Cassius, immaginava un processo a Mussolini dopo la fine del conflitto. Nel brillante pamphlet dell’autore la prima mossa dell’imputato era quella di chiamare sul banco dei testimoni tutti gli uomini politici britannici che lo avevano elogiato e adulato. Quanti uomini politici, soprattutto europei, verrebbero convocati all’Aja per rendere conto dei loro rapporti con il leader libico? La fine del regime di Gheddafi è una buona notizia. Ma se vogliamo che sia utile al futuro della Libia e più generalmente a quello dei Paesi dell’Africa del Nord, nessuna di queste domande può essere ignorata o sottovalutata. Non basta salutare la fine del tiranno, la vittoria del popolo, il trionfo della democrazia.
Occorre aiutare i libici a superare questa fase, a dotarsi di un governo credibile, a impegnarsi il più rapidamente possibile nella ricostruzione politica ed economica del Paese. La Nato ha fatto la guerra e dovrebbe dare un contributo alla pace. Ma dubito che abbia i mezzi e le competenze necessarie per un lavoro estraneo alla sua cultura e alle sue esperienze. Il compito quindi è dell’Europa e in particolare dei Paesi della regione, fra cui, in prima linea, l’Italia e la Francia. Ma saremo tanto più efficaci quanto più eviteremo di perseguire, come in passato, obiettivi e interessi individuali di corto respiro. Dall’unità dell’Europa dipende oggi il futuro della Libia.
Il regime di Gheddafi è virtualmente morto, ma potrebbe riservarci ancora qualche sorpresa. Non commettiamo l’errore di pensare che il Colonnello sia stato sempre impopolare. Le sortite nazionaliste e anti-occidentali piacevano a una parte della società libica e dell’opinione pubblica africana. I laici e i musulmani moderati approvavano il rigore con cui aveva combattuto e spento i focolai dell’islamismo radicale. Le straordinarie risorse naturali del Paese hanno arricchito il clan familiare del leader e creato una larga cerchia di profittatori, ma hanno anche consentito la nascita di nuovi ceti sociali, soprattutto negli apparati della pubblica amministrazione e dell’economia statale.
Accetteranno, senza opporre resistenza, di rinunciare a ciò che hanno conquistato? Non tutti coloro che hanno combattuto per lui negli scorsi mesi erano mercenari prezzolati o poveri soldati costretti dai loro ufficiali a morire per il capo. La guerra civile ha creato rancori che potrebbero riemergere nei prossimi mesi e minacciare la stabilità del Paese. Le tribù sono entità complesse e imprevedibili su cui abbiamo informazioni insufficienti. Quanto tempo sarà necessario perché la Libia possa considerarsi interamente pacificata? Dov’è, nelle file dei ribelli, la dirigenza che sarà in grado di assicurare la transizione? Fra coloro che andranno al potere dopo il crollo del regime, molti chiederanno giustizia. Il Tribunale penale internazionale, in particolare, sarà felice di affermare la propria competenza e sembra pronto a processare sia Gheddafi, se la sua vita non terminerà in un altro modo, sia i figli e altri membri del suo clan familiare.
Un processo a Gheddafi sarebbe una pietra miliare nella lunga strada verso la giustizia internazionale. Ma qualcuno ricorderà un brillante testo teatrale, pubblicato a Londra durante la Seconda guerra mondiale, in cui un uomo politico laburista, Michael Foot, mascherato sotto lo pseudonimo di Cassius, immaginava un processo a Mussolini dopo la fine del conflitto. Nel brillante pamphlet dell’autore la prima mossa dell’imputato era quella di chiamare sul banco dei testimoni tutti gli uomini politici britannici che lo avevano elogiato e adulato. Quanti uomini politici, soprattutto europei, verrebbero convocati all’Aja per rendere conto dei loro rapporti con il leader libico? La fine del regime di Gheddafi è una buona notizia. Ma se vogliamo che sia utile al futuro della Libia e più generalmente a quello dei Paesi dell’Africa del Nord, nessuna di queste domande può essere ignorata o sottovalutata. Non basta salutare la fine del tiranno, la vittoria del popolo, il trionfo della democrazia.
Occorre aiutare i libici a superare questa fase, a dotarsi di un governo credibile, a impegnarsi il più rapidamente possibile nella ricostruzione politica ed economica del Paese. La Nato ha fatto la guerra e dovrebbe dare un contributo alla pace. Ma dubito che abbia i mezzi e le competenze necessarie per un lavoro estraneo alla sua cultura e alle sue esperienze. Il compito quindi è dell’Europa e in particolare dei Paesi della regione, fra cui, in prima linea, l’Italia e la Francia. Ma saremo tanto più efficaci quanto più eviteremo di perseguire, come in passato, obiettivi e interessi individuali di corto respiro. Dall’unità dell’Europa dipende oggi il futuro della Libia.
9.3.11
Parlare chiaro
Rossana Rossanda (il Manifesto)
Al manifesto non riesce di dire che la Libia di Gheddafi non è né una democrazia né uno stato progressista, e che il tentativo di rivolta in corso si oppone a un clan familiare del quale si augura la caduta. Non penso tanto al nostro corrispondente, persona perfetta, mandato in una situazione imbarazzante a Tripoli e che ha potuto andare - e lo ha scritto - soltanto nelle zone che il governo consentiva, senza poter vedere niente né in Cirenaica, né nelle zone di combattimento fra Tripoli e Bengasi.
Perché tanta cautela da parte di un giornale che non ha esitato a sposare, fino ad oggi, anche le cause più minoritarie, ma degne? Non è degno che la gente si rivolti contro un potere che da quarant'anni, per avere nel 1969 abbattuto una monarchia fantoccio, le nega ogni forma di preoccupazione e di controllo? Non sono finite le illusioni progressiste che molti di noi, io inclusa, abbiamo nutrito negli anni sessanta e settanta? Non è evidente che sono degenerate in poteri autoritari? Pensiamo ancora che la gestione del petrolio e della collocazione internazionale del paese possa restare nelle mani di una parvenza di stato, che non possiede neanche una elementare divisione dei poteri e si identifica in una famiglia?
Ho proposto queste domande sul manifesto del 24 febbraio, senza ottenere risposta. Non è una risposta la nostalgia di alcuni di noi per un'epoca che ha sperato una terzietà nelle strettoie della guerra fredda. Né la nostalgia è sorte inesorabile degli anziani; chi ha più anni è anche chi ha più veduto come cambiano i rapporti di forza politici e sociali ed è tenuto a farsi meno illusioni. E se in più si dice comunista, a orientarsi secondo i suoi principi proprio quando precipitano equilibri e interessi.
Non che siamo solo noi, manifesto, a non sapere che pesci prendere davanti ai movimenti della sponda meridionale del Mediterraneo. Il governo francese ha fatto di peggio. Quello italiano ha consegnato al governo libico gli immigranti che cercavano di sbarcare a Lampedusa e dei quali non si ha più traccia. L'Europa, convinta fino a ieri che dire arabo significava dire islamista dunque terrorista, prima ha appoggiato alcuni despoti presunti laici - Gheddafi gioca ancora questa carta - poi si è rassicurata nel vedere le piazze di Tunisi e del Cairo zeppe di folle non violente, ha accolto con piacere l'appoggio alle medesime da parte dell'esercito tunisino e egiziano, e teme soltanto una invasione di profughi.
Ma la Libia non è né l'Egitto né la Tunisia. L'esercito è rimasto dalla parte del potere e la situazione s'è di colpo fatta drammatica. Ma chi, se non l'ottusità di Gheddafi, è responsabile se l'opposizione è diventata aspra, scinde la Cirenaica, cerca armi e il conflitto diventa guerra civile? Tra forze e ad armi affatto sproporzionate? E chi se non noi lo deve denunciare? Chi, se non noi, deve divincolarsi dal dilemma o ti lasci bombardare o di fatto chiami a una terza «guerra umanitaria», giacché gli Usa non desidererebbero altro? Sembra che la capacità di ragionare ci sia venuta meno.
La sinistra non può molto. Il manifesto, ridotti come siamo al lumicino, non può nulla se non alzare la voce con chiarezza e senza equivoci. C'è un'area enorme che si dibatte in una sua difficile, acerba emancipazione, che ha bisogno di darsi un progetto - non dico che dovremmo organizzare delle Brigate Internazionali, ma mi impressiona che nessuno abbia voglia di offrire a questo popolo un aiuto. Ricordate le corse giovanili degli anni sessantotto e settanta a Parigi, a Lisbona, a Madrid e a Barcellona? Dall'altra parte del Mediterraneo non ha fretta di andar nessuno, salvo i tour operator impazienti che finisca presto. Almeno su a chi dare simpatie e incoraggiamento non dovremmo esitare. Non noi.
Al manifesto non riesce di dire che la Libia di Gheddafi non è né una democrazia né uno stato progressista, e che il tentativo di rivolta in corso si oppone a un clan familiare del quale si augura la caduta. Non penso tanto al nostro corrispondente, persona perfetta, mandato in una situazione imbarazzante a Tripoli e che ha potuto andare - e lo ha scritto - soltanto nelle zone che il governo consentiva, senza poter vedere niente né in Cirenaica, né nelle zone di combattimento fra Tripoli e Bengasi.
Perché tanta cautela da parte di un giornale che non ha esitato a sposare, fino ad oggi, anche le cause più minoritarie, ma degne? Non è degno che la gente si rivolti contro un potere che da quarant'anni, per avere nel 1969 abbattuto una monarchia fantoccio, le nega ogni forma di preoccupazione e di controllo? Non sono finite le illusioni progressiste che molti di noi, io inclusa, abbiamo nutrito negli anni sessanta e settanta? Non è evidente che sono degenerate in poteri autoritari? Pensiamo ancora che la gestione del petrolio e della collocazione internazionale del paese possa restare nelle mani di una parvenza di stato, che non possiede neanche una elementare divisione dei poteri e si identifica in una famiglia?
Ho proposto queste domande sul manifesto del 24 febbraio, senza ottenere risposta. Non è una risposta la nostalgia di alcuni di noi per un'epoca che ha sperato una terzietà nelle strettoie della guerra fredda. Né la nostalgia è sorte inesorabile degli anziani; chi ha più anni è anche chi ha più veduto come cambiano i rapporti di forza politici e sociali ed è tenuto a farsi meno illusioni. E se in più si dice comunista, a orientarsi secondo i suoi principi proprio quando precipitano equilibri e interessi.
Non che siamo solo noi, manifesto, a non sapere che pesci prendere davanti ai movimenti della sponda meridionale del Mediterraneo. Il governo francese ha fatto di peggio. Quello italiano ha consegnato al governo libico gli immigranti che cercavano di sbarcare a Lampedusa e dei quali non si ha più traccia. L'Europa, convinta fino a ieri che dire arabo significava dire islamista dunque terrorista, prima ha appoggiato alcuni despoti presunti laici - Gheddafi gioca ancora questa carta - poi si è rassicurata nel vedere le piazze di Tunisi e del Cairo zeppe di folle non violente, ha accolto con piacere l'appoggio alle medesime da parte dell'esercito tunisino e egiziano, e teme soltanto una invasione di profughi.
Ma la Libia non è né l'Egitto né la Tunisia. L'esercito è rimasto dalla parte del potere e la situazione s'è di colpo fatta drammatica. Ma chi, se non l'ottusità di Gheddafi, è responsabile se l'opposizione è diventata aspra, scinde la Cirenaica, cerca armi e il conflitto diventa guerra civile? Tra forze e ad armi affatto sproporzionate? E chi se non noi lo deve denunciare? Chi, se non noi, deve divincolarsi dal dilemma o ti lasci bombardare o di fatto chiami a una terza «guerra umanitaria», giacché gli Usa non desidererebbero altro? Sembra che la capacità di ragionare ci sia venuta meno.
La sinistra non può molto. Il manifesto, ridotti come siamo al lumicino, non può nulla se non alzare la voce con chiarezza e senza equivoci. C'è un'area enorme che si dibatte in una sua difficile, acerba emancipazione, che ha bisogno di darsi un progetto - non dico che dovremmo organizzare delle Brigate Internazionali, ma mi impressiona che nessuno abbia voglia di offrire a questo popolo un aiuto. Ricordate le corse giovanili degli anni sessantotto e settanta a Parigi, a Lisbona, a Madrid e a Barcellona? Dall'altra parte del Mediterraneo non ha fretta di andar nessuno, salvo i tour operator impazienti che finisca presto. Almeno su a chi dare simpatie e incoraggiamento non dovremmo esitare. Non noi.
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5.3.11
Ipotesi sulla crisi libica
Valentino Parlato (il Manifesto)
Provo ad avanzare alcune ipotesi di lavoro sul vasto movimento di protesta che, percorrendo tutta l'Africa settentrionale, si affaccia sul Mediterraneo (soprattutto Tunisia ed Egitto e poi Libia), e si spinge fino ai paesi del Medio Oriente.
Il primo dato da sottolineare è che si tratta di un movimento fondamentalmente, se non esclusivamente, giovanile. Alla sua testa, ammesso e non concesso che questo movimento abbia un vertice di comando, non ci sono leader anziani e noti per il loro passato politico. Sottolineo: un movimento tutto di giovani. Qualcuno ha scritto di «primavera del mondo arabo».
Il secondo dato, importante anch'esso, è che si tratta di un movimento postislamista (sul pericolo di Al Qaeda, Gheddafi forse esagera). Il sociologo Oliver Roy, professore di studi mediterranei all'università di Firenze, su Le Monde del 12 febbraio scriveva: «Se facciamo attenzione a quelli che hanno scatenato il movimento è evidente che si tratta di una generazione postislamista. Per questi giovani i grandi movimenti rivoluzionari degli anni '70 '80 sono storia antica, dei loro antenati. Questa nuova generazione non è affatto ideologica, ha slogan assolutamente pragmatici e concreti («vattene, togliti dai piedi»). Non si appellano all'Islam come in Algeria facevano i loro predecessori alla fine degli anni '80. Esprimono innanzitutto un rifiuto delle dittature corrotte e una domanda di democrazia.
Il terzo dato, sul quale riflettere, è che - senza affatto svalorizzare questi movimenti - si tratta di ribellioni di giovani, senza una leadership riconosciuta, tale da assumere il potere. Tanto in Tunisia come in Egitto la costituzione di un nuovo governo ancora non c'è ed è solo l'esercito (che in Libia ha scarso peso) a coprire in qualche modo la vacanza di potere. Per dire - pur con la massima approssimazione - che in Tunisia come in Egitto non è ancora chiaro come andrà a finire.
In questo quadro di «primavera araba», la Libia non dico che è un caso a parte, ma ha certamente specificità proprie. In Libia, dove non ci sono le condizioni di miseria diffusa come in Tunisia ed Egitto, la ribellione - penso io - non ci sarebbe stata senza la Tunisia e l'Egitto: la ribellione giovanile di quei paesi ha scosso e mobilitato la gioventù libica, che - penso - altrimenti sarebbe rimasta ancora tranquilla, seppure in fermento. E, aggiungo, non tanto per paradosso, si potrebbe dire che la ribellione dei giovani libici sia stata promossa, certo inconsapevolmente, dallo stesso Gheddafi con le sue parole d'ordine sul governo del popolo, la democrazia diretta e il suo famoso Libretto Verde. In Libia c'è una sorta di paradosso: contro Gheddafi gridando il messaggio di Gheddafi. E Gheddafi - come ha detto al nostro inviato, Maurizio Matteuzzi, il vescovo di Tripoli monsignor Martinelli - è un beduino che piuttosto che mollare si fa uccidere o si suicida (qualcuno dovrebbe leggersi il suo racconto «Fuga all'Inferno» pubblicato dalla nostra Manifestolibri).
Gheddafi, nonostante l'età, resta un beduino colto e, anche se si deve alla sua attuale crisi, ha ritrovato la sua natura mandando al diavolo Berlusconi, con il quale aveva dato vita alla pagliacciata della sua ultima visita a Roma. Brutto errore quello.
Per tutte queste ragioni che ho qui, disordinatamente, avanzato, la questione Libia è più difficile e pericolosa. Una situazione difficile e pericolosa aggravata dalla ricchezza del petrolio che fa gola a tutti. Le navi Usa davanti alle coste libiche non sono affatto un buon segno. Negli Usa non c'è più Bush, che tentò più volte di ammazzare Gheddafi: ricordate il bombardamento della sua abitazione? Ora c'è Obama, ma anche lui pensa al petrolio e se (Gheddafi lo ha anche detto) quel petrolio dovesse andare alla Cina (migliaia di lavoratori cinesi sono in Libia) per lui, Obama, sarebbe una seria sconfitta. Una situazione difficile e pericolosa, più di quanto non si pensi. Siamo nel cosiddetto Mare Nostrum.
Quanto poi all'Italia, allo stato italiano mi sembra assurda la denuncia del Trattato di amicizia con la Libia. Lo stato libico ci sarà ancora, e oggi la denuncia del trattato appare vile e autolesionista. Non vogliamo più costruire la famosa autostrada, che peraltro darebbe lavoro alle imprese italiane? Vogliamo fare un regalo agli Usa? Piuttosto rinunciamo all'impegno imposto ai libici di bloccare i flussi migratori verso l'Italia. E Berlusconi non si dimentichi di aver, con esibizionismo, baciato la mano del diavolo Gheddafi. Gli italiani non lo dimenticheranno.
Provo ad avanzare alcune ipotesi di lavoro sul vasto movimento di protesta che, percorrendo tutta l'Africa settentrionale, si affaccia sul Mediterraneo (soprattutto Tunisia ed Egitto e poi Libia), e si spinge fino ai paesi del Medio Oriente.
Il primo dato da sottolineare è che si tratta di un movimento fondamentalmente, se non esclusivamente, giovanile. Alla sua testa, ammesso e non concesso che questo movimento abbia un vertice di comando, non ci sono leader anziani e noti per il loro passato politico. Sottolineo: un movimento tutto di giovani. Qualcuno ha scritto di «primavera del mondo arabo».
Il secondo dato, importante anch'esso, è che si tratta di un movimento postislamista (sul pericolo di Al Qaeda, Gheddafi forse esagera). Il sociologo Oliver Roy, professore di studi mediterranei all'università di Firenze, su Le Monde del 12 febbraio scriveva: «Se facciamo attenzione a quelli che hanno scatenato il movimento è evidente che si tratta di una generazione postislamista. Per questi giovani i grandi movimenti rivoluzionari degli anni '70 '80 sono storia antica, dei loro antenati. Questa nuova generazione non è affatto ideologica, ha slogan assolutamente pragmatici e concreti («vattene, togliti dai piedi»). Non si appellano all'Islam come in Algeria facevano i loro predecessori alla fine degli anni '80. Esprimono innanzitutto un rifiuto delle dittature corrotte e una domanda di democrazia.
Il terzo dato, sul quale riflettere, è che - senza affatto svalorizzare questi movimenti - si tratta di ribellioni di giovani, senza una leadership riconosciuta, tale da assumere il potere. Tanto in Tunisia come in Egitto la costituzione di un nuovo governo ancora non c'è ed è solo l'esercito (che in Libia ha scarso peso) a coprire in qualche modo la vacanza di potere. Per dire - pur con la massima approssimazione - che in Tunisia come in Egitto non è ancora chiaro come andrà a finire.
In questo quadro di «primavera araba», la Libia non dico che è un caso a parte, ma ha certamente specificità proprie. In Libia, dove non ci sono le condizioni di miseria diffusa come in Tunisia ed Egitto, la ribellione - penso io - non ci sarebbe stata senza la Tunisia e l'Egitto: la ribellione giovanile di quei paesi ha scosso e mobilitato la gioventù libica, che - penso - altrimenti sarebbe rimasta ancora tranquilla, seppure in fermento. E, aggiungo, non tanto per paradosso, si potrebbe dire che la ribellione dei giovani libici sia stata promossa, certo inconsapevolmente, dallo stesso Gheddafi con le sue parole d'ordine sul governo del popolo, la democrazia diretta e il suo famoso Libretto Verde. In Libia c'è una sorta di paradosso: contro Gheddafi gridando il messaggio di Gheddafi. E Gheddafi - come ha detto al nostro inviato, Maurizio Matteuzzi, il vescovo di Tripoli monsignor Martinelli - è un beduino che piuttosto che mollare si fa uccidere o si suicida (qualcuno dovrebbe leggersi il suo racconto «Fuga all'Inferno» pubblicato dalla nostra Manifestolibri).
Gheddafi, nonostante l'età, resta un beduino colto e, anche se si deve alla sua attuale crisi, ha ritrovato la sua natura mandando al diavolo Berlusconi, con il quale aveva dato vita alla pagliacciata della sua ultima visita a Roma. Brutto errore quello.
Per tutte queste ragioni che ho qui, disordinatamente, avanzato, la questione Libia è più difficile e pericolosa. Una situazione difficile e pericolosa aggravata dalla ricchezza del petrolio che fa gola a tutti. Le navi Usa davanti alle coste libiche non sono affatto un buon segno. Negli Usa non c'è più Bush, che tentò più volte di ammazzare Gheddafi: ricordate il bombardamento della sua abitazione? Ora c'è Obama, ma anche lui pensa al petrolio e se (Gheddafi lo ha anche detto) quel petrolio dovesse andare alla Cina (migliaia di lavoratori cinesi sono in Libia) per lui, Obama, sarebbe una seria sconfitta. Una situazione difficile e pericolosa, più di quanto non si pensi. Siamo nel cosiddetto Mare Nostrum.
Quanto poi all'Italia, allo stato italiano mi sembra assurda la denuncia del Trattato di amicizia con la Libia. Lo stato libico ci sarà ancora, e oggi la denuncia del trattato appare vile e autolesionista. Non vogliamo più costruire la famosa autostrada, che peraltro darebbe lavoro alle imprese italiane? Vogliamo fare un regalo agli Usa? Piuttosto rinunciamo all'impegno imposto ai libici di bloccare i flussi migratori verso l'Italia. E Berlusconi non si dimentichi di aver, con esibizionismo, baciato la mano del diavolo Gheddafi. Gli italiani non lo dimenticheranno.
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24.2.11
Illusioni progressiste
di Rossana Rossanda (il Manifesto)
Luciana Castellina fa la domanda giusta: come è successo che uomini e movimenti sui quali erano state riposte tante speranze ed erano stati magnifici nelle lotte di liberazione siano arrivati al punto di sollevare il rancore di tanta parte del loro popolo? Le rivolte nel Maghreb e nel Medio Oriente ci interpellano su questo. E così la reazione dei dirigenti al potere, specie di quelli che lo avevano preso con impeto progressista - il libico Muammar Gheddafi e il governo derivante dal Fln algerino.
Non è una domanda diversa da quella che dovremmo farci sul perché le rivoluzioni comuniste hanno subito la stessa sorte. Rispondere che Stalin era un mostro (Stalin e Hitler, stessa razza, tesi degli storici post 1989), e forse anche Lenin, e Mao un pazzo, è derisorio, e del resto non fa che spostare la domanda: perché masse immense e grandi cambiamenti hanno trovato in essi i loro leader? Nel caso di Gheddafi, con le sue uniformi rutilanti e i mantelloni da cavaliere del deserto, la convinzione di essere un liberatore e la disposizione ad ammazzare ed essere ammazzato, l'elemento di delirio è evidente, come i zigzag nei rapporti con le potenze occidentali e il terrorismo. Anche lui all'inizio non parve affatto demente, e non lo era.
Sarebbe interessante seguire alcune ipotesi, anche per l'immediato futuro dei movimenti che stanno scuotendo i paesi arabi. La prima è capire la natura illusoria di un anticolonialismo, spesso declinato come antimperialismo e, più raramente, anticapitalismo, affidato, in presenza di masse incolte, a un'avanguardia forte e risoluta, che più o meno transitoriamente prende il potere e, anche per mezzo di Costituzioni ad hoc, lo difende non solo dagli avversari ma anche contro chiunque lo critica, anche i suoi stessi compagni, vedendovi "oggettivamente" un nemico. E spesso lo è o lo diventa, perché una lotta anticoloniale non si svolge nel vuoto ma in presenza di grandi poteri politici ed economici, che intervengono in ogni spazio o contraddizione presente nel "processo rivoluzionario".
Il quale si difende con misure aspre, ma che sembrano giustificate anche ad osservatori esterni, perché la storia è complicata. Chi avrebbe detto che l'opposizione allo scia di Persia, Reza Palevi, sarebbe stata guidata da un movimento religioso fondamentalista? La Cia non lo aveva sospettato, e molti di noi si sono detti che, dunque, il progresso si fa anche per vie inaspettate, penso non solo al manifesto, ma a Michel Foucault. Invece sbagliavamo come sbagliano Chavez o Lula quando invitano Amadhinejad.
In questo errore è grande la responsabilità dell'Urss da quando difende soltanto i suoi interessi come stato, (e in essi a medio termine perde e si perde), ma anche dei partiti comunisti, che in essa e nelle sue politiche hanno visto la sola barriera rimasta dopo il fallimento delle rivoluzioni in Europa. Quando a Bandung, su iniziativa jugoslava, si delineò il blocco dei paesi non allineati, si deve individuare la causa della loro breve sopravvivenza soltanto nell'antipatia per essi nutrita dalle due superpotenze? Le loro intenzioni di pace erano forti, ma il loro modello sociale era debole. Molto più grave, la decolonizzazione passò presto - liquidati i Patrice Lumumba o Amilcar Cabral - attraverso la formazione di borghesie nazionali (anche su di esse per un certo tempo il movimento comunista sperò) o su forze che, partite anticapitaliste o progressiste attraverso forme di proprietà pubblica, presto soggiacquero o ai problemi di una crescita tutta statalizzata, lo stato ridotto alla sua espressione più rozza, ogni forma di controllo dal basso inesistente o,peggio, a forme diverse di corruzione. Libia e Algeria, in possesso di grandi fonti di energia, sono due esempi affatto diversi di un sequestro di potere che ha sottratto da ogni partecipazione le stesse popolazioni cui erogava alcuni servizi che ne facevano crescere i bisogni, ma che non ha mai coinvolto se non in una rete, più o meno trasparente, di affari o da appelli basati sull'emotività.
E sulle quali la mondializzazione ha indotto un doppio processo: coalizza al vertice le forze economiche, utilizzando gli stati come una agenzia di affari di ambigua proprietà, e produce una immensa massa di lavoratori sfruttati ma in parte crescente acculturati, e dotati di mezzi di comunicazione sconosciuti ai dannati della terra di quaranta anni fa: la folla in piazza Trahir era in possesso di telefonini e conosceva in buona parte Internet, attraverso la quale si era in buona parte formata. Gli sfruttati e oppressi di oggi non sono più gli umiliati e oppressi di allora. Né sono soltanto, come ci è piaciuto di credere dopo l'11 settembre, massa di manovra di imam fondementalisti. Questo nuovo tipo di proletariato - che tale è - non sta più facilmente ai progressismi dispotici, dai quali ha tratto in passato alcuni benefici. E' esso che ha invaso le piazze, che fa vacillare i regimi, che si è fatto scivolar di dosso l'egemonia dell'islamismo in una sua secolarizzazione, esclusion fatta per il potere della dinastia wahabita dell'Arabia saudita. E soprattutto degli ayatollah iraniani, capaci nel medesimo tempo di sviluppare e tenere in gabbia con un sistema del tutto inchiavardato una sia pur riluttante "società civile", cui non permetterà di certo i sussulti del mondo arabo.
In Tunisia e in Egitto sono solo gli eserciti i bizzarri e pericolosi mediatori fra potere e popolazione. Pericolosi, perché anch'essi sono una casta chiusa, e per sua natura fortemente gerarchizzata, nella quale non si dà alternativa fra obbedienza e insurrezione, insurrezione e obbedienza, una necessariamente di seguito all'altra. Non penso, come alcuni amici, che sia da proporsi una sorta di scontro permanente fra movimenti aperti e istituzioni chiuse, e tanto meno che lo sviluppo della persona possa darsi un perpetuo lasciarsi ogni contesto alle spalle, come su questo stesso giornale si suggeriva ai tunisini che sono sbarcati a Lampedusa. Forse qualcuno crescerà nell'esodo, ma non saprei proporre a chi ha appena sbarazzato il paese da una autocrazia di andarsene altrove, non occuparsi di ridare un senso al tessuto sociale da cui viene, e tanto meno di passare nel nostro continente, chiuso in un suo declino. In tutti i paesi dove una forma di dispotismo, ottuso o progressista, ha interdetto l'articolarsi in correnti e progetti di società e il misurarsi nel conflitto, una folla generosa ma atomizzata, e che tale voglia restare, sarà sempre prima o poi preda di un nuovo potere. Non per niente i totalitarismi vietano l'esistenza di corpi intermedi che non siano una loro diretta emanazione.
Il problema delle rivolte arabe - che forse non è giusto neppure chiamare tali - è di darsi forme di partiti e sindacati e regole e divisioni dei poteri che possano costituire leve reali di intervento sui regimi che sempre tendono a formarsi di nuovo. E' un problema anche nostro, e siamo lungi dall'averlo risolto se, nel caso italiano, siamo paralizzati da un personaggio di modesto livello come Berlusconi. C'è in occidente un malessere della democrazia rappresentativa che è impossibile ignorare. Ma non lo risolveremmo se scagliassimo qualche moltitudine su un Palazzo di Inverno; la storia dovrebbe averci insegnato anche questo. La domanda, spalancata oggi dalle folle vincenti di Tunisi e del Cairo, o dalle battaglie in atto in Libia, non è diversa da quella che è venuta maturando nella nostra desolante quotidianità.
Luciana Castellina fa la domanda giusta: come è successo che uomini e movimenti sui quali erano state riposte tante speranze ed erano stati magnifici nelle lotte di liberazione siano arrivati al punto di sollevare il rancore di tanta parte del loro popolo? Le rivolte nel Maghreb e nel Medio Oriente ci interpellano su questo. E così la reazione dei dirigenti al potere, specie di quelli che lo avevano preso con impeto progressista - il libico Muammar Gheddafi e il governo derivante dal Fln algerino.
Non è una domanda diversa da quella che dovremmo farci sul perché le rivoluzioni comuniste hanno subito la stessa sorte. Rispondere che Stalin era un mostro (Stalin e Hitler, stessa razza, tesi degli storici post 1989), e forse anche Lenin, e Mao un pazzo, è derisorio, e del resto non fa che spostare la domanda: perché masse immense e grandi cambiamenti hanno trovato in essi i loro leader? Nel caso di Gheddafi, con le sue uniformi rutilanti e i mantelloni da cavaliere del deserto, la convinzione di essere un liberatore e la disposizione ad ammazzare ed essere ammazzato, l'elemento di delirio è evidente, come i zigzag nei rapporti con le potenze occidentali e il terrorismo. Anche lui all'inizio non parve affatto demente, e non lo era.
Sarebbe interessante seguire alcune ipotesi, anche per l'immediato futuro dei movimenti che stanno scuotendo i paesi arabi. La prima è capire la natura illusoria di un anticolonialismo, spesso declinato come antimperialismo e, più raramente, anticapitalismo, affidato, in presenza di masse incolte, a un'avanguardia forte e risoluta, che più o meno transitoriamente prende il potere e, anche per mezzo di Costituzioni ad hoc, lo difende non solo dagli avversari ma anche contro chiunque lo critica, anche i suoi stessi compagni, vedendovi "oggettivamente" un nemico. E spesso lo è o lo diventa, perché una lotta anticoloniale non si svolge nel vuoto ma in presenza di grandi poteri politici ed economici, che intervengono in ogni spazio o contraddizione presente nel "processo rivoluzionario".
Il quale si difende con misure aspre, ma che sembrano giustificate anche ad osservatori esterni, perché la storia è complicata. Chi avrebbe detto che l'opposizione allo scia di Persia, Reza Palevi, sarebbe stata guidata da un movimento religioso fondamentalista? La Cia non lo aveva sospettato, e molti di noi si sono detti che, dunque, il progresso si fa anche per vie inaspettate, penso non solo al manifesto, ma a Michel Foucault. Invece sbagliavamo come sbagliano Chavez o Lula quando invitano Amadhinejad.
In questo errore è grande la responsabilità dell'Urss da quando difende soltanto i suoi interessi come stato, (e in essi a medio termine perde e si perde), ma anche dei partiti comunisti, che in essa e nelle sue politiche hanno visto la sola barriera rimasta dopo il fallimento delle rivoluzioni in Europa. Quando a Bandung, su iniziativa jugoslava, si delineò il blocco dei paesi non allineati, si deve individuare la causa della loro breve sopravvivenza soltanto nell'antipatia per essi nutrita dalle due superpotenze? Le loro intenzioni di pace erano forti, ma il loro modello sociale era debole. Molto più grave, la decolonizzazione passò presto - liquidati i Patrice Lumumba o Amilcar Cabral - attraverso la formazione di borghesie nazionali (anche su di esse per un certo tempo il movimento comunista sperò) o su forze che, partite anticapitaliste o progressiste attraverso forme di proprietà pubblica, presto soggiacquero o ai problemi di una crescita tutta statalizzata, lo stato ridotto alla sua espressione più rozza, ogni forma di controllo dal basso inesistente o,peggio, a forme diverse di corruzione. Libia e Algeria, in possesso di grandi fonti di energia, sono due esempi affatto diversi di un sequestro di potere che ha sottratto da ogni partecipazione le stesse popolazioni cui erogava alcuni servizi che ne facevano crescere i bisogni, ma che non ha mai coinvolto se non in una rete, più o meno trasparente, di affari o da appelli basati sull'emotività.
E sulle quali la mondializzazione ha indotto un doppio processo: coalizza al vertice le forze economiche, utilizzando gli stati come una agenzia di affari di ambigua proprietà, e produce una immensa massa di lavoratori sfruttati ma in parte crescente acculturati, e dotati di mezzi di comunicazione sconosciuti ai dannati della terra di quaranta anni fa: la folla in piazza Trahir era in possesso di telefonini e conosceva in buona parte Internet, attraverso la quale si era in buona parte formata. Gli sfruttati e oppressi di oggi non sono più gli umiliati e oppressi di allora. Né sono soltanto, come ci è piaciuto di credere dopo l'11 settembre, massa di manovra di imam fondementalisti. Questo nuovo tipo di proletariato - che tale è - non sta più facilmente ai progressismi dispotici, dai quali ha tratto in passato alcuni benefici. E' esso che ha invaso le piazze, che fa vacillare i regimi, che si è fatto scivolar di dosso l'egemonia dell'islamismo in una sua secolarizzazione, esclusion fatta per il potere della dinastia wahabita dell'Arabia saudita. E soprattutto degli ayatollah iraniani, capaci nel medesimo tempo di sviluppare e tenere in gabbia con un sistema del tutto inchiavardato una sia pur riluttante "società civile", cui non permetterà di certo i sussulti del mondo arabo.
In Tunisia e in Egitto sono solo gli eserciti i bizzarri e pericolosi mediatori fra potere e popolazione. Pericolosi, perché anch'essi sono una casta chiusa, e per sua natura fortemente gerarchizzata, nella quale non si dà alternativa fra obbedienza e insurrezione, insurrezione e obbedienza, una necessariamente di seguito all'altra. Non penso, come alcuni amici, che sia da proporsi una sorta di scontro permanente fra movimenti aperti e istituzioni chiuse, e tanto meno che lo sviluppo della persona possa darsi un perpetuo lasciarsi ogni contesto alle spalle, come su questo stesso giornale si suggeriva ai tunisini che sono sbarcati a Lampedusa. Forse qualcuno crescerà nell'esodo, ma non saprei proporre a chi ha appena sbarazzato il paese da una autocrazia di andarsene altrove, non occuparsi di ridare un senso al tessuto sociale da cui viene, e tanto meno di passare nel nostro continente, chiuso in un suo declino. In tutti i paesi dove una forma di dispotismo, ottuso o progressista, ha interdetto l'articolarsi in correnti e progetti di società e il misurarsi nel conflitto, una folla generosa ma atomizzata, e che tale voglia restare, sarà sempre prima o poi preda di un nuovo potere. Non per niente i totalitarismi vietano l'esistenza di corpi intermedi che non siano una loro diretta emanazione.
Il problema delle rivolte arabe - che forse non è giusto neppure chiamare tali - è di darsi forme di partiti e sindacati e regole e divisioni dei poteri che possano costituire leve reali di intervento sui regimi che sempre tendono a formarsi di nuovo. E' un problema anche nostro, e siamo lungi dall'averlo risolto se, nel caso italiano, siamo paralizzati da un personaggio di modesto livello come Berlusconi. C'è in occidente un malessere della democrazia rappresentativa che è impossibile ignorare. Ma non lo risolveremmo se scagliassimo qualche moltitudine su un Palazzo di Inverno; la storia dovrebbe averci insegnato anche questo. La domanda, spalancata oggi dalle folle vincenti di Tunisi e del Cairo, o dalle battaglie in atto in Libia, non è diversa da quella che è venuta maturando nella nostra desolante quotidianità.
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