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8.2.19

Libia, la Srebrenica del Mediterraneo E l’Occidente lo capirà troppo tardi

Un rapporto Onu documenta torture, stupri, schiavi. Come in Bosnia, preferiamo non vedere

Goffredo Buccini (Corriere)

Un ragazzo, scappato dal mattatoio somalo e passato per un lager di Kufra, l’ha spiegata con quella sintesi che si raggiunge solo attraverso il dolore : «Che tu sia un rifugiato o un migrante, in Libia sei sempre spaventato. Devi dormire con un occhio aperto. Vieni venduto da un trafficante all’altro». Poche parole da merce umana, così efficaci da finire in cima a un capitolo del dossier, il quinto, «Viaggio dall’inferno». Quel dossier tutt’altro che inedito, 61 terribili pagine redatte lo scorso dicembre, grava da un mese e mezzo sulle coscienze dell’Occidente. E, come tutte le colpe che appaiono senza redenzione, tende a essere rimosso.

Si chiama Desperate and dangerous: report on the human situation of migrants and refugees in Lybia, ed è firmato da due organismi dell’Onu: l’Alto commissariato per i diritti umani (Unhcr) e la Missione di supporto in Libia (Unsmil). Consta di 1.300 interviste di prima mano raccolte tra gennaio 2017 e agosto 2018 nelle visite di 11 centri di detenzione: non tutti e certo nemmeno i peggiori. Cade due anni dopo un analogo rapporto (dicembre 2016) in cui l’Onu dava l’allarme su una situazione umanitaria totalmente fuori controllo. Ora scopriamo che in questo periodo le «autorità libiche si sono dimostrate incapaci o del tutto refrattarie a mettere fine alle violenze e agli abusi contro migranti e rifugiati».

Quelle 61 pagine contengono in sé un paradosso: perché l’Onu, svelando gli orrori libici, confessa una inanità nel contrastarli che potrebbe infine diventare vergogna, in una sorta di Srebrenica mediterranea dove massacrata non è una singola nazionalità per la sua appartenenza religiosa (allora, i bosniaci musulmani) ma un’intera categoria umana: i fuggiaschi dell’Africa.

Omicidi, fosse comuni nel deserto, stupri seriali e di gruppo su donne anche incinte o su mamme che allattano, bambini massacrati davanti ai genitori, ragazzi seviziati a morte in collegamento video coi parenti che devono pagarne la liberazione, schiavismo, lavori forzati, celle da centinaia di posti senza una latrina, denutrizione, bruciature con ferri roventi, cavi elettrici ai genitali, unghie strappate. Il paragone con Srebrenica non appare poi forzato. Si muore di fame e di setticemia. Si resta in detenzione senza motivo e all’infinito: una legge coniata da Gheddafi fa considerare schiavi i migranti illegali, i governanti fantoccio di adesso non l’hanno mai cambiata.

Cosa più importante, l’Onu ha «credibili informazioni» sulla complicità di «ufficiali dello Stato… gruppi formalmente integrati nelle istituzioni, rappresentanti del ministero degli Interni e della Difesa, nel traffico di migranti e rifugiati. Questi personaggi dello Stato si arricchiscono attraverso lo sfruttamento e le estorsioni a danno di rifugiati e migranti».

Cade il velo sulla menzogna della Libia come «porto sicuro» dove plausibilmente ricondurre i migranti respinti in mare. Unhcr e Unsmil hanno registrato 53.285 richiedenti asilo fermi in Libia quattro mesi fa, ma sostengono che il numero sia enormemente più alto data l’estrema difficoltà per le Nazioni Unite ad assolvere sul posto al proprio mandato. A gennaio il segretario generale Antonio Guterres ha inviato al Consiglio di sicurezza una relazione di 15 pagine (acquisita dalla Corte penale internazionale dell’Aja) in cui spiega che lì i migranti sono quasi 700 mila (10% donne, 9% bambini) ma in mano alle «autorità» è solo una minoranza, di tutti gli altri non si sa quasi nulla, sono in centri di detenzione inaccessibili, gestiti da gruppi armati.

Nel rapporto Unhcr-Unsmil si sostiene anche che «nonostante la diminuzione degli arrivi in Italia nel 2018, il viaggio è diventato più pericoloso, con oltre 1.200 migranti morti nei primi otto mesi dell’anno scorso durante la traversata». La guardia costiera libica (che ha preso il controllo di 94 miglia nautiche di Sars) è descritta come una compagnia di pirati in base a decine di testimonianze che parlano di uso delle armi, collisioni in mare coi boat people, vere aggressioni.

Sulla terraferma, Bani Whalid, Sabha, Kufra, Buraq al Shati, Shwerif, Sabratah non sono, secondo l’Onu, centri di raccolta ma sostanzialmente campi di sterminio gestiti da kapò di cui si conoscono persino i nomi e i nomignoli, famigerati tra le loro vittime: Moussa e Mahmoud Diab, Mohamed Karongo, Gateau, Mohamed Whiskey, Rambu… Le aste degli schiavi furono documentate dalla Cnn in uno sconvolgente servizio nel novembre 2017. Le prigioni «alternative» sono hangar o cantine da 700 o 800 anime stese le une sulle altre, donne e uomini in totale promiscuità: niente acqua né luce. «A Shwerif ti sparano in una gamba e ti lasciano dissanguare se non paghi… Per spingerci a pagare hanno picchiato mio figlio di 5 anni con una spranga sulla testa», narra un profugo del Darfur. I miliziani camminano sul ventre di donne incinte. Una tra mille racconta: «Vengo dall’Eritrea, sono entrata il Libia a gennaio 2017, sono stata rapita tre volte e portata ad Al Shatti, Bani Walid e al-Khoms. Lì eravamo 200 in una stanza. Non potevamo respirare né allungare le gambe. Ogni notte sono stata violentata da almeno sei uomini, alcuni libici, altri africani, per cinque mesi. Mia madre ha dovuto vendere la casa e impegnare tutto per pagare i 5.000 dollari che questi volevano. Ora sono incinta di uno degli stupratori».

Nulla di tutto ciò è, in assoluto, una rivelazione. Anche se il catalogo degli orrori è così vasto da stordirci. A questi orrori dobbiamo l’enorme (per quanto provvisorio) beneficio di non avere sulle nostre coste, in qualche settimana, fiumi di disperati detenuti lì senza ragione e senza scadenza. Ma certi benefici possono dannare. Se l’Onu non è una di fabbrica di fake news (e ci sarà chi lo afferma, ne siamo sicuri) la Libia è uno stato canaglia o, meglio, una federazione di bande criminali. Certo, la realpolitik ci consiglia di voltarci altrove o, addirittura, di spalleggiare una delle bande in lotta. Ma i fantasmi di Bosnia hanno accompagnato la mala coscienza dell’Occidente per due decenni. Davvero dobbiamo considerare la Libia come un buco nero, come suggeriscono pragmatici strateghi? E quanto a lungo ci potrà proteggere la realpolitik? Al posto di guardia Onu di Srebrenica, un graffitaro cambiò la scritta «United Nations» in «United Nothing». Se la storia insegna qualcosa, è che chi non combatte gli assassini, alla fine, ne è complice.

18.2.15

La guerra in Libia è un regalo al califfo

Lucio Caracciolo (Limes)

Una campagna militare di crociati e apostati: al-Baghdadi non potrebbe chiedere di più.
Senza assecondare l'avventurismo di chi dimentica il nostro passato coloniale, l'Italia può fare qualcosa contro i jihadisti della Quarta sponda.

Il “califfo” al-Baghdadi non potrebbe sperare di meglio: l’invasione armata di ciò che resta della Libia, condotta da ”crociati” (italiani, francesi e altri europei) e “apostati corrotti” (egiziani più arabi e africani vari).

Eppure del nuovo sbarco sulla quarta sponda si discetta nelle cancellerie europee e nei palazzi dei monarchi e delle giunte militari arabe, con il discreto ma pressante incoraggiamento americano. Una operazione di controguerriglia da sviluppare su un territorio largamente desertico grande sei volte l’Italia, in totale caos geopolitico, dove si affrontano decine di bande e milizie di vario colore e appartenenza etnica, locale o regionale, tutte armate fino ai denti.

Una campagna che in teoria si presenta non dissimile dalle guerre sovietica o americana in Afghanistan, solo in un contesto molto più confuso e senza i mezzi delle superpotenze. Ma con la stessa carenza di obiettivi chiari e perseguibili.

Perché, contrariamente a quanto affermano i suoi portavoce, lo Stato Islamico non sta conquistando la Libia. Semmai, alcune fazioni che continuano a massacrarsi senza pace usano il marchio “califfale” in franchising, per ottenere visibilità e attirare reclute.

In ogni caso, per una spedizione oltremare toccherebbe esibire una bandiera Onu autorizzata dal Consiglio di Sicurezza - percorso non scontato - in modo da vestirla da “operazione di pace”. Come ha avvertito il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, l’Italia «è pronta a combattere, naturalmente nel quadro della legalità internazionale».

Stavolta però la foglia di fico onusiana non potrebbe mascherare la natura della guerra: non c’è nessuna pace da preservare, nemmeno in embrione. Non basta: il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha annunciato che Roma aspira a guidare l’agognata missione schierando un contingente di cinquemila uomini. In effetti, più che di soldati avremmo bisogno di carri armati (Rommel docet), che non abbiamo: quelli davvero efficienti si contano sulle dita delle mani o poco più.

Peggio, sembra che alcuni esponenti del governo abbiano persa la memoria del nostro passato coloniale in Tripolitania e in Cirenaica. Certo non l’hanno dimenticato i libici. «Tutto ciò cui aspiriamo è avere di nuovo gli italiani qui fra le mani», ha twittato uno dei più seguiti blogger di Misurata, nemmeno fra i più radicali. Per vendicare Omar al-Mukhtar e i suoi gloriosi martiri.

Quattro anni dopo aver partecipato controvoglia, su uno strapuntino dell’ultimo minuto, alla liquidazione franco-britannica di Gheddafi (e della Libia), adesso rischiamo dunque di tornarci in pompa magna, per ritessere la tela che abbiamo strappato. A supportare le ambizioni egiziane sulla Cirenaica e gli interessi francesi nel Fezzan.

Invece del Colonnello, con cui flirtammo per quattro decenni, lavoreremmo stavolta per un sedicente generale dalle ambigue credenziali, Khalifa Heftar, appoggiato da egiziani, sauditi, emiratini e altri petromonarchi del Golfo. Il quale ha saputo abilmente intestarsi la “guerra al terrorismo” (sezione libica), certificato di qualità ad uso dei governi e delle opinioni pubbliche occidentali meno avvertite, utile a legittimare l’eliminazione dei propri avversari - in questo caso anzitutto le milizie di Misurata e altri gruppi presuntamente “islamisti”.

Puro avventurismo geopolitico, che fra l’altro significherebbe esporci gratuitamente al terrorismo jihadista sul nostro territorio molto più di quanto non lo si sia adesso. A rimettere ordine nel dibattito pubblico alimentato dai suoi stessi ministri ha pensato Matteo Renzi, avvertendo che «non è tempo per una soluzione militare». Il nostro premier ha preso tempo: meglio “aspettare l’Onu”. E ha correttamente osservato: «In Libia non c’è un’invasione dello Stato Islamico, ma alcune milizie che combattevano lì hanno iniziato a fare riferimento a loro».

Renzi mostra così di non voler cadere nella trappola della propaganda del “califfo”, che si annuncia “a sud di Roma”. E, se volessimo davvero combattere lo Stato Islamico, potremmo attaccarlo dove effettivamente si trova, fra Siria e Iraq. Non risulta però che i nostri piloti siano autorizzati a colpirlo.

Ma qualcosa si può e si deve fare. Prima di tutto, non accendere nuovi focolai di guerra senza speranza di vincerla. Poi, usare le leve finanziarie di cui ancora disponiamo per bloccare i flussi di denaro che arrivano ai gruppi armati - operazione tutt’altro che impossibile. In terzo luogo, colpire i traffici che alimentano i miliziani, compresi i jihadisti che fanno riferimento allo Stato Islamico. Tra Iraq e Siria gli americani hanno bombardato con qualche successo raffinerie e impianti controllati dal “califfato”.

In Libia le Marine occidentali potrebbero affondare, prima che partano, le barche con cui i mercanti di essere umani attraversano il Canale di Sicilia, lucrando su migliaia di disperati.

Un blocco navale di fatto, accompagnato da operazioni di forze speciali nei porti libici, infliggerebbe un colpo severo al più osceno dei traffici. E alla cassa degli aspiranti emuli del “califfo”.

17.2.15

Libia "libera": tutte le frasi più stupide

 (Libero)

Nel 2011 molti politici e intellettuali si esaltarono per le «primavere arabe». E quando Berlusconi si dimostrò restìo ad intervenire contro Gheddafi, nel timore del caos libico che ne sarebbe seguito, tutti gli diedero addosso. Ecco una breve antologia di quanto si diceva all’epoca. In alcuni casi abbiamo accostato, dello stesso autore, le opinioni di quattro anni fa a quelle di oggi: i giudizi sulla situazione libica sono quasi opposti, manca l’ammissione di avere sbagliato.

"Il primo ministro (Berlusconi, ndr) non ha osato ancora riconoscere che dopo quasi 42 anni di dittatura - il doppio di Mussolini! - è ben venuto il tempo che si allontani dal potere quel partner sanguinario cui Silvio Berlusconi ha da poco baciato la mano assassina in pubblico. Neanche le cifre di una vera e propria ecatombe in Libia lo hanno indotto a chiedere che Gheddafi sia assicurato a una corte di giustizia internazionale. Come mai persiste una simile, vile titubanza?"
(Gad Lerner, la Repubblica, 24 febbraio 2011)

"Che la situazione in Libia potesse precipitare era chiaro fin dall’estate scorsa, quando si è perso ogni controllo su questo territorio mediterraneo posto sui nostri confini meridionali (...) Le crudeli decapitazioni dei cristiani copti a Sirte segnano oggi un passaggio senza ritorno. Mi auguro che il governo e lo stato maggiore delle Forze Armate abbiano predisposto in questi mesi piani efficaci di intervento a tutela della nostra sicurezza nazionale".
(Gad Lerner, sul suo blog, 15 febbraio 2015)

"Obama ha mantenuto la promessa fatta due anni fa con il discorso del Cairo, rivolto al mondo musulmano. Ha appoggiato i movimenti democratici, pur compiendo qualche contorsione diplomatica. (…) Anche l’Europa è stata fedele ai suoi principi condannando la repressione e pronunciandosi in favore degli oppositori in rivolta. Soltanto l’Italia di Berlusconi ha mancato all’appuntamento d’onore per un paese democratico. Se l’insurrezione libica affogherà nel sangue, il governo italiano avrà la sua parte di vergogna".
(Bernardo Valli, la Repubblica, 22 febbraio 2011)

"Oggi la Libia non è più oppressa da un raìs megalomane e sanguinario, ma è un mosaico di tribù rissose incontrollabili dal governo centrale".
(Bernardo Valli, la Repubblica, 18 gennaio 2013)

"Angela Merkel ha usato un’espressione rivelatrice: vuole “aspettare e vedere come si evolve la situazione”. I prossimi popoli che covano voglie di ribellione e libertà sono avvisati. (...) L’Italia poi è irrilevante, e tiene a esserlo. Ogni giorno che passa rende lo scioglimento più arduo. Che la banda Gheddafi se ne vada per via di persuasione e qualche embargo, è impensabile. Che si rimetta saldamente in sella e tutti ricomincino a trafficarci come prima, è il sogno di molti, ma difficile da realizzare. E allora? Allora, siccome il tempo è un fattore decisivo per qualunque sbocco, l’Europa prende, cioè perde, tempo".
(Adriano Sofri, la Repubblica, 17 marzo 2011)

«Non c’è nessun “kafir”, infedele, persona o paese, che possa sentirsi al riparo dal jihad islamista. Il terrorismo politico di formazioni arabe di altri tempi consentiva furbizie e sotterfugi, per il terrore superstizioso di oggi non ci sono mediatori come il colonnello Giovannone. Questo vuol dire anche che quando si dice che “la soluzione è in Libia” (Renzi) o “siamo pronti a batterci in Libia”, non si può fermarsi lì, tantomeno tornare indietro».
(Adriano Sofri, la Repubblica, 15 febbraio 2015)

«Peccato per il silenzio dei “pacifisti”: ma dove sono mentre Gheddafi bombarda il suo popolo? In week end temo».
(Gianni Riotta, il Sole 24 Ore, 6 marzo 2011)

"Ieri il ministro Gentiloni ha detto bene: finché Isis occupa uno Stato terrorista non ci sarà pace in Europa".
(Gianni Riotta, la Stampa, 9 gennaio 2015)

"Per quanto abborracciato sia stato l’intervento in Libia, le conseguenze di un non-intervento sarebbero state assolutamente peggiori. La Francia ha il merito di aver reso tempestivo l’intervento e la colpa di aver preteso una leadership che nessuno aveva voglia di riconoscerle".
(Vittorio Emanuele Parsi, la Stampa, 20 aprile 2011)

"Com’è risaputo, sono stati i francesi a insistere per deporre Gheddafi, ma non hanno pianificato la fase successiva. (...) La responsabilità di questo pasticcio grava su Londra e Parigi ma, anche se la frittata l’hanno fatta gli altri, ora chi se la ritrova davanti alle proprie coste siamo noi".
(Vittorio Emanuele Parsi, intervista al Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2015)

"Nei paesi nordafricani vigeva simile spartizione di compiti: ai despoti il dominio politico, alle moschee la libertà di modellare l’intimo delle coscienze. L’accordo di scambio sta saltando ovunque, tanto che si parla di fallimento colossale di quella che gli Occidentali chiamavano stabilità. È in nome della stabilità che Berlusconi ha chiamato Mubarak un saggio, e ha detto non voler “disturbare” Gheddafi poco prima che questi bombardasse i libici facendo centinaia di morti".
(Barbara Spinelli, la Repubblica, 23 febbraio 2011)

"In Iraq come in Libia, stiamo assistendo alle conseguenze di guerre che hanno letteralmente generato Stati fallimentari e caos, nonostante i fuorvianti propositi iniziali".
(Barbara Spinelli, intervento all’Europarlamento, 2 settembre 2014)

"Le violenze (di Gheddafi, ndr) andavano condannate subito. Riconosco che c’erano stati tali legami e un tale intreccio di interessi per cui c’era qualche difficoltà ad avere la reazione che questi eventi richiedono. Berlusconi ha blandito Gheddafi. I rapporti con la Libia sono utili ma la dignità va sempre salvata".
(Romano Prodi, 22 febbraio 2011)

"Non poteva esserci diversa conseguenza di una guerra sciagurata voluta sconsideratamente dalla Francia e che l’Italia ha seguito in modo folle e incomprensibile. Non avevo mai visto un paese che paga una guerra fatta contro di lui".
(Romano Prodi, 14 febbraio 2015)

"Berlusconi ha ripetuto per anni: “amico Putin, amico Gheddafi”, ma a cosa ci hanno portato le sue relazioni speciali? Ad essere il tappetino delle autocrazie, se non vere e proprie dittature".
(Pier Luigi Bersani, 22 febbraio 2011)

"L’Italia sta apparendo complice di un tiranno nel momento in cui si denuncia un genocidio. Di fronte a questo non è possibile essere esitanti. (...) L’attenzione non va spostata sui profughi. In questo momento il tema è il vento di libertà che sta soffiando e come contribuiamo a cacciare i dittatori dal Mediterraneo".
(Nichi Vendola, 23 febbraio 2011)

"Protagonisti della rivolta sono stati giovani che non sanno che farsene del Libretto verde, connessi alla società mondiale attraverso la Rete. (...) Cosa hanno a che fare essi con Al Qaeda? Per gli islamisti radicali queste rivolte sono una cocente sconfitta".
(Renzo Guolo, la Repubblica, 25 febbraio 2011)

"Il “dopo” terrorizza. E si accusa la Francia dello smanioso Sarkozy di procedere alla cieca, senza preoccuparsi del predominio delle tribù, o dello spazio dei fondamentalismi che si potrebbe spalancare “dopo” Gheddafi. (…) Ma il terrore del “dopo” può essere un principio di paralisi se il “dopo” è pressoché ineluttabile. E non c’è peggiore impotenza politica dichi è prigioniero della nostalgia per il dittatore con cui si facevano ottimi affari. Nella stabilità perduta".
(Pierluigi Battista, Corriere della Sera, 30 marzo 2011)

23.10.11

Post-coloniali?

Rossana Rossanda (il manifesto)

Qualche osservazione.

Prima. Dunque l'assassinio del nemico non è un opzione perseguita dalla sola Israele ma dalle Nazioni Unite e da queste trasmessa alla Nato nell'accordo di tutti i governi. Giovedì sera, nel caos di informazioni e disinformazioni sulla fine di Gheddafi, una cosa era certa, che Gheddafi è stato catturato, ferito, trascinato per strada, linciato e, già coperto di sangue, ucciso. Dai ribelli, con la benedizione del loro comando e il "via" della Nato e dell'Onu.

Qualche mese fa gli Stati Uniti avevano spedito un commando di addestrati alla demenza, a penetrare urlando nella casa dove l'alleato Pakistan ospitava Bin Laden, e ad ammazzarlo, infermo e inerme, in camera da letto, senza che potesse far un gesto. Tutto lo stato maggiore di Obama assisteva all'operazione, il commando essendo dotato di cineprese. Obama s'è rallegrato sia dell'uccisione sia dei rottweiler del comando speciale, e nessuno si è vergognato. Che terroristi e dittatori vadano ammazzati da prigionieri e senza processo deve essere un nuovo articolo della Carta delle Nazioni Unite. Le virtuose democrazie danno licenza di uccidere piuttosto che consegnare i loro nemici al Tribunale penale internazionale, dove potrebbero rivelare i molti intrallazzi fatti assieme. Resta da qualche parte un lembo di diritto internazionale? Non lo vedo.

Seconda. Non credo da un pezzo, e l'ho scritto, alle dittature progressiste.
Come il "socialismo di mercato", sono un ossimoro che anche il manifesto ha fatto proprio. Si dà il caso che io sia fra i fondatori di questo giornale, ed è fra noi una divergenza non da poco. Viene da lontano, dagli anni '60 e '70 quando abbiamo creduto che alcuni paesi, specie "arretrati", potessero svolgere un ruolo mondiale positivo con un regime interno indecente. Famoso l'assioma dei "due tempi": prima demoliamo i monopoli stranieri e poi vedremo con la democrazia. Fino a sembrare una variante del pensiero socialista, l'antimperialismo. Concetto sempre più confuso dopo lo sfascio dell'Urss, la Russia restando "altro" dal comando Usa, la Cina diventando un gigante del capitalismo mondiale con relativo supersfruttamento della manodopera, Cuba restando soltanto antiamericana perché, ha detto sobriamente Fidel Castro, il modello cubano non ha funzionato.
Anche i regimi latino-americani sono in genere antimperialisti sì, socialisti no. Chissà che cosa vuol dire, in un mondo dove delle due superpotenze ne è rimasta una sola ma i candidati all'egemonia mondiale nei commerci, sulla schiena dei popoli propri e altrui, si moltiplicano. Non siamo ancora alle guerre commerciali ma alla corsa a chi arriva primo nella spartizione del bottino dei paesi terzi, diretti da qualche satrapo che ha preso l'eredità del colonialismo. Storie bizzarre di degenerazione, specie in Africa, dove diversi leader anticolonialisti, tolto di mezzo lo straniero, piuttosto che far crescere il loro paese si sono occupati di liquidare senza esitazione gli avversari interni.

Terza. Che una parte consistente dei relativi popoli sia venuta a sentirsi oppressa è non solo comprensibile ma giusto. Che nelle rivolte di una popolazione giovane, nella quale un pensiero politico non ha potuto circolare, si inseriscano le potenze predatrici esterne era da attendersi. Non è stata la sinistra ad abbattere i dittatori. Essa non abbatte più nessuno. La mancanza di un pensiero e una struttura capace di assicurarsi libertà politica e protezione sociale, si rivela drammatica una volta abbattuto o fuggito il "tiranno", perché c'è sempre un esercito, o una nuova borghesia, un vecchio fondamentalismo pronti a prenderne il posto. I popoli in rivolta sono presto spossessati, vedi Tunisia e Egitto.
L'Europa lo sa, ma di quel che succede sull'altra sponda del Mediterraneo si occupano gli affaristi, non i residui delle sinistre storiche né i germogli della sinistra nuova che cercano di emergere fuori dai muri delle istituzioni. Un vecchio amico ha protestato quando chiedevo che si riformasse qualcosa come le Brigate internazionali - ma che dici, la rivoluzione spagnola era una cosa seria, queste rivolte sono derisorie. Non ne sappiamo molto e ce ne importa ancora meno.

Anche noi abbiamo dovuto contare su alleati più potenti per abbattere il fascismo. Ma qualche struttura politica, qualche partito ha innervato la resistenza che ha potuto anche presentarsi alle forze alleate come possibile nucleo di una dirigenza democratica. Queste strutture politiche dovevamo aiutarle a formarsi, accompagnarle. Invece ieri sulla Tunisia, oggi sulla Libia, domani magari sulla Siria diamo i voti a chi sia il peggio: Gheddafi o la Nato? Il meglio ai non europei non appartiene.

28.8.11

Nell’ospedale dell’orrore tra i cadaveri dei mercenari

Dentro Abu Salim, ultima roccaforte dei lealisti: ci sono solo sangue e morte
MIMMO CANDITO

Ieri era venerdì, qui a Tripoli, il giorno di festa, e perfino la guerra sembrava essersi fermata. Nei posti di blocco i miliziani hanno cominciato a montare gli ombrelloni, per difendersi dal sole che picchia a 50 gradi, e il fuoco dei cannoni e dei Kalashnikov ha taciuto fino a notte, quasi spossato anch’esso dalla calura. Ma anche in questo silenzio irreale, lo sporco lavoro della guerra continuava. Nell’atrio dell’ospedale di Abu Salim, un centinaio di corpi lo ricordava ormai indifferente, disfacendosi come se la carne fosse ancora viva; erano tutti neri d’Africa, o quasi tutti, e nel puzzo dolciastro che rendeva l’aria irrespirabile una decina di volontari – la mascherina sulla bocca, i guanti di lattice, lunghi camicioni verdi fino a terra - li avvolgeva in grandi fogli di plastica, stringendoli con un legaccio alla testa e ai piedi e li ributtava a mucchio sui camion in attesa.

Miliardi di mosche ronzavano irritate per essere state disturbate dal loro pasto pingue, sulle pance aperte, sulle ferite mummificate nel sangue, sulle budella e i cervelli squarciati; e migliaia di piccoli vermi di color tenue brulicavano come impazziti di gioia sulle occhiaie succose dei morti che la calce non aveva ancora coperto. Vi fa schifo? Ah, ne sono felice, amaramente felice, perché quelle mosche dannate e quei vermi che mangiavano muovendosi con delizia sulla carne del cadavere facevano schifo anche a me, e volevo però, volevo, che voi ne condivideste il disgusto che ti acchiappa allo stomaco e non ti molla più che forse non ci dormi nemmeno; perché allora sì che lo schifo che qui vi obbligo a procurarvi dà finalmente un senso a questo sporco lavoro, di chi va in giro a raccontare la guerra e rischia però di trasformarla soltanto in uno show, dove ci sono i buoni e i cattivi, il pumpum da riprendere con telecamere bulimiche, e i soldati che si muovono come se recitassero.

La guerra fa questi morti, queste mosche insaziabili, questi vermi che si muovono oscenamente insensibili davanti a chi li osserva. Fa, la guerra, anche tutto quello che sono andato poi a vedere nell’ospedale di Abu Salim, ora che i miliziani hanno «ripulito» l’intero quartiere (a Tripoli ormai si combatte soltanto nella periferia di Salh alDhin e intorno all’aeroporto), con le teste aperte, le ginocchia frantumate, le ossa rotte, di chi è stato ferito e ancora non si è deciso a morire e riempie di sangue e di urla il pronto soccorso. Un pronto soccorso che è poco più di una stanza sporca di rosso e di polvere, dove i dottori si affannano a ricucire, tamponare, chiudere, stringere di legacci e di filo quello che la carne mostra in tutta la sua impazzita nudità.

Un ospedale di guerra è assai più di un ospedale. È un posto dove spesso si passa a morire, o – quando si è fortunati – si passa a lasciare un braccio, una gamba, anche tutt’e due le gambe. E io guardavo il disgraziato, poco più che un ragazzo, sporco di terra e della sporcizia di chi ha passato i giorni a combattere, che lo stavano tagliando per sperare di salvargli la vita. Una vita che, da ieri, per lui sarà per sempre diversa. Non ne so il nome, non posso dargli nemmeno la stupida popolarità d’una identità stampata sulla pagina d’un giornale straniero; ma certamente sarà una vita diversa. La giovane dottoressa che è venuta da Zawyia a portare il suo aiuto volontario aveva grandi occhi sbarrati di dolore; dirige un centro di pediatria e di psicologia infantile, non aveva mai visto nulla di simile. L’orrore le cambiava il volto, ma non piangeva. Si chiama Arabyia Gajun: «Non debbo e non voglio piangere, perché voglio poter sperare in un tempo migliore».

Perché toglierle le sue illusioni? perché dirle che deve prepararsi a un tempo difficile, a molte amarezze, a un negoziato che il Cnt e Gheddafi stanno conducendo nella oscurità mentre continua la caccia all’uomo, e forse il Colonnello è nascosto sottoterra come Saddam, o forse è nascosto ancora nel suo bunker, o forse è a Sebha, o a Sirte, o forse anche si è mascherato – come sempre faceva che nessuno ora lo riconosce? Perché dirglielo? La guerra costruisce montagne di illusioni e di speranze, apre i cuori e gli animi, lascia immaginare una palingenesi dove tutto si rinnova, si pulisce, odora di buono. «Voglio che sia finito questo orrore», e mi ha portato in una stanza accanto, che era più o meno fredda come dev’essere un posto dove si tengono i morti a non puzzare troppo. Su quattro lettighe, coperte da un foglio di plastica, quattro cadaveri facevano intravedere divise di militari e facce vuote; ma accanto alla finestra c’era un congelatore, di quelli bassi e larghi che s’usano in casa quando si hanno molte provviste da salvare.

«Aprilo, aprilo», mi incitava. Ho sollevato il coperchio, e dentro c’era il corpo di un soldato, ma con le gambe spezzate in modo innaturale, il corpo contorto per farlo stare dentro lo spazio angusto del congelatore, e la testa ruotata all’indietro di 180 gradi. Era un pupazzo sfasciato, ma un tempo era stato un uomo. «Doveva essere uno dell’Est europeo, Gheddafi lo ha fatto buttare qua dentro ancora vivo», e gli occhi sbarrati di quella faccia bianca di morte e di sofferenza, i capelli rossi d’un ucraino o d’un bulgaro, il dolore di uno spasmo bloccato in un lungo istante sospeso tra vita e morte, raccontavano un racconto che anche i lettori di un giornale devono imparare a conoscere come risultato della guerra. Sono andato allora a tentare di trovare almeno un respiro di misericordia, che rendesse più pulita questa giornata di schifezze e di orrore.

E alle 2 del pomeriggio, dopo che il lungo richiamo del muezzin aveva riempito l’aria di echi mistici, mi sono affacciato alla preghiera del venerdì (il sermone della «domenica» musulmana), nella più importante moschea di Tripoli, quella del maulaya Mohammed. Ad ascoltare l’imam non c’era molta gente, sembravano le chiese vuote delle nostre domeniche secolarizzate (più tardi, un anziano signore, alto e altero, un ex ufficiale di Marina mi spiegava in inglese: «La gente non ci crede, che sia davvero finita con Gheddafi, hanno ancora tutti paura»).

L’imam, giovane, la barbetta, gli occhiali ha parlato pianamente per un quarto d’ora, senza una retorica eccessiva, senza grandi sbalzi di tonalità. Ha raccontato che tutto quanto accade è volontà di Allah, che bisogna accettarlo, che dopo la tempesta viene il sereno. E che bisogna saper perdonare. Quando è sceso dalla scaletta gli ho chiesto: «Il progetto d’una nuova Costituzione chiede all’art. 1 che tutti i cittadini siano uguali, senza distinzione né di sesso né di religione. Lei è d’accordo?». Mi ha guardato, si è lisciato la barbetta, poi ha detto abbassando lievemente la testa: «Ma naturalmente, tutti uguali». Uomini e donne? gli ho chiesto. «Sì, uomini e donne». E musulmani e cristiani? gli ho chiesto ancora. «Sì, musulmani e cristiani». E si lisciava la barbetta. La guerra crea speranze e illusioni. Tutte le guerre, anche questa.

24.8.11

Libia, i dubbi del dopo-Gheddafi. E l’occidente dà già lezioni di democrazia

Per Usa ed Europa, è forte il rischio di un nuovo Iraq. Rovesciare i tiranni arabi è un gioco pericoloso, quando chi li sostituisce non è eletto dal popolo

di Robert Fisk (dal Fatto Quotidiano)

È stata la seconda notte insonne per i dittatori e i satrapi ancora al potere nel mondo arabo. Quanto ci vorrà perché i liberatori di Tripoli si trasformino per incanto nei liberatori di Damasco, di Aleppo e di Homs? O di Amman? O di Gerusalemme? O del Bahrain? O di Riad? Ovviamente si tratta di situazioni diverse e non assimilabili.
La primavera – estate – autunno dei Paesi arabi ha dimostrato non solo che le vecchie frontiere coloniali restano inviolate quale tremendo tributo all’imperialismo, ma che ogni rivoluzione ha le sue caratteristiche. Tutte le rivolte arabe hanno i loro martiri e le loro vittime, ma alcune ribellioni sono più violente di altre. Come ebbe a dire Saif al-Islam, figlio di Gheddafi, all’inizio della sua parabola discendente: “La Libia non è la Tunisia né l’Egitto… Qui ci sarà una guerra civile. Scorrerà il sangue per le strade”. E così è stato. Non ci resta che scrutare la sfera di cristallo.

La Libia sarà una superpotenza del Medio Oriente, a meno di imporre una sorta di occupazione economica in cambio dei bombardamenti della Nato che hanno contribuito a “liberare” il Paese e, svanita l’ossessione di Gheddafi per l’Africa centrale e meridionale, sarà un Paese meno africano e più arabo. Le sue libertà potrebbero contagiare il Marocco e l’Algeria. Entro certi limiti gli stati del Golfo saranno contenti visto che hanno sempre considerato Gheddafi mentalmente instabile, oltre che malvagio. Ma rovesciare i tiranni arabi è un gioco pericoloso, quando il loro posto viene preso da governanti arabi non eletti dal popolo.

Chi ricorda la guerra dimenticata del 1977 durante la quale Anwar Sadat inviò i suoi bombardieri per distruggere le basi aeree di Gheddafi – le stesse basi che la Nato ha bombardato negli ultimi mesi – dopo che Israele aveva avvertito il presidente egiziano che Gheddafi stava progettando il suo assassinio? Ma la dittatura di Gheddafi è stata di 30 anni più longeva di Sadat. Ma, non diversamente dagli altri, la Libia ha sofferto le conseguenze del cancro del mondo arabo: la corruzione finanziaria e morale. Il futuro sarà diverso? Abbiamo passato troppo tempo a lodare il coraggio dei “combattenti della libertà” libici che scorrazzavano per il deserto e troppo poco tempo ad esaminare la natura del mostro, dell’ambiguo Consiglio nazionale di transizione il cui presunto capo, Mustafa Abdul Jalil, non ci ha ancora spiegato se i suoi sono coinvolti nell’assassinio, avvenuto il mese scorso, del comandante militare delle forze ribelli.

L’Occidente ha già cominciato a dare lezioni di democrazia alla Nuova Libia dicendo con supponenza alla leadership politica libica, non eletta dalla popolazione, come evitare il caos che noi stessi abbiamo inflitto agli iracheni dopo averli “liberati” otto anni fa. Chi prenderà le mazzette nel nuovo regime – democratico o meno – una volta che si sarà insediato nella stanza dei bottoni? E così come tutti i nuovi regimi hanno nel loro seno personaggi oscuri del passato – la Germania di Adenauer quanto l’Iraq di Maliki – la Libia dovrà trovare una sistemazione per le tribù di Gheddafi.

Le scene della Piazza Verde erano dolorosamente simili al delirio delle folle di adoratori che appena qualche settimana prima inneggiavano a Gheddafi. Nel 1944, dopo la liberazione di Parigi, un aiutante di campo fece notare al generale De Gaulle che il numero di quelli che lo applaudivano era simile al numero di coloro che qualche settimana prima avevano applaudito Petain. Come è possibile? “Semplice” – rispose De Gaulle – “Ils sont les memes” (sono gli stessi), sembra abbia risposto il generale De Gaulle. Non tutti. Quanto tempo passerà prima che qualcuno bussi alla porta del sedicente moribondo Abdulbaset al-Megrahi, l’attentatore di Lockerbie – sempre che sia veramente colpevole – per scoprire il segreto della sua longevità e per capire che ruolo ha ricoperto nei servizi segreti di Gheddafi?

Quanto ci metteranno i liberatori di Tripoli a mettere le mani sugli archivi del ministro del Petrolio e del ministro degli Esteri di Gheddafi per scoprire i segreti delle romantiche storie d’amore del terzetto Blair – Sarkozy -Berlusconi con l’autore del Libro Verde? O saranno le spie britanniche e francesi a mettere le mani sui documenti segreti? E quanto tempo passerà prima che gli europei chiedano di sapere perché, se la Nato è stata così decisiva in Libia – come dichiarano ai quattro venti Cameron e i suoi alleati – non la si impiega contro le legioni di Assad in Siria servendosi di Cipro come base aerea allo scopo di distruggere gli 8mila carri armati e blindati del regime che assediano le città siriane?

O bisogna pensar male, pensare cioè che Israele si augura ancora segretamente (come aveva fatto vergognosamente nel caso dell’Egitto) che il dittatore siriano rimanga in sella, per poter firmare con lui la pace riguardante le alture del Golan? Israele, che ha reagito al risveglio arabo con ambiguità e immaturità. Ma perché diamine i politici israeliani non hanno accolto con gioia la rivoluzione araba, accogliendo a braccia aperte popoli che dicevano di volere la democrazia che Israele ha sempre auspicato e ha invece ucciso cinque soldati egiziani in occasione dell’ultimo scontro a fuoco a Gaza? Deve riflettere a lungo. Ben Ali liquidato. Mubarak liquidato. Saleh più o meno liquidato. Gheddafi rovesciato. Assad in pericolo. Abdullah di Giordania ancora alle prese con una combattiva opposizione. La monarchia sunnita che, da una posizione di minoranza governa il Bahrain, continua autolesionisticamente a pensare di poter conservare il potere in eterno.

A questi cataclismi della storia gli israeliani hanno risposto con una sorta di sgomenta, ostile apatia. Nel momento stesso in cui Israele dovrebbe dichiarare pubblicamente che i suoi vicini arabi vogliono solamente le libertà che Israele già ha – che c’è una fratellanza democratica che non conosce frontiere – di fatto continua a costruire insediamenti in terra araba e ad auto-delegittimarsi accusando il mondo di tentare di distruggere lo Stato israeliano. Ma in un’ora così critica non possiamo dimenticare l’Impero Ottomano.

All’apice del suo potere si poteva viaggiare dal Marocco a Costantinopoli senza passaporto. Se anche Siria e Giordania conquistassero la libertà, potremmo viaggiare dall’Algeria alla Turchia e poi in Europa senza nemmeno il visto. L’Impero Ottomano rinato! Non vale per gli arabi, ovviamente. Loro debbono sempre avere bisogno del visto. Ma non siamo ancora a quel punto. Quanto ci metteranno gli sciiti del Bahrain e le apatiche masse saudite sdraiate sopra montagne di denaro, a chiedere perchè non possono controllare il loro Paese e a scendere in piazza per rovesciare i loro governanti ormai vestigia di un tempo che fu?

Immaginiamo la tristezza con cui Maher al-Assad, fratello di Bashar e comandante della famigerata Quarta Brigata siriana, deve aver ascoltato l’ultima telefonata di Mohammed Gheddafi ad Al Jazeera. “Ci sono mancate saggezza e lungimiranza”, diceva con tono lamentoso Mohammed prima che la sua voce fosse sovrastata dal crepitio delle armi da fuoco. “Sono qui in casa!”. Poi: “Dio è grande”. E la linea è caduta. Ogni leader arabo non eletto dal popolo – o ogni leader musulmano “eletto” con elezioni farsa – avrà riflettuto ascoltando la voce di Mohammed Gheddafi. La saggezza è senza dubbio alcuno una qualità che scarseggia in Medio Oriente e la lungimiranza è una dote trascurata sia dagli arabi che dagli occidentali. Est e Ovest – ammesso che li si possa dividere così grossolanamente – hanno perso la capacità di pensare al futuro.

Contano solo le prossime 24 ore. Domani ci saranno delle manifestazioni di protesta a Hama? Che dirà Obama domani sera in televisione nell’ora di massimo ascolto? E Cameron cosa dirà al mondo? La teoria del domino è un inganno. La primavera araba è destinata a durare anni. Meglio che ci pensiamo e ci prepariamo. Non esiste la “fine della storia”.

© The Independent
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

I veleni in coda a una dittatura

Sergio Romano

Il regime di Gheddafi è virtualmente morto, ma potrebbe riservarci ancora qualche sorpresa. Non commettiamo l’errore di pensare che il Colonnello sia stato sempre impopolare. Le sortite nazionaliste e anti-occidentali piacevano a una parte della società libica e dell’opinione pubblica africana. I laici e i musulmani moderati approvavano il rigore con cui aveva combattuto e spento i focolai dell’islamismo radicale. Le straordinarie risorse naturali del Paese hanno arricchito il clan familiare del leader e creato una larga cerchia di profittatori, ma hanno anche consentito la nascita di nuovi ceti sociali, soprattutto negli apparati della pubblica amministrazione e dell’economia statale.

Accetteranno, senza opporre resistenza, di rinunciare a ciò che hanno conquistato? Non tutti coloro che hanno combattuto per lui negli scorsi mesi erano mercenari prezzolati o poveri soldati costretti dai loro ufficiali a morire per il capo. La guerra civile ha creato rancori che potrebbero riemergere nei prossimi mesi e minacciare la stabilità del Paese. Le tribù sono entità complesse e imprevedibili su cui abbiamo informazioni insufficienti. Quanto tempo sarà necessario perché la Libia possa considerarsi interamente pacificata? Dov’è, nelle file dei ribelli, la dirigenza che sarà in grado di assicurare la transizione? Fra coloro che andranno al potere dopo il crollo del regime, molti chiederanno giustizia. Il Tribunale penale internazionale, in particolare, sarà felice di affermare la propria competenza e sembra pronto a processare sia Gheddafi, se la sua vita non terminerà in un altro modo, sia i figli e altri membri del suo clan familiare.

Un processo a Gheddafi sarebbe una pietra miliare nella lunga strada verso la giustizia internazionale. Ma qualcuno ricorderà un brillante testo teatrale, pubblicato a Londra durante la Seconda guerra mondiale, in cui un uomo politico laburista, Michael Foot, mascherato sotto lo pseudonimo di Cassius, immaginava un processo a Mussolini dopo la fine del conflitto. Nel brillante pamphlet dell’autore la prima mossa dell’imputato era quella di chiamare sul banco dei testimoni tutti gli uomini politici britannici che lo avevano elogiato e adulato. Quanti uomini politici, soprattutto europei, verrebbero convocati all’Aja per rendere conto dei loro rapporti con il leader libico? La fine del regime di Gheddafi è una buona notizia. Ma se vogliamo che sia utile al futuro della Libia e più generalmente a quello dei Paesi dell’Africa del Nord, nessuna di queste domande può essere ignorata o sottovalutata. Non basta salutare la fine del tiranno, la vittoria del popolo, il trionfo della democrazia.

Occorre aiutare i libici a superare questa fase, a dotarsi di un governo credibile, a impegnarsi il più rapidamente possibile nella ricostruzione politica ed economica del Paese. La Nato ha fatto la guerra e dovrebbe dare un contributo alla pace. Ma dubito che abbia i mezzi e le competenze necessarie per un lavoro estraneo alla sua cultura e alle sue esperienze. Il compito quindi è dell’Europa e in particolare dei Paesi della regione, fra cui, in prima linea, l’Italia e la Francia. Ma saremo tanto più efficaci quanto più eviteremo di perseguire, come in passato, obiettivi e interessi individuali di corto respiro. Dall’unità dell’Europa dipende oggi il futuro della Libia.

9.3.11

Parlare chiaro

Rossana Rossanda (il Manifesto)

Al manifesto non riesce di dire che la Libia di Gheddafi non è né una democrazia né uno stato progressista, e che il tentativo di rivolta in corso si oppone a un clan familiare del quale si augura la caduta. Non penso tanto al nostro corrispondente, persona perfetta, mandato in una situazione imbarazzante a Tripoli e che ha potuto andare - e lo ha scritto - soltanto nelle zone che il governo consentiva, senza poter vedere niente né in Cirenaica, né nelle zone di combattimento fra Tripoli e Bengasi.

Perché tanta cautela da parte di un giornale che non ha esitato a sposare, fino ad oggi, anche le cause più minoritarie, ma degne? Non è degno che la gente si rivolti contro un potere che da quarant'anni, per avere nel 1969 abbattuto una monarchia fantoccio, le nega ogni forma di preoccupazione e di controllo? Non sono finite le illusioni progressiste che molti di noi, io inclusa, abbiamo nutrito negli anni sessanta e settanta? Non è evidente che sono degenerate in poteri autoritari? Pensiamo ancora che la gestione del petrolio e della collocazione internazionale del paese possa restare nelle mani di una parvenza di stato, che non possiede neanche una elementare divisione dei poteri e si identifica in una famiglia?

Ho proposto queste domande sul manifesto del 24 febbraio, senza ottenere risposta. Non è una risposta la nostalgia di alcuni di noi per un'epoca che ha sperato una terzietà nelle strettoie della guerra fredda. Né la nostalgia è sorte inesorabile degli anziani; chi ha più anni è anche chi ha più veduto come cambiano i rapporti di forza politici e sociali ed è tenuto a farsi meno illusioni. E se in più si dice comunista, a orientarsi secondo i suoi principi proprio quando precipitano equilibri e interessi.

Non che siamo solo noi, manifesto, a non sapere che pesci prendere davanti ai movimenti della sponda meridionale del Mediterraneo. Il governo francese ha fatto di peggio. Quello italiano ha consegnato al governo libico gli immigranti che cercavano di sbarcare a Lampedusa e dei quali non si ha più traccia. L'Europa, convinta fino a ieri che dire arabo significava dire islamista dunque terrorista, prima ha appoggiato alcuni despoti presunti laici - Gheddafi gioca ancora questa carta - poi si è rassicurata nel vedere le piazze di Tunisi e del Cairo zeppe di folle non violente, ha accolto con piacere l'appoggio alle medesime da parte dell'esercito tunisino e egiziano, e teme soltanto una invasione di profughi.

Ma la Libia non è né l'Egitto né la Tunisia. L'esercito è rimasto dalla parte del potere e la situazione s'è di colpo fatta drammatica. Ma chi, se non l'ottusità di Gheddafi, è responsabile se l'opposizione è diventata aspra, scinde la Cirenaica, cerca armi e il conflitto diventa guerra civile? Tra forze e ad armi affatto sproporzionate? E chi se non noi lo deve denunciare? Chi, se non noi, deve divincolarsi dal dilemma o ti lasci bombardare o di fatto chiami a una terza «guerra umanitaria», giacché gli Usa non desidererebbero altro? Sembra che la capacità di ragionare ci sia venuta meno.

La sinistra non può molto. Il manifesto, ridotti come siamo al lumicino, non può nulla se non alzare la voce con chiarezza e senza equivoci. C'è un'area enorme che si dibatte in una sua difficile, acerba emancipazione, che ha bisogno di darsi un progetto - non dico che dovremmo organizzare delle Brigate Internazionali, ma mi impressiona che nessuno abbia voglia di offrire a questo popolo un aiuto. Ricordate le corse giovanili degli anni sessantotto e settanta a Parigi, a Lisbona, a Madrid e a Barcellona? Dall'altra parte del Mediterraneo non ha fretta di andar nessuno, salvo i tour operator impazienti che finisca presto. Almeno su a chi dare simpatie e incoraggiamento non dovremmo esitare. Non noi.

5.3.11

Ipotesi sulla crisi libica

Valentino Parlato (il Manifesto)

Provo ad avanzare alcune ipotesi di lavoro sul vasto movimento di protesta che, percorrendo tutta l'Africa settentrionale, si affaccia sul Mediterraneo (soprattutto Tunisia ed Egitto e poi Libia), e si spinge fino ai paesi del Medio Oriente.
Il primo dato da sottolineare è che si tratta di un movimento fondamentalmente, se non esclusivamente, giovanile. Alla sua testa, ammesso e non concesso che questo movimento abbia un vertice di comando, non ci sono leader anziani e noti per il loro passato politico. Sottolineo: un movimento tutto di giovani. Qualcuno ha scritto di «primavera del mondo arabo».
Il secondo dato, importante anch'esso, è che si tratta di un movimento postislamista (sul pericolo di Al Qaeda, Gheddafi forse esagera). Il sociologo Oliver Roy, professore di studi mediterranei all'università di Firenze, su Le Monde del 12 febbraio scriveva: «Se facciamo attenzione a quelli che hanno scatenato il movimento è evidente che si tratta di una generazione postislamista. Per questi giovani i grandi movimenti rivoluzionari degli anni '70 '80 sono storia antica, dei loro antenati. Questa nuova generazione non è affatto ideologica, ha slogan assolutamente pragmatici e concreti («vattene, togliti dai piedi»). Non si appellano all'Islam come in Algeria facevano i loro predecessori alla fine degli anni '80. Esprimono innanzitutto un rifiuto delle dittature corrotte e una domanda di democrazia.
Il terzo dato, sul quale riflettere, è che - senza affatto svalorizzare questi movimenti - si tratta di ribellioni di giovani, senza una leadership riconosciuta, tale da assumere il potere. Tanto in Tunisia come in Egitto la costituzione di un nuovo governo ancora non c'è ed è solo l'esercito (che in Libia ha scarso peso) a coprire in qualche modo la vacanza di potere. Per dire - pur con la massima approssimazione - che in Tunisia come in Egitto non è ancora chiaro come andrà a finire.
In questo quadro di «primavera araba», la Libia non dico che è un caso a parte, ma ha certamente specificità proprie. In Libia, dove non ci sono le condizioni di miseria diffusa come in Tunisia ed Egitto, la ribellione - penso io - non ci sarebbe stata senza la Tunisia e l'Egitto: la ribellione giovanile di quei paesi ha scosso e mobilitato la gioventù libica, che - penso - altrimenti sarebbe rimasta ancora tranquilla, seppure in fermento. E, aggiungo, non tanto per paradosso, si potrebbe dire che la ribellione dei giovani libici sia stata promossa, certo inconsapevolmente, dallo stesso Gheddafi con le sue parole d'ordine sul governo del popolo, la democrazia diretta e il suo famoso Libretto Verde. In Libia c'è una sorta di paradosso: contro Gheddafi gridando il messaggio di Gheddafi. E Gheddafi - come ha detto al nostro inviato, Maurizio Matteuzzi, il vescovo di Tripoli monsignor Martinelli - è un beduino che piuttosto che mollare si fa uccidere o si suicida (qualcuno dovrebbe leggersi il suo racconto «Fuga all'Inferno» pubblicato dalla nostra Manifestolibri).
Gheddafi, nonostante l'età, resta un beduino colto e, anche se si deve alla sua attuale crisi, ha ritrovato la sua natura mandando al diavolo Berlusconi, con il quale aveva dato vita alla pagliacciata della sua ultima visita a Roma. Brutto errore quello.
Per tutte queste ragioni che ho qui, disordinatamente, avanzato, la questione Libia è più difficile e pericolosa. Una situazione difficile e pericolosa aggravata dalla ricchezza del petrolio che fa gola a tutti. Le navi Usa davanti alle coste libiche non sono affatto un buon segno. Negli Usa non c'è più Bush, che tentò più volte di ammazzare Gheddafi: ricordate il bombardamento della sua abitazione? Ora c'è Obama, ma anche lui pensa al petrolio e se (Gheddafi lo ha anche detto) quel petrolio dovesse andare alla Cina (migliaia di lavoratori cinesi sono in Libia) per lui, Obama, sarebbe una seria sconfitta. Una situazione difficile e pericolosa, più di quanto non si pensi. Siamo nel cosiddetto Mare Nostrum.
Quanto poi all'Italia, allo stato italiano mi sembra assurda la denuncia del Trattato di amicizia con la Libia. Lo stato libico ci sarà ancora, e oggi la denuncia del trattato appare vile e autolesionista. Non vogliamo più costruire la famosa autostrada, che peraltro darebbe lavoro alle imprese italiane? Vogliamo fare un regalo agli Usa? Piuttosto rinunciamo all'impegno imposto ai libici di bloccare i flussi migratori verso l'Italia. E Berlusconi non si dimentichi di aver, con esibizionismo, baciato la mano del diavolo Gheddafi. Gli italiani non lo dimenticheranno.

24.2.11

Illusioni progressiste

di Rossana Rossanda (il Manifesto)

Luciana Castellina fa la domanda giusta: come è successo che uomini e movimenti sui quali erano state riposte tante speranze ed erano stati magnifici nelle lotte di liberazione siano arrivati al punto di sollevare il rancore di tanta parte del loro popolo? Le rivolte nel Maghreb e nel Medio Oriente ci interpellano su questo. E così la reazione dei dirigenti al potere, specie di quelli che lo avevano preso con impeto progressista - il libico Muammar Gheddafi e il governo derivante dal Fln algerino.
Non è una domanda diversa da quella che dovremmo farci sul perché le rivoluzioni comuniste hanno subito la stessa sorte. Rispondere che Stalin era un mostro (Stalin e Hitler, stessa razza, tesi degli storici post 1989), e forse anche Lenin, e Mao un pazzo, è derisorio, e del resto non fa che spostare la domanda: perché masse immense e grandi cambiamenti hanno trovato in essi i loro leader? Nel caso di Gheddafi, con le sue uniformi rutilanti e i mantelloni da cavaliere del deserto, la convinzione di essere un liberatore e la disposizione ad ammazzare ed essere ammazzato, l'elemento di delirio è evidente, come i zigzag nei rapporti con le potenze occidentali e il terrorismo. Anche lui all'inizio non parve affatto demente, e non lo era.
Sarebbe interessante seguire alcune ipotesi, anche per l'immediato futuro dei movimenti che stanno scuotendo i paesi arabi. La prima è capire la natura illusoria di un anticolonialismo, spesso declinato come antimperialismo e, più raramente, anticapitalismo, affidato, in presenza di masse incolte, a un'avanguardia forte e risoluta, che più o meno transitoriamente prende il potere e, anche per mezzo di Costituzioni ad hoc, lo difende non solo dagli avversari ma anche contro chiunque lo critica, anche i suoi stessi compagni, vedendovi "oggettivamente" un nemico. E spesso lo è o lo diventa, perché una lotta anticoloniale non si svolge nel vuoto ma in presenza di grandi poteri politici ed economici, che intervengono in ogni spazio o contraddizione presente nel "processo rivoluzionario".
Il quale si difende con misure aspre, ma che sembrano giustificate anche ad osservatori esterni, perché la storia è complicata. Chi avrebbe detto che l'opposizione allo scia di Persia, Reza Palevi, sarebbe stata guidata da un movimento religioso fondamentalista? La Cia non lo aveva sospettato, e molti di noi si sono detti che, dunque, il progresso si fa anche per vie inaspettate, penso non solo al manifesto, ma a Michel Foucault. Invece sbagliavamo come sbagliano Chavez o Lula quando invitano Amadhinejad.
In questo errore è grande la responsabilità dell'Urss da quando difende soltanto i suoi interessi come stato, (e in essi a medio termine perde e si perde), ma anche dei partiti comunisti, che in essa e nelle sue politiche hanno visto la sola barriera rimasta dopo il fallimento delle rivoluzioni in Europa. Quando a Bandung, su iniziativa jugoslava, si delineò il blocco dei paesi non allineati, si deve individuare la causa della loro breve sopravvivenza soltanto nell'antipatia per essi nutrita dalle due superpotenze? Le loro intenzioni di pace erano forti, ma il loro modello sociale era debole. Molto più grave, la decolonizzazione passò presto - liquidati i Patrice Lumumba o Amilcar Cabral - attraverso la formazione di borghesie nazionali (anche su di esse per un certo tempo il movimento comunista sperò) o su forze che, partite anticapitaliste o progressiste attraverso forme di proprietà pubblica, presto soggiacquero o ai problemi di una crescita tutta statalizzata, lo stato ridotto alla sua espressione più rozza, ogni forma di controllo dal basso inesistente o,peggio, a forme diverse di corruzione. Libia e Algeria, in possesso di grandi fonti di energia, sono due esempi affatto diversi di un sequestro di potere che ha sottratto da ogni partecipazione le stesse popolazioni cui erogava alcuni servizi che ne facevano crescere i bisogni, ma che non ha mai coinvolto se non in una rete, più o meno trasparente, di affari o da appelli basati sull'emotività.
E sulle quali la mondializzazione ha indotto un doppio processo: coalizza al vertice le forze economiche, utilizzando gli stati come una agenzia di affari di ambigua proprietà, e produce una immensa massa di lavoratori sfruttati ma in parte crescente acculturati, e dotati di mezzi di comunicazione sconosciuti ai dannati della terra di quaranta anni fa: la folla in piazza Trahir era in possesso di telefonini e conosceva in buona parte Internet, attraverso la quale si era in buona parte formata. Gli sfruttati e oppressi di oggi non sono più gli umiliati e oppressi di allora. Né sono soltanto, come ci è piaciuto di credere dopo l'11 settembre, massa di manovra di imam fondementalisti. Questo nuovo tipo di proletariato - che tale è - non sta più facilmente ai progressismi dispotici, dai quali ha tratto in passato alcuni benefici. E' esso che ha invaso le piazze, che fa vacillare i regimi, che si è fatto scivolar di dosso l'egemonia dell'islamismo in una sua secolarizzazione, esclusion fatta per il potere della dinastia wahabita dell'Arabia saudita. E soprattutto degli ayatollah iraniani, capaci nel medesimo tempo di sviluppare e tenere in gabbia con un sistema del tutto inchiavardato una sia pur riluttante "società civile", cui non permetterà di certo i sussulti del mondo arabo.
In Tunisia e in Egitto sono solo gli eserciti i bizzarri e pericolosi mediatori fra potere e popolazione. Pericolosi, perché anch'essi sono una casta chiusa, e per sua natura fortemente gerarchizzata, nella quale non si dà alternativa fra obbedienza e insurrezione, insurrezione e obbedienza, una necessariamente di seguito all'altra. Non penso, come alcuni amici, che sia da proporsi una sorta di scontro permanente fra movimenti aperti e istituzioni chiuse, e tanto meno che lo sviluppo della persona possa darsi un perpetuo lasciarsi ogni contesto alle spalle, come su questo stesso giornale si suggeriva ai tunisini che sono sbarcati a Lampedusa. Forse qualcuno crescerà nell'esodo, ma non saprei proporre a chi ha appena sbarazzato il paese da una autocrazia di andarsene altrove, non occuparsi di ridare un senso al tessuto sociale da cui viene, e tanto meno di passare nel nostro continente, chiuso in un suo declino. In tutti i paesi dove una forma di dispotismo, ottuso o progressista, ha interdetto l'articolarsi in correnti e progetti di società e il misurarsi nel conflitto, una folla generosa ma atomizzata, e che tale voglia restare, sarà sempre prima o poi preda di un nuovo potere. Non per niente i totalitarismi vietano l'esistenza di corpi intermedi che non siano una loro diretta emanazione.
Il problema delle rivolte arabe - che forse non è giusto neppure chiamare tali - è di darsi forme di partiti e sindacati e regole e divisioni dei poteri che possano costituire leve reali di intervento sui regimi che sempre tendono a formarsi di nuovo. E' un problema anche nostro, e siamo lungi dall'averlo risolto se, nel caso italiano, siamo paralizzati da un personaggio di modesto livello come Berlusconi. C'è in occidente un malessere della democrazia rappresentativa che è impossibile ignorare. Ma non lo risolveremmo se scagliassimo qualche moltitudine su un Palazzo di Inverno; la storia dovrebbe averci insegnato anche questo. La domanda, spalancata oggi dalle folle vincenti di Tunisi e del Cairo, o dalle battaglie in atto in Libia, non è diversa da quella che è venuta maturando nella nostra desolante quotidianità.

8.5.09

Aggressione all'umanità, siamo all'avanguardia

Alessandro Dal Lago

Quando qualcuno, affamato, malato o bisognoso, bussa alla nostra porta, dovrebbe scattare un imperativo primordiale al soccorso. Questo almeno sostengono le mitologie religiose. L’umanità, prima ancora di un’astrazione filosofica, è l’espressione di questo riflesso. Anche se non crediamo al diritto naturale e tanto meno alla retorica dei diritti umani, soprattutto nell’epoca delle guerre umanitarie, sappiamo che il limite minimo della comune condizione umana è definito da quell’imperativo. Rinviando i barconi dei migranti in Libia, il governo italiano ha deciso di rinunciare di fatto e di diritto a qualsiasi minima considerazione umana. O meglio: ha stabilito che la cittadinanza, italiana o occidentale che sia, è il requisito indispensabile perché qualcuno sia trattato da essere umano. E dunque che abbia diritto a vivere, a essere curato e trattato come una persona.
Tra i migranti respinti senza nemmeno mettere piede sul nostro sacro suolo ci sono persone in fuga dalla guerra, dagli stermini e dalla fame. Impedendo loro persino di chiedere asilo e riconsegnandoli ai porti d’imbarco, l’Italia li condanna alla detenzione, alle angherie e, come è già documentato da anni, alla morte. Così nel nome della difesa paranoica della nostra purezza territoriale che accomuna la maggioranza di destra e parti consistenti dell’opposizione, noi rispediamo nel nulla i nostri fratelli, uomini, donne e bambini. Proprio come, a diecimila chilometri di distanza, in nome della nostra sicurezza, le nostre pallottole uccidono i bambini e le nostre bombe cancellano dalla faccia della terra cento civili in un colpo solo.
A questo punto, non c’è nemmeno bisogno di insistere nelle analisi. Il quadro appare chiaro. Dentro la nostra fortezza, norme discriminatorie, che si appoggiano a una cultura trionfante della delazione pubblica e privata, tengono in riga, nell’ombra e nello sfruttamento, gli stranieri di cui abbiamo bisogno. Fuori, c’è l’espulsione preliminare, concordata con la Libia.
Curiosi ricorsi storici: i nostri ex colonizzati, a suo tempo decimati e rinchiusi nei campi di concentramento di Graziani, si incaricano, in cambio di soldi, contratti e autostrade, di respingere e internare i profughi e gli affamati di un continente. Qui le leggi razziali, rispolverate da qualcuno, non c’entrano proprio. C’è invece quella linea, profonda come la faglia di Sant’Andrea, che separa il mondo sviluppato dal resto della terra. In un romanzo di Saramago, la penisola iberica si staccava dall’Europa. Ma ora è questa che scava un fossato incolmabile con la povertà esterna; la Lega è la punta estrema e paranoica di questa cultura del respingimento. E in Italia, ventre d’occidente, non valgono nemmeno le finzioni umanitarie di burocrati e giuristi europei. Qui da noi, mentre la stampa si affanna intorno ai casi privati del padrone, tutto è divenuto possibile. Ma ci si sbaglierebbe a credere che la nostra sia un’eccezione. Dopotutto, il fascismo è nato in una pianura tra le Alpi e gli Appennini. Oggi, l’Italia è l’avanguardia di un’aggressione all’umanità.
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