I nostri docenti sono pagati meno che negli altri Paesi. Investiamo meno della media europea in questo settore: solo la Slovacchia ha un dato peggiore
di Luigina D’Emilio
La pagella dell’Italia è negativa. Non riserva sorprese la pubblicazione del nuovo Rapporto Ocse sull’educazione “Education at a glance 2010″. Le 500 pagine che fanno il punto sull’istruzione dei 30 Paesi aderenti all’organizzazione per lo sviluppo economico, parlano chiaro: il nostro Paese spende solo il 4,5% del Pil nelle istituzioni scolastiche contro una media europea del 5,7%. Dietro di noi, tra i paesi industrializzati, solo la repubblica slovacca. Persino il Brasile, con il 5,2% e l’Estonia (5%) spendono di più.
Ogni anno il documento si arricchisce di nuovi indicatori che analizzano e confrontano lo stato dell’istruzione ai diversi livelli dei rispettivi sistemi scolastici, adulti compresi. Oltre alla percentuale della spesa per l’istruzione sul prodotto interno lordo, a rivelare in che condizioni è l’istruzione anche il numero degli stranieri iscritti all’università, il numero di ore di insegnamento dalle primarie alle secondarie superiori, gli stipendi dei docenti e il numero di allievi per classe. Nella scuola primaria il costo salariale per studente, è 2.876 dollari, 568 dollari in più della media Ocse, ma il salario medio dei docenti è inferiore di 497 dollari alla media Ocse che è di 34.496 dollari. A spingere in alto i costi sono le maggiori ore di istruzione (+534 dollari), il minore tempo di insegnamento (+202 dollari) e le dimensioni delle classi (+330 dollari).
Più nello specifico i docenti italiani sono pagati meno anche dopo aver raggiunto l’anzianità di servizio con 601 ore di insegnamento, che ci piazzano tra gli ultimi paesi anche in questo campo (media Ocse 703). Un maestro di scuola elementare che inizia con 26 mila dollari non supererà i 38 mila (media Ocse 48 mila), un professore di scuola media parte da 28mila per arrivare a un massimo di 42mila (51mila Ocse), mentre un docente di liceo a fine carriere arriva a 44mila (55mila Ocse).
Inutile dirlo l’Italia è sotto la media, anche se si guardano gli altri numeri. La situazione del nostro Paese, infatti, è tutt’altro che incoraggiante, la spesa pubblica nella scuola, raggiunge solo il 9% della spesa pubblica totale inclusi sussidi alle famiglie e prestiti agli studenti. Anche in questo caso il livello più basso tra i paesi industrializzati contro il 13,3% della media Ocse. Senza considerare che l’80% della spesa corrente è assorbito dalle retribuzioni del personale, docente e non, contro il 70% medio negli altri Paesi aderenti all’organizzazione.
A rimetterci sono le università. Sul rapporto si legge che la spesa media per studente inclusa l’attività di ricerca è 8.600 dollari contro i quasi tredici mila Ocse. Va meglio alle scuole primarie e secondarie con un investimento pro capite di 7.950 dollari contro lo standard individuato in 8.200. Ma la spesa cumulativa per uno studente dalla prima elementare alla maturità è di centouno mila dollari (contro 94.500 media Ocse), cui vanno aggiunti i trentanovemila dollari dell’università contro i cinquantatremila della media Ocse.
Ne risulta dunque che l’Italia investe ancora poco e male nell’istruzione con un contraccolpo importante per lo sviluppo economico. Lo stesso segretario generale dell’organizzazione Angel Gurria, durante la presentazione del rapporto, ha sottolineato come “ l’istruzione, mentre siamo alle prese con una recessione mondiale che continua a pesare sull’occupazione, costituisce un investimento essenziale per rispondere alle evoluzioni tecnologiche e demografiche che ridisegnano il mercato del lavoro”.
Ne trarrebbero beneficio anche le entrate fiscali, l’insegnamento stimolerebbe l’occupazione perché dice l’Ocse mediamente nei paesi dell’area un uomo con un diploma di scuola superiore genera 119.000 dollari in più di entrate fiscali e di contributi sociali rispetto ad un uomo diplomato della scuola secondaria. Mentre la concorrenza si intensifica sul mercato mondiale dell’istruzione, gli Stati, sottolinea l’organizzazione internazionale, devono puntare per i loro sistemi educativi ad una qualità di livello internazionale in modo da assicurare una crescita economica di lungo termine.
Ma il nostro è un Paese dove la percentuale degli abbandoni è ancora alta. Si sta sui banchi più degli altri, solo Israele ci supera e chi arriva alla fine degli studi non lo fa in ambito universitario, ma si ferma al diploma.
Anche se i dati in questione fanno riferimento al 2008, e non tengono conto delle novità intervenute, viene da chiedersi come possa il nostro Paese diventare più competitivo sul piano economico visto che la riforma Gelmini, con otto miliardi di euro di tagli spalmati in tre anni, mette l’istruzione italiana in ginocchio. Se poi si aggiungono i diecimila precari che rischiano il posto, le 3700 classi in meno dello scorso anno con ventimila alunni in più negli istituti, il conto è presto fatto. E non serviranno certo i prossimi dati Ocse per conoscere il futuro di un settore condannato al peggioramento.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
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8.9.10
7.11.09
Ocse. Ripresa effimera
di Galapagos
Prudenti previsioni d’un possibile miglioramento della congiuntura. Ma la crisi è solo congiunturale?
Da Parigi l'Ocse ci ha informati che il superindice dell'economia (una sorta di termometro) rileva «forti segnali di crescita in Italia, Francia, Gran Bretagna e Cina». A palazzo Chigi, Berlusconi come una molla ha rilanciato il dato Ocse e i suoi fedeli hanno calcato la mano, sostenendo che la sinistra dovrebbe vergognarsi di spargere allarmismo e riconoscere la bontà dell'azione di governo che sta portando l'Italia fuori delle secche della crisi.
Nessun dubbio che i dati Ocse siano positivi. Ma l'organizzazione parigina dice anche: stiamo attenti. E chiede di leggere i dati con cautela perché - è la sintesi - potrebbero nascondere non tanto una forte crescita, ma una crescita modesta rispetto al potenziale di lungo termine. Come dire: non c'è solo «un miglioramento dell'attività economica», ma più verosimilmente un attenuarsi del sentiero di crescita. Insomma, l'economia torna a salire, ma a livelli infimi. E non a caso, l'Italia tornerà - se tutto va bene - agli stessi livelli del Pil del 2007 soltanto nel 2013.
Sostiene l'Ocse che «una ripresa è chiaramente visibile negli Stati uniti». Vero: lo conferma il dato positivo del Pil nel terzo trimestre. Ma non tutto fila liscio e la conferma è arrivata ieri: in ottobre sono stati distrutti altri 190 mila posti di lavoro e le persone in cerca di occupazione sono ulteriormente aumentate, toccando quota 15,7 milioni, 558 mila in più in un solo mese. Il comunicato diffuso dal dipartimento al lavoro ci dice che dall'inizio della recessione (dicembre 2007) sono stati distrutti 8,2 milioni di posti di lavoro e il tasso di disoccupazione è salito al 10,2%.
Alcuni giorni fa, dagli Usa avevamo anche saputo che la produttività sta salendo a ritmi pazzeschi, mentre i salari stanno diminuendo. Bene per i profitti, malissimo per l'economia. Non solo per gli effetti sociali, ma anche per quelli più economici: la crescente disoccupazione e la riduzione dei salari, stanno portando a una contrazione della domanda, esaltata solo da quella dei consumi di «lusso». Anche gli investimenti ristagnano: perché quando la domanda di consumi è bassa, la produttività in crescita e la capacità produttiva inutilizzata a livelli storicamente molto alti, le imprese non sentono il bisogno di investire.
Noriel Roubini, l'unico economista ad aver previsto la crisi, nei giorni scorsi con un saggio (pubblicato in Italia da Sole 24 ore) ha messo in guardia da questo tipo di ripresa e dalle follie finanziarie che stanno gonfiando nuove bolle speculative. Il messaggio è chiaro: senza una ripresa dell'economia reale, questa (ripresa) sarà effimera, di breve durata. Ma come fare per consolidarla, senza ripercorrere il vecchio modello di sviluppo che inevitabilmente condurrà a nuove crisi? Per Keynes certe decisioni di investimento non possono essere lasciate in mano al capitale privato. Senza essere così «estremisti» e pretendere la socializzazione dei mezzi di produzione, di spazio per la mano pubblica ce n'è in abbondanza. Per favorire la ripresa dell'accumulazione privata, sostituirla, se assente (anziché tagliare risorse come per la banda larga) e stimolare i consumi pubblici.
Prudenti previsioni d’un possibile miglioramento della congiuntura. Ma la crisi è solo congiunturale?
Da Parigi l'Ocse ci ha informati che il superindice dell'economia (una sorta di termometro) rileva «forti segnali di crescita in Italia, Francia, Gran Bretagna e Cina». A palazzo Chigi, Berlusconi come una molla ha rilanciato il dato Ocse e i suoi fedeli hanno calcato la mano, sostenendo che la sinistra dovrebbe vergognarsi di spargere allarmismo e riconoscere la bontà dell'azione di governo che sta portando l'Italia fuori delle secche della crisi.
Nessun dubbio che i dati Ocse siano positivi. Ma l'organizzazione parigina dice anche: stiamo attenti. E chiede di leggere i dati con cautela perché - è la sintesi - potrebbero nascondere non tanto una forte crescita, ma una crescita modesta rispetto al potenziale di lungo termine. Come dire: non c'è solo «un miglioramento dell'attività economica», ma più verosimilmente un attenuarsi del sentiero di crescita. Insomma, l'economia torna a salire, ma a livelli infimi. E non a caso, l'Italia tornerà - se tutto va bene - agli stessi livelli del Pil del 2007 soltanto nel 2013.
Sostiene l'Ocse che «una ripresa è chiaramente visibile negli Stati uniti». Vero: lo conferma il dato positivo del Pil nel terzo trimestre. Ma non tutto fila liscio e la conferma è arrivata ieri: in ottobre sono stati distrutti altri 190 mila posti di lavoro e le persone in cerca di occupazione sono ulteriormente aumentate, toccando quota 15,7 milioni, 558 mila in più in un solo mese. Il comunicato diffuso dal dipartimento al lavoro ci dice che dall'inizio della recessione (dicembre 2007) sono stati distrutti 8,2 milioni di posti di lavoro e il tasso di disoccupazione è salito al 10,2%.
Alcuni giorni fa, dagli Usa avevamo anche saputo che la produttività sta salendo a ritmi pazzeschi, mentre i salari stanno diminuendo. Bene per i profitti, malissimo per l'economia. Non solo per gli effetti sociali, ma anche per quelli più economici: la crescente disoccupazione e la riduzione dei salari, stanno portando a una contrazione della domanda, esaltata solo da quella dei consumi di «lusso». Anche gli investimenti ristagnano: perché quando la domanda di consumi è bassa, la produttività in crescita e la capacità produttiva inutilizzata a livelli storicamente molto alti, le imprese non sentono il bisogno di investire.
Noriel Roubini, l'unico economista ad aver previsto la crisi, nei giorni scorsi con un saggio (pubblicato in Italia da Sole 24 ore) ha messo in guardia da questo tipo di ripresa e dalle follie finanziarie che stanno gonfiando nuove bolle speculative. Il messaggio è chiaro: senza una ripresa dell'economia reale, questa (ripresa) sarà effimera, di breve durata. Ma come fare per consolidarla, senza ripercorrere il vecchio modello di sviluppo che inevitabilmente condurrà a nuove crisi? Per Keynes certe decisioni di investimento non possono essere lasciate in mano al capitale privato. Senza essere così «estremisti» e pretendere la socializzazione dei mezzi di produzione, di spazio per la mano pubblica ce n'è in abbondanza. Per favorire la ripresa dell'accumulazione privata, sostituirla, se assente (anziché tagliare risorse come per la banda larga) e stimolare i consumi pubblici.
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Il paese dei nonostante
di Roberto Cotroneo
Non si può che apprezzare quanto dice l'Ocse sull'Italia. Ovvero che l'Italia è il Paese che mostra l'incremento economico maggiore su base annua (+10,8 punti), con un'economia giudicata "in espansione", mentre su base mensile si registra un +1,3. Va bene che abbiamo superato il Pil della Gran Bretagna e bisogna dare atto a Giulio Tremonti che il tempo gli ha dato ragione. Solo che questo è un inizio che ha bisogno di interventi radicali e molto forti. Ce la stiamo facendo, e secondo l'Istat le famiglie italiane tornano ad avere fiducia, ma con una serie di nonostante che vanno analizzati e vagliati. Nonostante un'economia sommersa al sud che si appoggia in buona parte alla malavita organizzata e strozza e toglie aria e possibilità a una parte del paese. Nonostante una evasione fiscale impressionante, che non ha paragoni con nessun paese civile del mondo, e che non può essere più tollerabile. Nonostante una volontà di progettare il futuro pari a zero sulle cose che contano: sulla ricerca, soprattutto, e sull'innovazione tecnologica. Nonostante il voler trasferire il peso, il centro dell'ossatura economica del paese, in quella piccola e media (ma più piccola che media) industria che è certamente una risorsa per il paese, ma non contribuisce a farlo crescere. E questo per mentalità, per cultura e per assenza di know how. Ma soprattutto nonostante una scuola e una università per buona parte inadeguata dagli anni Settanta in poi a formare talenti e classi dirigenti nel nostro paese.I nonostante che sto elencando hanno colpe antiche, e non certo colpe recenti. Ora bisogna responsabilmente mettersi tutti a lavorare per il futuro, nei settori della creatività e della new economy. Basta andarsi a leggere con attenzione un documento del "Departement for culture, media and sport" del Governo Britannico che si intitola: "New Talents for the New Economy". Ottanta pagine fitte e interessantissime, introdotte da Gordon Brown, per capire come indirizzare i talenti del paese, e come dare slancio e rilancio all'economia. Basti rileggersi i saggi di Richard Florida sulle tre "T": talent, technology and tolerance, per capire dove si dovrebbe andare. Ma intanto, come dicevamo ieri, l'espansione della banda larga viene completamente tagliata dal Governo. E la modernità culturale di questo paese può aspettare.
Non si può che apprezzare quanto dice l'Ocse sull'Italia. Ovvero che l'Italia è il Paese che mostra l'incremento economico maggiore su base annua (+10,8 punti), con un'economia giudicata "in espansione", mentre su base mensile si registra un +1,3. Va bene che abbiamo superato il Pil della Gran Bretagna e bisogna dare atto a Giulio Tremonti che il tempo gli ha dato ragione. Solo che questo è un inizio che ha bisogno di interventi radicali e molto forti. Ce la stiamo facendo, e secondo l'Istat le famiglie italiane tornano ad avere fiducia, ma con una serie di nonostante che vanno analizzati e vagliati. Nonostante un'economia sommersa al sud che si appoggia in buona parte alla malavita organizzata e strozza e toglie aria e possibilità a una parte del paese. Nonostante una evasione fiscale impressionante, che non ha paragoni con nessun paese civile del mondo, e che non può essere più tollerabile. Nonostante una volontà di progettare il futuro pari a zero sulle cose che contano: sulla ricerca, soprattutto, e sull'innovazione tecnologica. Nonostante il voler trasferire il peso, il centro dell'ossatura economica del paese, in quella piccola e media (ma più piccola che media) industria che è certamente una risorsa per il paese, ma non contribuisce a farlo crescere. E questo per mentalità, per cultura e per assenza di know how. Ma soprattutto nonostante una scuola e una università per buona parte inadeguata dagli anni Settanta in poi a formare talenti e classi dirigenti nel nostro paese.I nonostante che sto elencando hanno colpe antiche, e non certo colpe recenti. Ora bisogna responsabilmente mettersi tutti a lavorare per il futuro, nei settori della creatività e della new economy. Basta andarsi a leggere con attenzione un documento del "Departement for culture, media and sport" del Governo Britannico che si intitola: "New Talents for the New Economy". Ottanta pagine fitte e interessantissime, introdotte da Gordon Brown, per capire come indirizzare i talenti del paese, e come dare slancio e rilancio all'economia. Basti rileggersi i saggi di Richard Florida sulle tre "T": talent, technology and tolerance, per capire dove si dovrebbe andare. Ma intanto, come dicevamo ieri, l'espansione della banda larga viene completamente tagliata dal Governo. E la modernità culturale di questo paese può aspettare.
21.10.08
Ocse, l'Italia tra i peggiori per la disuguaglianza economica
Secondo il rapporto 'Growing Unequal' nel nostro Paese dagli anni '80 a oggiil gap tra le classi sociali è cresciuto del 33% contro la media del 12%
Le differenze, dimostra un'indagine Coldiretti, emergono anche a tavola
Crescono infatti da un lato gli acquisti di prodotti a basso prezzo e dall'altro di alta qualità
di ROSARIA AMATO
Negli ultimi anni in Italia si è pesantemente aggravato il divario tra ricchi e poveri. Secondo il rapporto dell'Ocse Growing Unequal?, che analizza la distribuzione del reddito e la povertà all'interno dei 30 Paesi che compongono l'organizzazione, l'Italia è infatti al sesto posto per il gap tra le classi sociali, dopo Messico, Turchia, Portogallo, Stati Uniti e Polonia.
La disuguaglianza economica è cresciuta del 33 per cento dalla metà degli anni Ottanta a oggi, contro una media Ocse del 12 per cento. Un dato sul quale hanno inciso pochissimo le recenti misure adottate a favore dei più poveri, che pure gli autori del Rapporto elogiano, sottolineando come solo tre Paesi Ocse, tra i quali appunto l'Italia, negli ultimi 10 anni abbiano varato misure per sostenere i redditi più bassi. Ma le misure non hanno inciso nel dato di fondo: "I ricchi hanno beneficiato maggiormente della crescita sociale rispetto ai poveri o alle classi medie".
La povertà favorisce naturalmente l'esclusione, e pertanto la mobilità tra le classi sociali "è più bassa in Italia rispetto a paesi come l'Australia o la Danimarca. - si legge nel rapporto - I figli di genitori poveri hanno molte meno probabilità di accedere alla ricchezza". La ricchezza è distribuita in modo anche più diseguale delle entrate: infatti in Italia il 10 per cento dei più abbienti possiede il 42 per cento della ricchezza totale e il 28 per cento delle entrate globali.
In effetti dal rapporto Ocse emerge un generale aumento della disuguaglianza in tutti i Paesi del mondo. Il gap si è allargato, oltre che in Italia, anche in Canada e in Germania, mentre è diminuito in Messico, Grecia e Regno Unito. Ma in Italia i dati di riferimento sono notevolmente peggiori: "Il reddito medio del 10 per cento degli italiani più poveri è di circa 5000 dollari (l'equivalente di circa 3770 euro ndr), tenuto conto della parità del potere di acquisto, quindi sotto la media Ocse di 7000 dollari (l'equivalente di circa 5280 euro, ndr). Il reddito medio del 10 per cento più ricco è circa 55000 dollari (l'equivalente di circa 41500 euro, ndr), sopra la media Ocse".
In Italia si è registrato, rileva l'Ocse, una riduzione del tasso di povertà dei bambini, che tra la metà degli anni Novanta e il 2005 è diminuito dal 19 al 15 per cento. Solo nel Regno Unito si è avuto un calo di queste dimensioni, si legge nel rapporto: però un tasso di povertà infantile del 15 per cento "è ancora sopra il tasso medio Ocse del 12 per cento".
Le disuguaglianze di reddito e ricchezza si riflettono anche a tavola. Da un'indagine Coldiretti - Swg sui consumi alimentari emerge infatti che la crisi economica sta provocando una polarizzazione nei consumi alimentari e se da un lato cresce in numero di quanti sono costretti a ricercare prodotti a più basso prezzo, dall'altro si assiste ad un consolidamento della domanda di prodotti di alta qualità, tradizionalmente acquistati da fasce di cittadini a più alto reddito.
"La metà di coloro che hanno cambiato le proprie abitudini alimentari per effetto della crisi economica lo hanno fatto - sottolinea la Coldiretti - cambiando i luoghi della spesa a favore di bancarelle ed hard discount e modificando il tipo di alimenti acquistati con conseguenze sulla dieta e sulla qualità dell'alimentazione. Ma dall'altra parte, aumenta la domanda di prodotti di elevata qualità e cresce dell'8 per cento la percentuale dei cittadini che acquista regolarmente prodotti a denominazione di origine (sono il 28 per cento) e del 23 per cento di quelli che comperano cibi biologici, i quali però interessano una fetta più ridotta della popolazione (il 16 per cento)".
repubblica.it
Le differenze, dimostra un'indagine Coldiretti, emergono anche a tavola
Crescono infatti da un lato gli acquisti di prodotti a basso prezzo e dall'altro di alta qualità
di ROSARIA AMATO
Negli ultimi anni in Italia si è pesantemente aggravato il divario tra ricchi e poveri. Secondo il rapporto dell'Ocse Growing Unequal?, che analizza la distribuzione del reddito e la povertà all'interno dei 30 Paesi che compongono l'organizzazione, l'Italia è infatti al sesto posto per il gap tra le classi sociali, dopo Messico, Turchia, Portogallo, Stati Uniti e Polonia.
La disuguaglianza economica è cresciuta del 33 per cento dalla metà degli anni Ottanta a oggi, contro una media Ocse del 12 per cento. Un dato sul quale hanno inciso pochissimo le recenti misure adottate a favore dei più poveri, che pure gli autori del Rapporto elogiano, sottolineando come solo tre Paesi Ocse, tra i quali appunto l'Italia, negli ultimi 10 anni abbiano varato misure per sostenere i redditi più bassi. Ma le misure non hanno inciso nel dato di fondo: "I ricchi hanno beneficiato maggiormente della crescita sociale rispetto ai poveri o alle classi medie".
La povertà favorisce naturalmente l'esclusione, e pertanto la mobilità tra le classi sociali "è più bassa in Italia rispetto a paesi come l'Australia o la Danimarca. - si legge nel rapporto - I figli di genitori poveri hanno molte meno probabilità di accedere alla ricchezza". La ricchezza è distribuita in modo anche più diseguale delle entrate: infatti in Italia il 10 per cento dei più abbienti possiede il 42 per cento della ricchezza totale e il 28 per cento delle entrate globali.
In effetti dal rapporto Ocse emerge un generale aumento della disuguaglianza in tutti i Paesi del mondo. Il gap si è allargato, oltre che in Italia, anche in Canada e in Germania, mentre è diminuito in Messico, Grecia e Regno Unito. Ma in Italia i dati di riferimento sono notevolmente peggiori: "Il reddito medio del 10 per cento degli italiani più poveri è di circa 5000 dollari (l'equivalente di circa 3770 euro ndr), tenuto conto della parità del potere di acquisto, quindi sotto la media Ocse di 7000 dollari (l'equivalente di circa 5280 euro, ndr). Il reddito medio del 10 per cento più ricco è circa 55000 dollari (l'equivalente di circa 41500 euro, ndr), sopra la media Ocse".
In Italia si è registrato, rileva l'Ocse, una riduzione del tasso di povertà dei bambini, che tra la metà degli anni Novanta e il 2005 è diminuito dal 19 al 15 per cento. Solo nel Regno Unito si è avuto un calo di queste dimensioni, si legge nel rapporto: però un tasso di povertà infantile del 15 per cento "è ancora sopra il tasso medio Ocse del 12 per cento".
Le disuguaglianze di reddito e ricchezza si riflettono anche a tavola. Da un'indagine Coldiretti - Swg sui consumi alimentari emerge infatti che la crisi economica sta provocando una polarizzazione nei consumi alimentari e se da un lato cresce in numero di quanti sono costretti a ricercare prodotti a più basso prezzo, dall'altro si assiste ad un consolidamento della domanda di prodotti di alta qualità, tradizionalmente acquistati da fasce di cittadini a più alto reddito.
"La metà di coloro che hanno cambiato le proprie abitudini alimentari per effetto della crisi economica lo hanno fatto - sottolinea la Coldiretti - cambiando i luoghi della spesa a favore di bancarelle ed hard discount e modificando il tipo di alimenti acquistati con conseguenze sulla dieta e sulla qualità dell'alimentazione. Ma dall'altra parte, aumenta la domanda di prodotti di elevata qualità e cresce dell'8 per cento la percentuale dei cittadini che acquista regolarmente prodotti a denominazione di origine (sono il 28 per cento) e del 23 per cento di quelli che comperano cibi biologici, i quali però interessano una fetta più ridotta della popolazione (il 16 per cento)".
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