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3.11.19

L’inciviltà diffusa (e nessuno se ne occupa)

Capita ormai ogni giorno di dovere sottostare ai comportamenti offensivi, aggressivi, illegali, talora violenti, di troppi nostri concittadini

di Ernesto Galli della Loggia (Corriere)

Non si tratta solo di Roma. Della Roma criminale che ha visto l’ennesimo omicidio per una storia di droga. È un clima generale quello che ormai in Italia rende sempre più difficile per tutti affrontare la fatica della vita quotidiana.

Sempre di più, infatti, capita ogni giorno di dover sottostare ai comportamenti offensivi, aggressivi, illegali, talora violenti, di troppi nostri concittadini. Specie nei centri urbani e nelle grandi città siamo circondati da persone che sui mezzi pubblici, sui treni, si abbandonano a comportamenti incivili e arroganti, si divertono a danneggiare sedili, panchine, cassonetti e cestini dei rifiuti, cartelli stradali e quant’altro, a scrivere sui muri qualunque cosa, a sporcare parchi e strade; che negli alloggi in specie dell’edilizia popolare se ne infischiano di qualsiasi regola; che la sera schiamazzano fino a tardi nei luoghi della movida, che addirittura non esitano a fare i loro bisogni in pubblico. Siamo alle prese in ogni momento con automobilisti e motociclisti che soprattutto la sera passano ai semafori con il rosso, rompono i timpani con le loro sgassate e accelerazioni repentine o con le loro autoradio a tutto volume: e anche loro come tutti gli altri, se qualcuno osa protestare non ci pensano un secondo ad aggredirlo minacciando di passare alle vie di fatto. Si aggiungono le molte periferie dove in pratica la sera scatta il coprifuoco, dove specie per le donne è un rischio avventurarsi a piedi.

Ancora: intere zone delle città sequestrate dallo spaccio a causa di quell’uso ormai di massa delle sostanze stupefacenti denunciato qualche giorno fa da Antonio Polito proprio sul Corriere(8 milioni di consumatori!), per finire gli atti più o meno gravi ma innumerevoli di bullismo spicciolo, i mille disgusti e irritazioni frutto della micro violenza diffusa dovunque. Insomma qui da noi la vita sociale moderna — che anche se accresce la solitudine reale degli individui tuttavia moltiplica i contatti interpersonali — rende sempre più evidente un dato: la maleducazione diffusa, l‘istinto di sopraffazione, il disprezzo delle regole, che sembrano ormai radicati e quasi congeniti in Italia. Non a caso molti studiosi parlano di un deficit storico nella Penisola di «disciplinamento sociale», cioè di quel processo storico che — grazie soprattutto all’azione delle Chiese e dello Stato assoluto — ha fatto sì che all’inizio dell’età moderna, tra ‘5 e ‘600, cominciasse a svilupparsi nelle masse una capacità di autoregolazione dei propri comportamenti in obbedienza a norme imposte dall’alto per esigenze di ordine e di convivenza, di un minimo di disciplinamento dei rapporti sociali e dei costumi. In Italia, però, tale processo, per ragioni che qui è inutile indagare, ha avuto una portata debole e limitata. Siamo rimasti una popolazione tra le più ineducate del continente, con una scarsa propensione alla civile convivenza, al rispetto verso gli altri. In generale con un’ancora più scarsa attitudine ad obbedire alle regole e ai comandi dell’autorità. È il noto anarchismo del carattere italiano, si dice, quasi a mo’ di giustificazione. Ma non è così: si tratta piuttosto di sciatto menefreghismo e d’indifferenza sprezzante, d’ incapacità di rinunciare al gesto violento e all’intimidazione non appena si capisca che ce lo si può permettere.

Non appena si capisca cioè che non si rischia nulla. Questo è il punto decisivo. Storicamente infatti il disciplinamento sociale di cui sto parlando è stato anche il prodotto di un sistema di sanzioni, spesso anche assai dure. Oggi quell’antico sistema è stato ovviamente cancellato, ma non è scomparso, anzi si è in un certo senso di molto accresciuto il bisogno di regole di convivenza e dei modi di farle rispettare. È vero, formalmente un sistema di sanzioni esiste anche oggi, ma esso scatta solo quando si arriva a fattispecie di reato particolarmente gravi. Di fatto, chi imbratta un muro o urina all’angolo di una strada, chi danneggia una panchina o tiene un’autoradio a un volume assordante, chi minaccia di aggredire lo sventurato che in una di queste occasioni osa protestare, è sicuro della più assoluta impunità. Non solo ma anche quando si arriva alla sanzione, questa o è di natura pecuniaria e finisce virtualmente in un niente, ovvero si risolve in una condanna penale che grazie ai tre gradi di giudizio, alla prescrizione, alla virtuale assenza di detenzione fino a quattro anni, fa in pratica la stessa fine. È giusto? È giusto, soprattutto, mi chiedo, che a subire le conseguenze di tutto questo siano soprattutto le fasce più deboli della popolazione, le donne e le persone anziane, chi vive nelle periferie o è più a contatto con situazioni di degrado?

Per tutta una serie di comportamenti diciamo così asociali, di violenza minuta ma di forte impatto anche emotivo sulla qualità della vita quotidiana, un legislatore intelligente avrebbe da tempo pensato a un sistema sanzionatorio specifico, diverso e più efficace rispetto a quello generale vigente per le violazioni della legge più gravi. E se del caso avrebbe anche pensato a proporre i necessari cambiamenti del dettato costituzionale (ricordo che ne sono stati introdotti a decine). Avrebbe insomma fatto qualcosa invece dell’inerzia che domina sovrana.

Un’inerzia e un’indifferenza che non riguardano solo i legislatori in senso stretto, vale a dire i politici. Infatti sollevare questi problemi — che, ripeto, sono i problemi che milioni d’italiani avvertono quotidianamente con maggiore angustia — produce abitualmente in tutta la classe dirigente del Paese, a cominciare dai soloni accreditati del discorso pubblico, dai padroni dei talk show che vanno per la maggiore e dagli intellettuali pensosi della sorte della democrazia, l’unico effetto di un’alzata di spalle o nel caso migliore di una sorta di benevolo cenno di consenso destinato a lasciare invariabilmente il tempo che trova. Non ci si rende conto che però così facendo si scherza davvero con il fuoco, che la richiesta di vivere in pace e al riparo dalla prepotenza, non è una richiesta «securitaria», non è l’anticamera di alcuna «onda nera». Che semmai proprio non facendo nulla si lascia tutta questa materia infiammabile a disposizione della demagogia e delle sue pericolose tentazioni. Non sarebbe in fin dei conti un ottimo antidoto al deprecato populismo decidere di occuparsi un po’di meno delle battute di Renzi e delle felpe di Salvini e un po’ di più del popolo?

29.1.17

Alla protezione civile non servono nuove regole ma più controlli

Roberta Carlini (Internazionale)

“Sarà una riforma storica”. Con queste parole il ministro Graziano Delrio aveva benedetto l’inizio dell’iter in parlamento della riforma della protezione civile. Era il 15 marzo 2015. Quel testo, approvato dalla camera il 23 settembre 2015, solo in questi giorni, a sei mesi dall’inizio dell’emergenza terremoto in Italia centrale, è arrivato in aula in senato.
Anche qualora vedesse la luce in poche settimane, occorrerebbe poi aspettare nove mesi per avere i relativi decreti delegati, insomma l’attuazione pratica. Motivo per cui i veri interventi legislativi “urgenti”, a ridosso dell’emergenza di queste settimane, arriveranno per decreto legge del governo entro la prossima settimana, come ha annunciato in senato il presidente del consiglio Paolo Gentiloni.
Avremo così il sesto intervento legislativo sulla materia dal 1992, anno in cui la protezione civile fu istituita, in attesa del settimo, la riforma storica (senza contare il codice degli appalti, che a sua volta incide sulla materia).
Come una fisarmonica
Si può dire, che a ogni inizio decennio lo stato italiano ha visto in modo diverso il concetto di protezione, tant’è che lo stesso campo d’azione della protezione civile si è allargato e ristretto come una fisarmonica: con la legge del 1992, che poneva come oggetto del nuovo servizio “tutelare la integrità della vita, i beni, gli insediamenti e l’ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi e da altri eventi calamitosi”; all’inizio del primo decennio del duemila, con il decreto legge che aggiunge all’elenco i “grandi eventi”, aprendo la strada alla gestione in emergenza e con pieni poteri discrezionali anche della costruzione delle opere per eventi che potevano andare da un vertice internazionale a una gara sportiva; alla svolta degli anni dieci, con il ritorno della protezione civile al suo nucleo originario.
Si dà per scontato che sono le regole, e non la loro attuazione concreta, il problema: le leggi, non l’amministrazione
Che non è affatto ristretto, dato che nel concetto di protezione rientrano tre attività essenziali: previsione, prevenzione e soccorso (che dovrebbe durare fino al ripristino delle condizioni di normalità); e che la definizione di “calamità” non è limitata a quelle naturali ma anche a quelle derivanti dall’opera dell’uomo; ne derivano poteri di emanare ordinanze in deroga alle norme vigenti, per fronteggiare l’emergenza.
Da un terremoto a uno scandalo a un altro terremoto, il pendolo del legislatore nel regolare tutto ciò oscilla tra maggiore o minore rigore nelle procedure e nei controlli, e tra maggiore o minore accentramento dei poteri decisionali: ogni volta dimenticandosi dei problemi che avevano portato ai cambiamenti della volta precedente. E anche oggi, in seguito ai ritardi (anzi, secondo Gentiloni per “prevenire accumuli di ritardi”) nella gestione dell’emergenza del terremoto nell’Italia centrale, si rimette mano alla legge vecchia, in attesa di quella nuova.
Dando per scontato che sono le regole, e non la loro attuazione concreta, il problema: le leggi, non l’amministrazione. E, tra le regole, si torna a mettere nel mirino le odiate gare pubbliche: quelle che lo stato o un ente pubblico fa quando deve scegliersi un fornitore, e che sarebbero regola europea – soggetta però a numerose e sensibili eccezioni.
Gara versus trattativa privata
Ma siamo sicuri che, oggi come ieri, il nucleo del problema sia nella scelta, su cui si dibatte, tra la velocità della trattativa privata nell’affidamento dei lavori e le pastoie delle gare a evidenza pubblica?
È la questione che ritorna a ogni ritardo, a ogni opera e – purtroppo – a ogni scandalo. La straordinaria urgenza nella quale per definizione la protezione civile è costretta a operare è infatti, per ovvio buon senso, motivo di deroga alle norme generali. E anche motivo per cui, nel passato recente che ancora brucia, si allargò a dismisura la competenza della protezione civile fino a farvi rientrare tutta la ricostruzione e anche i grandi eventi, sotto la gestione Bertolaso. In modo da poter gestire gli appalti con totale discrezionalità e senza procedure a evidenza pubblica.
Nel 2012, con gli scandali dell’Aquila e dei Mondiali di nuoto ancora freschi, il governo Monti varò l’indietro tutta con il decreto 59, che delimitò il campo d’azione della protezione civile eliminando da questo i grandi eventi, oltre a fissare le procedure per il ritorno alla gestione ordinaria appena finito lo stato d’emergenza (che, secondo quella legge, non poteva durare più di 90 giorni, prorogabili per non più di 60: termine che poi è stato allungato a 180 giorni da un decreto successivo, del 2013).
Nella stessa legge si prevedevano anche ruolo e durata di eventuali commissari, e un rapporto con le istituzioni locali molto meno “accentratore” rispetto alla gestione precedente. Il tutto, sotto il segno prevalente del governo dell’epoca: un controllo più stretto dei saldi di bilancio. Insomma, contro il lievitare di spese incontrollate varate sotto la spinta dell’emergenza e poi destinate a crescere in corso d’opera. Emergenza che, sia pure su tempi ed eventi delimitati, consentiva poteri di deroga alle procedure burocratiche ordinarie.
La questione della trattativa privata e delle procedure non pubbliche né pubblicamente negoziate torna fuori, e sempre con la motivazione della fretta
Anche il codice degli appalti varato nell’aprile del 2016 dà pieni poteri per evitare le gare, in caso di emergenza, “nella misura strettamente necessaria quando, per ragioni di estrema urgenza derivante da eventi imprevedibili dall’amministrazione aggiudicatrice, i termini per le procedure aperte o per le procedure ristrette o per le procedure competitive con negoziazione non possono essere rispettati”: così recita l’articolo 63, e sarebbe difficile non far rientrare in questa cornice generale l’acquisto di beni e servizi, e anche la confezione di manufatti, necessari per fare fronte alla prima emergenza di un terremoto.
Va detto che il governo vuol farvi rientrare anche i lavori stradali per preparare il G7 di Taormina, e così ha disposto nel decreto per il Mezzogiorno varato alla fine dell’anno scorso: contro questa scelta si è schierato il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), Raffaele Cantone, dicendo che quella norma “concede una procedura iper-eccezionale” e temendo infiltrazioni mafiose nei lavori. Dunque, la questione della trattativa privata e delle procedure non pubbliche né pubblicamente negoziate torna fuori, e sempre con la motivazione della fretta. E, nel caso del terremoto, trova a suo sostegno lo stato di parte delle popolazioni e dei loro animali ancora al freddo e al gelo, a cinque mesi dalle prime scosse.
Le casette e le stalle
Dunque le norme per fare procedure d’emergenza, senza le gare, già ci sono nelle regole della protezione civile e anche nello stesso codice degli appalti. Ma nel caso del terremoto dell’Italia centrale le gare ci sono state, su richiesta dell’Anac di Cantone.
Solo che per quanto riguarda le strutture provvisorie per gli allevamenti (i Mapre, moduli abitativi prefabbricati rurali emergenziali) le ditte selezionate con le gare non hanno consegnato tutto il dovuto nei tempi previsti: la regione Lazio, alla quale era stata attribuita la responsabilità di questi acquisti per tutte le regioni colpite dal sisma, ha bandito una gara al massimo ribasso, suddivisa in quattro lotti (bovini da latte e da carne, ovini e fienili).
Ma l’impresa che ha vinto la gara per i bovini non ha consegnato i manufatti in tempo: e qui scattano altri ritardi, dovuti ai tempi di messa in mora necessari prima di interrompere un contratto (la diffida è partita solo il 5 gennaio 2017). Intanto, è partito tutto un altro iter, con il quale si è data agli agricoltori la possibilità di comprarsi da soli le stalle con un contributo pubblico totale, con altre complicazioni e passaggi burocratici. Mentre per quanto riguarda i prefabbricati abitativi (Sae, soluzioni abitative d’emergenza), la gara era addirittura stata fatta due anni prima, e la protezione civile ha messo a disposizione degli enti locali elenco delle ditte e protocollo dell’accordo: solo che è lo stesso accordo che prevede che i tempi di realizzazione siano di circa sette mesi… tempi lunghissimi per un’emergenza, anche se non ci fosse stato l’eccezionale maltempo di quest’inverno.
Più che la procedura delle gare – e l’alternativa sempre caldeggiata da una parte di costruttori, fornitori e politici, ossia la trattativa privata – sotto la lente dovrebbe stare la sua concreta attuazione. Il controllo del rispetto degli accordi, i contrasti tra amministrazioni (il fatto che le regioni coinvolte fossero quattro non ha aiutato, né ha semplificato le cose la diarchia tra protezione civile e il commissario alla ricostruzione), la loro maggiore o minore efficienza, la capacità di far fronte a impegni straordinari con organici e mezzi impoveriti da anni in cui nelle stesse amministrazioni ordinarie non si è più investito.
Invece di guardare a quel che non va sul terreno, l’invocazione di poteri e procedure straordinarie dall’alto può servire a coprire l’incuria dell’ordinaria amministrazione, se non peggio a rivitalizzare gli appetiti e le pratiche che nel passato sono costate tanto alle casse pubbliche e poco hanno portato al territorio.

27.2.15

Contro l'apatia della democrazia

A guidare le società moderne sempre più plebisciti tecnocratici e sempre meno politica

di Barbara Spinelli* (Il Sole 24 Ore)

Nel 1998 il presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer descrisse i due «plebisciti» su cui poggiano le democrazie: quello delle urne, e il «plebiscito permanente dei mercati». La coincidenza con l'adozione di lì a poco dell'euro è significativa.

La moneta unica nasce alla fine degli anni '90 senza Stato: per i mercati il suo conclamato vizio d'origine si trasforma in virtù. Le parole di Tietmeyer e i modi di funzionamento dell'euro segnano l'avvio ufficiale del processo che viene chiamato decostituzionalizzazione – o deparlamentarizzazione – delle democrazie.
Il fenomeno si è acutizzato con la crisi cominciata nel 2007, ma già nel 1975 un rapporto scritto per la Commissione Trilaterale denunciava gli «eccessi» delle democrazie parlamentari postbelliche e affermava il primato della stabilità e della governabilità sulla rappresentatività e il pluralismo, giungendo sino a esaltare l'apatia degli elettori: «Il funzionamento efficace di un sistema democratico necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi. In passato ogni società democratica ha avuto una popolazione di dimensioni variabili che stava ai margini, che non partecipava alla politica. Ciò è intrinsecamente anti-democratico, ma è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare bene».
Oggi viviamo all'ombra di quel plebiscito dei mercati mondiali, che non conosce scadenze o prove di falsificazione. Un po' come la guerra permanente al terrorismo. Ambedue producono un continuo stato di eccezione, dove gli equilibri delle democrazie costituzionali saltano per ricomporsi in maniera accentrata. Dominano gli esperti monetari, le élite finanziarie internazionali, i grandi istituti di credito, i complessi militari-industriali, e pochi Stati a torto considerati onnipotenti. L'efficienza e la rapidità delle decisioni economiche prevalgono su processi democratici ritenuti troppo lenti e incompetenti.

Gli effetti di questa decostituzionalizzazione li tocchiamo con mano in Italia. Il Piano di rinascita democratica di Gelli (redatto forse non a caso in concomitanza con il rapporto della Trilaterale) è stato fatto proprio da Craxi, poi da Berlusconi, infine da Matteo Renzi. Conta più che mai la governabilità, a scapito della rappresentatività e degli organi intermedi che aiutano la società a non cadere nell'apatia e nell'impotenza. È rivelatore anche l'uso di certe terminologie. Le riforme strutturali o di “efficientamento”, si tratta non di deliberarle attraverso discussioni democratiche, ma di “portarle a casa”. Portare a casa le riforme rimanda all'immagine di una caccia predatoria. Si parte verso territori infestati da nemici che possono intralciare la scorreria (contropoteri, organi intermedi, sindacati, spazi pubblici) per mettere in salvo il bottino nel fortilizio chiuso, e soprattutto privato, che è la “casa”. (Notiamo en passant che economia nei primordi è proprio questo: la legge, nòmos, della casa, oîkos. Saranno la politica e poi la democrazia a oltrepassare il perimetro casalingo.)

Sotto il plebiscito permanente dei mercati globali, la politica di per sé non scompare; si adatta, mutando natura. Ma scompare l'essenza della democrazia costituzionale, e cioè l'obbligo di separare le decisioni, nella consapevolezza che qualsiasi potere, se non controbilanciato da poteri altrettanto forti e autonomi, tende a divenire assoluto.
Il prosciugamento della democrazia colpisce anche le istituzioni europee, indebolendo radicalmente la funzione dell'Unione, che dovrebbe servire da filtro fra politica e mercati, fra Stati sempre meno padroni di sé e finanza globale sempre più sregolata e invadente. L'approdo temuto da Habermas è il «federalismo degli esecutivi»: una rivoluzione dall'alto, compiuta su ambedue i piani, nazionale ed europeo. Il dato tecnico-contabile prevale su ogni altra considerazione, svuotando anche nell'Unione organi di controllo quali il Parlamento europeo o la Corte di giustizia.

Da pochi mesi sono deputato europeo, e constato come quotidianamente vengano disattese promesse, violati articoli del Trattato di Lisbona e soprattutto della Carta dei diritti fondamentali, che pure dovrebbe essere vincolante per i ventotto Stati membri. Ricordo la sostituzione di Mare Nostrum con la missione europea Triton: in pratica si è deciso di rinunciare alle operazioni di ricerca e soccorso in mare dei migranti, contravvenendo a precisi regolamenti del Consiglio e del Parlamento europeo emanati nel 2014, alla Carta dei diritti e perfino al diritto del mare.
Ma oltre a Triton, molti altri articoli della Carta sono violati: sempre parlando di migranti, la proibizione delle espulsioni collettive e in particolare del rimpatrio laddove esista un rischio serio di subire la pena di morte o la tortura (art. 19); il diritto di asilo ai rifugiati sulla base della convenzione di Ginevra del 1951 (art. 18); il diritto alla vita (art. 2). Quanto alla politica economica e sociale, sono calpestati i diritti europei che tutelano le azioni collettive in difesa dei propri interessi (compreso lo sciopero), la tutela in caso di licenziamento ingiustificato, il diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose (articoli 28, 30, 31), oltre al diritto dei giovani ammessi al lavoro di beneficiare di «condizioni lavorative appropriate alla loro età» e di essere «protetti contro lo sfruttamento economico o contro ogni lavoro che possa minarne la sicurezza, la salute, lo sviluppo fisico, mentale, morale o sociale o che possa mettere a rischio la loro istruzione» (art. 32).

Lo stesso trattato di Lisbona è aggirato. Non è rispettato l'art. 2 che esige il rispetto delle minoranze (si pensi ai Rom). È tolta la garanzia contenuta nel preambolo di «attuare politiche volte a garantire che i progressi compiuti sulla via dell'integrazione economica si accompagnino a paralleli progressi in altri settori». Evapora anche l'impegno, ribadito nell'art. 3, a fare in modo che la competitività «miri alla piena occupazione e al progresso sociale» e si basi «su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente».
Questi e altri diritti sono sospesi, accampando come pretesto la crisi economica e le sue emergenze. È in questo quadro che il magistrato Giuseppe Bronzini parla di diritto emergenziale dell'Unione europea, divenuto cogente a seguito dell'introduzione di una serie di norme e accordi inter-statali stipulati sulla scia del dissesto economico del 2007-2008: un reticolato di leggi e normative che non si incardinano né nel diritto nazionale né in quello europeo, e che vengono così sottratte al controllo sia dei Parlamenti nazionali sia del Parlamento europeo. Sono state adottate dal direttorio degli esecutivi, gestite in comune da Commissione, Banca Centrale e l'organo estraneo all'Unione che è il Fondo monetario, e danno corpo, dentro l'Unione, a una zona di non-diritto. La Grecia è stata la vittima e lo spettacolare laboratorio della creazione deliberata di un limbo giuridico dentro l'Europa, tale da decostituzionalizzare al tempo stesso l'Unione che impone l'austerità e lo Stato membro che riceve l'ordine di applicarla. Lo ha ammesso il commissario Jyrki Katainen il 17 settembre 2014 in risposta a una domanda in merito agli effetti del programma di austerità sui diritti fondamentali garantiti dalla Carta: «I documenti del programma non sono legge europea, ma strumenti concordati tra la Grecia e i suoi creditori: pertanto la Carta non può essere usata come riferimento, e spetta alla Grecia assicurare che i propri obblighi sui diritti fondamentali siano rispettati».

In Italia, l'acme è stato raggiunto con la lettera di Trichet e Draghi del 5 agosto 2011. Essa conferma in pieno l'esistenza del diritto emergenziale: lo Stato membro è giudicato incapace di autogovernarsi e di ristabilire la fiducia degli investitori, ed è così che l'istituzione sovranazionale (in tal caso la Bce) interviene entrando nei dettagli di politiche che legalmente non dovrebbero pertenerle. È trasmodando che essa fissa non solo gli obiettivi ma anche le modalità per raggiungerli, reclamando: più efficienza del mercato del lavoro; piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali, tramite privatizzazioni su larga scala; accordi a livello di impresa che soppiantino i contratti collettivi; revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti; interventi ulteriori nel sistema pensionistico; abbassamento significativo dei costi del pubblico impiego anche riducendo gli stipendi; tagli orizzontali alle spese pubbliche; uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione). Per evitare lungaggini democratiche, ciascuna di queste misure va presa «il prima possibile per decreto legge». Abbiamo quindi ad opera dell'Unione una decostituzionalizzazione della democrazia, e contestualmente una sua deparlamentarizzazione.
Non sorprende che la lettera sia stata vissuta come un colpo di mano, se non di Stato, compiuto dalle oligarchie al comando in Europa. Non servono la presenza fisica della troika o i memorandum per imporre dall'alto un comando che agisce allo stesso modo. La cosa apparve evidente agli addetti ai lavori, e nei giorni in cui la Bce mandava la sua missiva Mario Monti scrisse che l'Italia era stata di fatto commissariata da un “podestà forestiero” (Corriere della sera, 7 agosto 2011).

Un discorso a parte merita la corruzione. La sua incidenza sullo sviluppo economico e sul debito pubblico è macroscopica. Ma è segno dei tempi che né il Fiscal Compact, né i memorandum, né le troike, né le lettere della Bce giudichino opportuno soffermarsi su quello che Alexis Tsipras ha chiamato il «patto fra cleptocrazie nazionali, mercati internazionali ed élite europee». È segno dei tempi che non figurino nelle raccomandazioni di queste élite la lotta all'evasione fiscale né quella alle mafie, come se non esistesse un rapporto fra finanza e malavita. Avendo ormai un raggio d'azione e poteri globali, corruzione e criminalità organizzata contribuiscono allo svuotamento delle democrazie europee. Giocano un ruolo essenziale, ma che sistematicamente viene occultato.
In un saggio del magistrato Roberto Scarpinato (La legalità materiale, Micromega, ottobre 2014) si denuncia la «decostruzione progressiva dello Stato liberal-democratico di diritto», e un «complesso processo di reingegnerizzazione del potere, che trasferisce le sedi decisionali strategiche fuori dai parlamenti e dagli esecutivi nazionali, prima trasmigrandole all'interno di organi sovranazionali non elettivi, privi di rappresentatività democratica – quali la Bce e la Commissione europea – e poi da questi in organizzazioni internazionali come la troika, proiezioni istituzionali delle oligarchie finanziarie globali». Asservire la giustizia, e renderla inerme di fronte a una criminalità mondializzata, fa parte di questa reingegnerizzazione.

Allo stesso modo ne fa parte la decisione di devitalizzare il welfare, piuttosto che l'evasione di massa facilitata da quella criminalità. Scrive in proposito Scarpinato: «La corruzione opera come selettore in negativo della qualità degli investimenti internazionali e veicolo di occulta colonizzazione a basso costo di larghi settori dell'economia nazionale da parte del capitale globale sovranazionale più spregiudicato». È opinione diffusa che gli investitori esteri siano scoraggiati dalle lentezze della giustizia italiana e dalla corruzione, ma «i più accreditati studi in materia evidenziano una realtà più complessa. Le aziende globali privilegiano per i loro investimenti i paesi la cui legalità debole non solo consente di minimizzare i costi di produzione (minori tutele per l'ambiente, per i diritti dei lavoratori, maggiori possibilità di evasione fiscale), ma anche di conquistare posizioni di vantaggio e di oligopolio in vari settori di mercato grazie alla permeabilità a pratiche corruttive dei ceti dirigenti locali, talora remunerati pronto cassa, talora cooptati come soci occulti».

Che fare, in simili circostanze? Dal momento che tornare alle sovranità nazionali assolute non si può (la sovranità è in larga parte e da tempo perduta, l'Europa dovrebbe servire a restaurarla), il compito consiste nel ricostituzionalizzare sia il livello nazionale che quello europeo. Consiste nel porsi il problema della sovranità, anziché eluderlo. Nell'espandere i diritti, piuttosto che ridurli. La ricetta è sempre quella di Tocqueville: uscire con più democrazia dalla crisi della democrazia.

Vorrei menzionare tre battaglie minime, da fare prima di accingersi alla grande opera di ricostituzionalizzazione. Primo: vanno estese le libertà e le tutele garantite dalle vecchie Costituzioni, adattandole a nuove figure di cittadinanza partecipativa come i whistleblower. È uno scandalo che persone come Edward Snowden o Hervé Falciani o come il giornalista tedesco Udo Ulfkotte siano descritte rispettivamente come spie, o ladri (di dati), o traditori dell'Occidente perché denunciano la sottomissione dei media a strategie di guerre illegali. Sono i cani da guardia di democrazie pericolanti, di giornali asserviti al potere. Ne abbiamo bisogno per divenire cittadini non apatici, ma informati. Urge uno statuto che aiuti i whistleblower a uscire allo scoperto in presenza di corruzione, di violazione di diritti, di disinformazione.
Seconda battaglia: evitare che l'accordo commerciale con gli Stati Uniti (il TTIP) sfoci in un collettivo atto di abiura europeo: in una consapevole ritrattazione giurata di norme che l'Unione si è data lungo i decenni a tutela della salute, dell'ambiente, del benessere dei propri cittadini, dell'autonomia delle proprie corti. È il plebiscito permanente dei mercati che, se non contrastato, ancora una volta ci schiaccia.

La terza battaglia porta sulla moltiplicazione degli strumenti di democrazia e di controllo. Il Trattato di Lisbona prescrive ad esempio, nell'articolo 6, che l'Unione aderisca alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Ma per salvaguardare le proprie competenze ed evitare incursioni nel proprio campo, la Corte europea di giustizia ha decretato nel dicembre scorso che le due Carte non sono “compatibili”. Nella sostanza, l'Unione europea si comporta come i vecchi sovrani assoluti: non riconosce autorità alcuna sopra la propria. Giunge sino all'assurdo di non accettare giudizi della Corte di Strasburgo, ossia del Consiglio d'Europa, in ambiti – la politica estera e di sicurezza, cioè la pace e la guerra – su cui lei stessa non ha, per trattato, diritto di parola.
Ecco l'Europa che abitiamo: un'Unione che infrange le regole che essa stessa si è data e ha la faccia tosta di vietare intrusioni di altre Convenzioni e altre Corti. Forse perché teme giudizi malevoli di nazioni europee ritenute inferiori, come la Russia. Di certo per scongiurare l'uscita dall'apatia – giuridica, politica, democratica – che è il principale dei nostri mali presenti.

*Barbaro Spinelli è deputato europeo dell'Altro Europa con Tsipras

18.2.15

La guerra in Libia è un regalo al califfo

Lucio Caracciolo (Limes)

Una campagna militare di crociati e apostati: al-Baghdadi non potrebbe chiedere di più.
Senza assecondare l'avventurismo di chi dimentica il nostro passato coloniale, l'Italia può fare qualcosa contro i jihadisti della Quarta sponda.

Il “califfo” al-Baghdadi non potrebbe sperare di meglio: l’invasione armata di ciò che resta della Libia, condotta da ”crociati” (italiani, francesi e altri europei) e “apostati corrotti” (egiziani più arabi e africani vari).

Eppure del nuovo sbarco sulla quarta sponda si discetta nelle cancellerie europee e nei palazzi dei monarchi e delle giunte militari arabe, con il discreto ma pressante incoraggiamento americano. Una operazione di controguerriglia da sviluppare su un territorio largamente desertico grande sei volte l’Italia, in totale caos geopolitico, dove si affrontano decine di bande e milizie di vario colore e appartenenza etnica, locale o regionale, tutte armate fino ai denti.

Una campagna che in teoria si presenta non dissimile dalle guerre sovietica o americana in Afghanistan, solo in un contesto molto più confuso e senza i mezzi delle superpotenze. Ma con la stessa carenza di obiettivi chiari e perseguibili.

Perché, contrariamente a quanto affermano i suoi portavoce, lo Stato Islamico non sta conquistando la Libia. Semmai, alcune fazioni che continuano a massacrarsi senza pace usano il marchio “califfale” in franchising, per ottenere visibilità e attirare reclute.

In ogni caso, per una spedizione oltremare toccherebbe esibire una bandiera Onu autorizzata dal Consiglio di Sicurezza - percorso non scontato - in modo da vestirla da “operazione di pace”. Come ha avvertito il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, l’Italia «è pronta a combattere, naturalmente nel quadro della legalità internazionale».

Stavolta però la foglia di fico onusiana non potrebbe mascherare la natura della guerra: non c’è nessuna pace da preservare, nemmeno in embrione. Non basta: il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha annunciato che Roma aspira a guidare l’agognata missione schierando un contingente di cinquemila uomini. In effetti, più che di soldati avremmo bisogno di carri armati (Rommel docet), che non abbiamo: quelli davvero efficienti si contano sulle dita delle mani o poco più.

Peggio, sembra che alcuni esponenti del governo abbiano persa la memoria del nostro passato coloniale in Tripolitania e in Cirenaica. Certo non l’hanno dimenticato i libici. «Tutto ciò cui aspiriamo è avere di nuovo gli italiani qui fra le mani», ha twittato uno dei più seguiti blogger di Misurata, nemmeno fra i più radicali. Per vendicare Omar al-Mukhtar e i suoi gloriosi martiri.

Quattro anni dopo aver partecipato controvoglia, su uno strapuntino dell’ultimo minuto, alla liquidazione franco-britannica di Gheddafi (e della Libia), adesso rischiamo dunque di tornarci in pompa magna, per ritessere la tela che abbiamo strappato. A supportare le ambizioni egiziane sulla Cirenaica e gli interessi francesi nel Fezzan.

Invece del Colonnello, con cui flirtammo per quattro decenni, lavoreremmo stavolta per un sedicente generale dalle ambigue credenziali, Khalifa Heftar, appoggiato da egiziani, sauditi, emiratini e altri petromonarchi del Golfo. Il quale ha saputo abilmente intestarsi la “guerra al terrorismo” (sezione libica), certificato di qualità ad uso dei governi e delle opinioni pubbliche occidentali meno avvertite, utile a legittimare l’eliminazione dei propri avversari - in questo caso anzitutto le milizie di Misurata e altri gruppi presuntamente “islamisti”.

Puro avventurismo geopolitico, che fra l’altro significherebbe esporci gratuitamente al terrorismo jihadista sul nostro territorio molto più di quanto non lo si sia adesso. A rimettere ordine nel dibattito pubblico alimentato dai suoi stessi ministri ha pensato Matteo Renzi, avvertendo che «non è tempo per una soluzione militare». Il nostro premier ha preso tempo: meglio “aspettare l’Onu”. E ha correttamente osservato: «In Libia non c’è un’invasione dello Stato Islamico, ma alcune milizie che combattevano lì hanno iniziato a fare riferimento a loro».

Renzi mostra così di non voler cadere nella trappola della propaganda del “califfo”, che si annuncia “a sud di Roma”. E, se volessimo davvero combattere lo Stato Islamico, potremmo attaccarlo dove effettivamente si trova, fra Siria e Iraq. Non risulta però che i nostri piloti siano autorizzati a colpirlo.

Ma qualcosa si può e si deve fare. Prima di tutto, non accendere nuovi focolai di guerra senza speranza di vincerla. Poi, usare le leve finanziarie di cui ancora disponiamo per bloccare i flussi di denaro che arrivano ai gruppi armati - operazione tutt’altro che impossibile. In terzo luogo, colpire i traffici che alimentano i miliziani, compresi i jihadisti che fanno riferimento allo Stato Islamico. Tra Iraq e Siria gli americani hanno bombardato con qualche successo raffinerie e impianti controllati dal “califfato”.

In Libia le Marine occidentali potrebbero affondare, prima che partano, le barche con cui i mercanti di essere umani attraversano il Canale di Sicilia, lucrando su migliaia di disperati.

Un blocco navale di fatto, accompagnato da operazioni di forze speciali nei porti libici, infliggerebbe un colpo severo al più osceno dei traffici. E alla cassa degli aspiranti emuli del “califfo”.

26.6.14

Stipendi, l’Italia rovesciata - Il Sud più «ricco» del Nord


La classifica delle province per potere d’acquisto. Prime Caltanissetta e Crotone, Milano 97esima

di Sergio Rizzo

A Ragusa il reddito disponibile delle famiglie è circa metà di Milano e la disoccupazione morde tre volte di più. Per non parlare dei giovani: dice la Banca d’Italia che in Sicilia il 55% è senza lavoro. Ma per i pochi fortunati ad avere un’occupazione stabile le cose vanno assai meglio che a Milano.

Un cassiere di banca ragusano con cinque anni di anzianità ha uno stipendio del 7,5% inferiore al suo collega milanese. Se però si tiene conto del differente costo della vita, allora scopriamo che la sua busta paga è più alta del 27,3%. E non è ancora tutto, perché per avere il medesimo potere d’acquisto del cassiere di Ragusa, il bancario di Milano dovrebbe guadagnare addirittura il 70% in più. Nel settore pubblico, poi, le differenze a favore dei dipendenti meridionali sono ancora più evidenti. Il salario nominale di un insegnante di scuola elementare con i soliti cinque anni di anzianità è infatti uguale in tutte le regioni italiane: 1.305 euro al mese. Una retribuzione che però in base al diverso indice dei prezzi al consumo nelle due città equivale a 1.051 euro reali a Milano e 1.549 a Ragusa. Con una differenza abissale a vantaggio della città siciliana: 47%. Per pareggiare il potere d’acquisto dell’insegnante ragusano il maestro milanese dovrebbe avere uno stipendio più pesante dell’83%, sottolinea una ricerca che verrà presentata domani a Roma dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti. Obiettivo degli autori, gli economisti Tito Boeri della Bocconi, Andrea Ichino dell’Istituto universitario europeo ed Enrico Moretti dell’università californiana di Berkeley, mettere a fuoco le disuguaglianze di salari, redditi e consumi, in gran parte responsabili di una stagnazione endemica.

I numeri dicono tutto. La Provincia di Bolzano, dove i salari nominali sono i più elevati d’Italia, scivola quasi in fondo alla classifica (posto numero 92) di quelli reali se si considera la differenza del costo della vita. Così Aosta, che dal secondo posto passa al 95. Esattamente al contrario di Crotone, che dalla posizione 95 per i salari nominali balza alla seconda per quelli reali. Appena davanti a Enna, Biella, Siracusa, Pordenone, Vercelli, Taranto, Vibo Valentia e Mantova. Tra le dieci province italiane con i più alti salari reali le meridionali sono ben sei. Prima in assoluto, Caltanissetta.
Dati, secondo gli autori della ricerca, che rappresentano una profonda anomalia rispetto a Paesi nei quali i salari sono allineati alla produttività, con il risultato di avere tassi di disoccupazione con minori differenze fra i territori. Boeri, Ichino e Moretti portano l’esempio di San Francisco, dove la produttività del lavoro è superiore rispetto a Dallas: i salari sono quindi più alti del 50% e il tasso di disoccupazione è simile. Anche a Milano la produttività è superiore a quella di Ragusa, ma la differenza salariale è metà di quella fra San Francisco e Dallas: e a Ragusa la disoccupazione è del 223 % maggiore che a Milano mentre le abitazioni nel capoluogo lombardo sono più care del 247%.

Certo la valutazione complessiva delle differenze non può prescindere da altre variabili. Per avere a Ragusa la stessa qualità di Milano, ad esempio, i servizi sanitari costerebbero 18,7 volte in più. Ed è questa anche la ragione per cui a salari reali più consistenti dei lavoratori non corrisponde automaticamente una migliore qualità della vita. Né un apprezzabile impatto sui redditi. La dimostrazione? La provincia italiana con i redditi nominali più elevati, Modena, è al secondo posto per quelli reali (che tengono conto delle differenze territoriali del costo della vita), dietro Biella e davanti Mantova, Reggio Emilia, Verbano, Ferrara, Ragusa, Novara, Trieste e Rovigo. Tutte del Nord tranne Ragusa.

Conclusione, la «compressione dei salari», come viene definita nella ricerca, è causa di maggiore disoccupazione e disuguaglianza nei salari reali a favore del Sud, e di prezzi più cari delle abitazioni e squilibri nei redditi e nei consumi a favore del Nord. Una situazione tale da creare le condizioni per «frenare la crescita senza migliorare le prospettive del Sud». Sul banco degli imputati, «l’apparente equità della contrattazione nazionale» che determina «distorsioni, inequità ed inefficienze». La svolta, secondo gli autori, sarebbe dunque in un legame più stretto fra retribuzioni e produttività, con gli accordi locali che dovrebbero prevalere sui contratti nazionali.
Impossibile, dopo aver scorso le oltre 50 slide della ricerca, non ripensare alle gabbie salariali. Era un meccanismo nato alla fine del 1945,che divideva l’Italia in 14 aree dove si applicavano salari diversi in rapporto al costo della vita. Durò fino a tutti gli anni Sessanta. Il sipario calò definitivamente nel 1972. Sulle gabbie e sul poco rimasto del boom economico.

17.5.13

Politici mediocri, burocrati arroganti Il patto sventurato da interrompere

 Gian Antonio Stella   (corriere.it)

Solo nel nostro Paese è possibile che un segretario del Senato in pensione guadagni il triplo del Capo dello Stato

Non c'è Paese al mondo dove un segretario generale del Senato in pensione guadagni con l'aggiunta della prebenda di consigliere di Stato quasi il triplo del capo dello Stato. Solo in Italia succede. È l'effetto del patto sventurato che lega da decenni una classe politica per sua stessa ammissione sempre più mediocre e una struttura burocratica resa arrogante proprio dalla inferiorità del ceto dirigente. Ma l'emergenza delle emergenze al governo Letta non appare tale. C' è una riforma che non costerebbe niente. Meglio: non costerebbe in soldi. Il prezzo da pagare sarebbe la rottura di quel patto sventurato che lega da decenni una classe politica per sua stessa ammissione sempre più mediocre e una struttura burocratica resa sempre più forte, fino all'arroganza, proprio dalla inferiorità del ceto dirigente. Via via diventato schiavo degli alti funzionari, gli unici capaci dentro questo meccanismo infernale di scrivere una legge, di infilarla nel groviglio legislativo esistente e poi di interpretarla.
Un servaggio, come è noto, pagato caro: non c'è Paese al mondo dove un segretario generale del Senato in pensione guadagni con l'aggiunta della prebenda di consigliere di Stato quasi il triplo del presidente della Repubblica. Da noi sì. Va da sé che i beneficiati di questa «abnormità» non hanno interesse a cambiare un sistema in cui un funzionario parlamentare prende più di un deputato.
L'ha scritto Max Weber: «Ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni». Lo hanno ripetuto Alberto Alesina e Francesco Giavazzi: la prima cosa da fare, prima ancora di costruire strade e ponti, è cambiare la burocrazia perché quale «beneficio arreca a un'impresa risparmiare mezz'ora fra Civitavecchia e Grosseto se poi deve attendere dieci anni per la risoluzione di una causa civile» o almeno «un anno per essere pagata da un'amministrazione pubblica»? Aggiungiamo: è colpa solo della Fiom o del costo del lavoro se negli ultimi anni gli investimenti esteri in Italia si sono dimezzati (dal 2 all'1,2% del totale mondiale: dati Confindustria) o piuttosto di un quadro burocratico asfissiante dove, denuncia Confcommercio, «ci vogliono 41 procedure per far rispettare un contratto e 1.210 giorni per ottenere una sentenza che tuteli l'impresa»?
All'Aquila sono state emanate tra leggi speciali e direttive del Commissario, atti delle Strutture di Gestione dell'Emergenza e dispositivi della Protezione Civile e bla-bla, 1.109 norme più allegati: non mancano solo i soldi per ricostruire, manca il buon senso. Al punto che, se non cambia qualcosa, c'è da scommettere che finirà col solito decreto d'emergenza che permetta di eludere l'eccesso di regole. Già visto: lo Stato che aggira lo Stato perché incapace di cambiare se stesso.
È dunque un peccato notare come, a scorrere agenzie ed archivi, l'emergenza delle emergenze non appaia al governo Letta una vera emergenza. Due accenni nel discorso d'investitura, due flashes dell'Ansa: e centrati più che altro contro la cappa della burocrazia europea.
La scelta degli uomini giusti per questa guerra che dovrebbe essere a tutti i costi vinta, del resto, dice tutto. Non vogliamo neppure entrare nel merito delle qualità e dei curriculum del ministro Giampiero D'Alia e dei suoi vice, Gianfranco Micciché e Michaela Biancofiore dirottata dalle Pari Opportunità dopo le sparate sui gay. Ma sfidiamo chiunque a sostenere che siano stati messi lì, a combattere la più difficile delle battaglie, perché individuati come i migliori che c'erano sulla piazza per ripulire, disboscare, semplificare.
La verità è che li hanno collocati lì, purtroppo, perché il bilancino degli equilibri tra i partiti prevedeva di dar loro una poltrona o almeno uno strapuntino. E quello è considerato, sventuratamente, un ministero di serie B. Se non di serie C. La revisione della Costituzione venne affidata al grande Concetto Marchesi. Senza offesa: vuoi mettere la differenza?

28.11.12

La scuola è giusta? Paese al top

Cristina Taglietti (Corriere)

In Finlandia e Corea sistemi d'insegnamento opposti ma vincenti

I modelli sono Finlandia e Corea del Sud: sono queste le superpotenze dell'istruzione, come emerge da una corposa ricerca sui sistemi educativi di 50 Paesi, realizzata dall'Economist Intelligence Unit per la multinazionale dell'educazione Pearson. Lo studio viene presentato oggi a Londra e ha come obiettivo principale supportare politici, dirigenti scolastici e ricercatori universitari nell'individuare i fattori chiave di miglioramento della scuola.
L'idea è che, per quanto sia difficile da quantificare, c'è un collegamento evidente tra le conoscenze e le competenze con cui i giovani entrano nel modo del lavoro e la competitività economica di un Paese a lungo termine. Lo studio ha prodotto un database pubblico e open-source (da oggi consultabile al link http://thelearningcurve.pearson.com) che raccoglie oltre 60 indici comparativi da 50 Paesi: dati come spesa pubblica nell'istruzione, salari dei docenti, tasso di alfabetizzazione, raggiungimento del diploma e della laurea, tasso di disoccupazione, Pil e via dicendo.

La classifica, che vede l'Italia al ventiquattresimo posto, propone un nuovo parametro di valutazione, l'«Indice globale sulle capacità conoscitive e il raggiungimento del livello di istruzione», basato su test internazionali (quello dell'Ocs-Pisa, le valutazioni Timms e Pirls), ma anche dati nazionali sulla media di conseguimento di diploma e laurea. Hong Kong, Giappone e Singapore sono nelle posizioni più alte, mentre negli ultimi posti si trovano Messico, Brasile e Indonesia, pur essendo, queste ultime, economie in veloce via di sviluppo. I due Paesi al vertice della classifica, Finlandia e Corea del Sud, propongono due sistemi educativi completamente diversi: mentre quello coreano è rigido, basato su verifiche, test, apprendimento mnemonico e obbliga gli studenti a investire molto tempo nella loro istruzione (oltre il 60 per cento dopo la scuola segue lezioni private), quello finlandese è molto più duttile e soft: le ore di scuola sono inferiori rispetto a molti altri Paesi (in Italia il tempo passato sui banchi è superiore di tre anni), non vengono assegnati compiti a casa, viene privilegiata la creatività sull'apprendimento mnemonico.
Ciò che accomuna i due Paesi è l'importanza attribuita all'insegnamento. La ricerca evidenzia che entrambi danno grande importanza all'arruolamento e all'aggiornamento della classe docente (Finlandia e Corea del Sud scelgono gli insegnanti tra i migliori laureati). Entrambi fanno leva sul senso di responsabilità nel raggiungimento degli obiettivi e sono caratterizzati da un'idea morale diffusa nella società che motiva docenti e studenti (in entrambe le società il rispetto per l'insegnante è considerato fondamentale).
D'altro canto l'importanza dell'insegnamento è l'indicazione principale che emerge dalla ricerca e si basa soprattutto sul riconoscimento del ruolo sociale, mentre il salario degli insegnanti sembra avere scarsa rilevanza sui successi scolastici e pochi collegamenti con lo sviluppo della capacità cognitive misurate secondo i test internazionali. Uno studio su due milioni e mezzo di americani ha stabilito che gli studenti che hanno avuto insegnanti migliori hanno più probabilità di frequentare college prestigiosi, guadagnano di più, vivono in quartieri di migliore status economico-sociale, risparmiano di più per la pensione e, addirittura, hanno meno probabilità di avere gravidanze adolescenziali.
Da un punto di vista generale, dice la ricerca, l'investimento economico sull'istruzione sembra sì importante nel raggiungimento di risultati positivi, ma ancora più importante è una cultura di supporto all'educazione. Non è un caso che, negli Stati Uniti, a seconda della cultura d'origine, ci sono forti differenze, per cui è statisticamente provato che studenti provenienti da famiglie di Hong Kong o Singapore fanno meglio di studenti che vengono dall'America latina o da Haiti. La questione dell'istruzione appropriata in vista di una futura crescita economica, in grado di offrire agli studenti gli strumenti per affrontare un futuro incerto sono il cuore di alcune riforme scolastiche sopratutto in Asia. Il fatto di anticipare, nella formazione, quelli che saranno i lavori di domani, ha fatto sì che il sistema educativo di Singapore, per esempio, fin dal 1997, sia passato da una forma di apprendimento tradizionale, con grande attenzione allo studio mnemonico, a una formazione che si basa su matematica, scienza e cultura generale combinata con l'apprendimento di come applicare le informazioni che si acquisiscono. I sistemi scolastici di alcuni dei Paesi che si collocano più in alto nella classifica si basano su un'enfasi maggiore sullo sviluppo di «creatività, personalità e collaborazione».
Dallo studio emerge che insegnare a lavorare in squadra, a interagire ed empatizzare con gli altri è la sfida della scuola di domani, tanto che un gruppo di lavoro che include i ministeri dell'Educazione di alcuni Stati stanno cercando di elaborare un metro di valutazione per queste abilità, che verrà introdotto nel programma di valutazione internazionale Pisa del 2015.

26.11.12

Un anno dopo, Monti e a capo

Rossana Rossanda  (da sbilanciamoci.info)

È giusto un anno che il parlamento italiano, auspice il presidente della repubblica, si è consegnato mani e piedi a un illustre “tecnico” e al governo da lui interamente scelto (se no non avrebbe accettato l’incarico) per smettere con le fanfaluche politiche e risanare i conti del nostro bilancio, primo fra tutti l’indebitamento. Si sa che la politica non è “oggettiva”, quando va bene risponde a una parte sociale, quando va male risponde a interessi privati, mentre la “tecnica” non guarda in faccia a nessuno, è neutra e, come il professor Monti ama ripetere, è assolutamente super partes.
Risultato? L’analisi di Pitagora, (“L'anno perduto di Mario Monti”, Sbilanciamoci.info 20 novembre 2012) ha dimostrato nel modo che più chiaro non potrebbe essere, che il nostro debito è aumento, crescita, occupazione ed entrate pubbliche sono calati. (E non parliamo del contorno di corruzione che sembra incrostato nelle nostre istituzioni, non è per colpa specificamente di questo governo). I fautori delle somme e delle sottrazioni contabili possono soltanto dirci: “È vero. Niente di fatto. Ma se non avessimo applicato questa terapia da cavallo chissà dove saremmo finiti. E avremmo dovuto chiedere un prestito accettando di passare sotto il controllo della troika, cosa che il nostro premier, essendo uno della stessa famiglia, ha evitato”. Dunque il debito è cresciuto ma politicamente a bocce ferme; l’equilibrio sociale fra chi ha e chi non ha non è stato toccato.
E invece no. L’essere Monti e il suo governo super partes, senza il fardello delle ideologie, ha preteso che alcune parti, che sarebbero state finora favorite, cioè i meno abbienti, abbiano pagato più delle altre, in soldi e diritti. Oggi siamo informati che il governo tecnico sta riuscendo ad abolire quel che nemmeno a Berlusconi era riuscito, il contratto nazionale di lavoro (la Cgil non è d’accordo, ma non importa, Cisl e Uil sì, ma era ovvio). Sarebbe stata la tecnica a esigerlo, rivelandosi curiosamente in feeling con la Confindustria. Il grimaldello per dare una botta decisiva al salariato, che si cercava di imporre già dagli anni ottanta del secolo scorso è stata la nostra competitività sui mercati, troppo debole per colpa dell’alto costo del lavoro (una volta si diceva lacci e lacciuoli). Il lavoro in Italia costa troppo, per via dei salari diretti e indiretti, imposti a tutte le aziende di tutto il paese; mentre se essi variassero fra le aziende prospere e quelle meno prospere, come sarebbe oggettivamente giusto, Costituzione e altre fantasie a parte, sarebbe a più buon prezzo. Se la contrattazione fra lavoratori e padroni venisse riportata per legge soltanto su scala aziendale, senza pari trattamento tra chi vende meno e chi vende di più, diventeremmo più competitivi. Non proprio come la Cina, sfortunatamente, ma si darebbe un bel colpo in quella direzione. Il paesaggio degli equilibri sociali si modificherebbe e i nostri prodotti costerebbero meno.
Non è entrato nella cultura del governo che ci sono due modi di essere competitivi, offrire prodotti a basso prezzo o offrire prodotti a migliore qualità grazie all’innovazione. Neanche tenendo conto che è il caso della Germania. Monti non segue la strada della sua amica Merkel e di qualcuno che la ha preceduta (perfino abbassando l’orario di lavoro), per cui oggi anche una povera diavola come me compra più volentieri una lavapanni tedesca, e non parliamo di merci di più elevata tecnologia. Ricordo come venticinque anni fa lo ripetesse Sergio Cofferati, e quanto poco il Pds lo stava a sentire. Sta di fatto che i conti non tornano e i lavoratori dipendenti sono stati e saranno ulteriormente penalizzati. Va da sé che i precari stanno ancora peggio – perfino i miti studenti della Bocconi hanno ululato contro il loro ex rettore in casa sua. Insomma la neutralità sociale della tecnica è sconfessata una settimana dopo l’altra.
Nel suo Dna sta un gene padronale. Il governo tecnico ammette una sola variante politica: non toccare gli abbienti, non tassare la rendita, non infastidire troppo la finanza, se no queste “parti sociali” se ne vanno verso altri lidi. Negli Stati Uniti perderebbero anche la cittadinanza, in Europa no. Vien da pensare che hanno ragione coloro che ci ammoniscono, badate che ormai l’economia è diventata più forte della politica. È lei che ha vinto, e ogni giorno azzanna qualche lembo di potere che pareva ancora del dominio politico, in soldi e diritti. È cosi? Non credo. I poteri che sono passati alla proprietà non sono stati strappati a mano armata ai governi; questi – finora espressione della politica – glieli hanno consegnati. E non sempre e solo i governi di destra; quando Cofferati trascinava con sé qualche milione di italiani al Circo Massimo il governo era di Berlusconi, ma quando Rifondazione ha fatto cadere un Prodi che stava andando in questa direzione, tutta l’Italia l’ha coperta di obbrobrio. Ma veniamo ad oggi: la famosa competitività sta spingendo sulla stessa strada anche il socialista Hollande, che non vi è ancora approdato come noi, ma su cui preme la tesi che, se si vuol fare soldi sui mercati, conviene abbassare il costo del lavoro, invece che migliorare, innovandolo, il prodotto. Del resto l’Europa monetaria e l’Organizzazione mondiale del commercio pretendono che gli stati possano legiferare sul costo diretto e indiretto del lavoro (su cui si pagano istruzione e sanità) ma non abbiano diritto di intervenire sugli investimenti. Se no dove va a finire la libertà d’impresa? La libertà dell’operaio o del salariato, come è noto, non è un problema.
E poi, che cosa è l’”economia”? Che ha a che vedere con la tecnica? Sempre di questi giorni è successo che la Francia ha perduto una delle sue tre A nel giudizio di quegli organismi tecnici e oggettivi che sarebbero le agenzie di rating, nel caso Moody’s. Ma quel che è successo ad altri paesi così severamente sanzionati – borse in convulsione, cadute, tassi sui prestiti alle stelle – non è successo affatto: le borse non hanno battuto ciglio e il costo del denaro, invece che salire di due cifre, è aumentato di due decimi di punto. Non dovevano essere penalizzati dalla mano invisibile del mercato? Com’è che la Francia e il suo governo, assai poco amato, se la sono cavata così a buon prezzo? È successo che la Germania finisce per trovarsi, con le sue tre A, sola fra le già grandi potenze fondatrici dell’Europa, in compagnia di Finlandia, Danimarca e simili. Strana Europa: Italia, Francia, Spagna disastrate assieme a Portogallo e Grecia, sana fra i fondatori solo la Germania, fulgida fra un mucchio di pezzenti. Immediato passo indietro, le A intere restano, ma nulla ne consegue. Meglio tenere per una manica la Francia fra i debitori di cui ci si fida, mollarle i soldi a un tasso più basso di tutta l’Europa del sud, una considerazione del tutto politica. La gretta Moody’s ha preso sul serio che la politica non conta, mentre l’economia è il respiro della società, libero o soffocato. Sono i governi a deciderlo; è sul territorio della politica, che ogni tanto – come da trent’anni a questa parte – perde la bussola.
In capo a due mesi, votata una finanziaria sicuramente montiana, il nostro presidente della repubblica scioglierà le camere, mandandoci alle elezioni che, come è noto, di tecnico e oggettivo non hanno niente, ridanno voce ai partiti e premono il pedale delle emozioni. La famosa ideologia riprende posto e si vedrà che cosa ha maturato nell’anno in cui è stata sotto la tutela del professore. Potrebbe, per esempio, ribaltare quell’occhio di riguardo che aveva per i più abbienti, e spostarlo verso i lavoratori, pensionati, precari, disoccupati; potrebbe essere questo il discorso della sinistra. Ma è verosimile? Il bifido Pd ha nelle sue tre anime due culture assolutamente montiane (o peggio) e una, quella bersaniana, di un montismo appena emendato. Una passione travolgente lo spinge verso il premier, che non vedrebbe male – ma come confessarlo? – mantenere il suo mandato o ancora meglio, dato che scade anche il presidente della repubblica, andare al posto di Giorgio Napolitano. Che cosa speri di ottenere Nichi Vendola salendo su questa barca non mi è chiaro. A sinistra del Pd si affollano sigle e candidati, impegnati a strappare uno strapuntino di minoranza, cosa del tutto legittima se dal medesimo riuscissero ad esprimere un programma, che non abbia da pretendersi ipocritamente oggettivo e super partes, e abbia il coraggio di dire da che parte sta. Per ora non vedo.
Noi, nel nostro piccolo di gente che non mira a essere deputato, abbiamo detto che siamo per un’Europa che faccia abbassare la cresta alla finanza, unifichi il suo disorientato fisco, investa sulla crescita selettiva ed ecologica, non solo difenda ma riprenda i diritti del lavoro. Non piacerà a tutti. Ma chi ci sta?

4.11.12

L'alternativa Grillo, catastrofe annunciata

di EUGENIO SCALFARI

Beppe Grillo e la televisione: questo è il vero fenomeno che va studiato con attenzione perché è da qui che il Movimento 5 Stelle diventa un problema politico del quale le elezioni siciliane hanno dato il primo segnale.

La sera di giovedì scorso Michele Santoro ha dato inizio al suo "Servizio Pubblico" trasmettendo l'attraversamento dello Stretto di Messina del comico leader del populismo e dell'antipolitica dopo due ore di nuoto. Il "Servizio Pubblico" ha dedicato alla nuotata e al comizio effettuato appena toccata terra parecchi minuti e altrettanti e forse più al comizio successivo infarcito di parolacce ("cazzo", "coglioni" e "vaffa" punteggiavano quasi ogni frase).

L'ascolto ha avuto il 10,37 di share pari a 2 milioni e quattrocentomila spettatori; poi lo share è salito al 18 per cento restando tuttavia al terzo posto dopo Canale 5 e RaiUno. Non è moltissimo ma sono comunque cifre significative. Il fenomeno consiste nel fatto che Grillo non vuole a nessun patto andare in tv e rimbrotta, anzi scomunica, i pochi tra i suoi seguaci che trasgrediscono a quell'ordine.

Non vuole andare in tv perché sarebbe costretto a confrontarsi e a rispondere a domande e non vuole. Vuole soltanto monologare e se un giornalista lo insegue lo copre di contumelie. Quindi fugge dalla televisione ma le televisioni lo inseguono, lo riprendono, lo trasmettono. La Rete è gremita di video sul Grillo comiziante e monologante registrando milioni e milioni di contatti.

Conclusione: Beppe Grillo gode d'una posizione mediatica incomparabilmente superiore a quella di qualunque altro leader politico di oggi e di ieri. Una posizione che non gli costa nulla, neppure un centesimo, e gli garantisce un ascolto che si ripete fino al prossimo comizio del quale sarà lui a decidere il giorno, l'ora e il luogo. In Sicilia il suo candidato ha avuto il 18 per cento dei voti e il suo Movimento il 14. I sondaggi successivi al voto siciliano lo collocano attorno al 22 per cento. Quale sia il programma del M5S resta un mistero salvo che vuole mandare tutti i politici di qualunque partito a casa o meglio ancora in galera perché "cazzo, hanno rubato tutti, sono tutti ladri". Monti "è un rompicoglioni che affama il popolo". E "Napolitano gli tiene bordone". Sul suo "blog" uno dei suoi seguaci ha già costruito la futura architettura politica: al Quirinale Di Pietro, capo del governo e ministro dell'Economia Beppe in persona, De Magistris all'Interno, Ingroia alla Giustizia, Saviano all'Istruzione. Quest'ultimo nome sarebbe una buona idea ma penso che il nostro amico non accetterebbe quella compagnia. Per gli altri c'è da rabbrividire e chi può farebbe bene ad espatriare. Resta da capire perché mai alcune emittenti televisive si siano trasformate in amplificatori di questo populismo eversivo. Resta la domanda: perché lo fanno?

* * *
La risposta l'ha data una persona che ha un suo ruolo nella cultura italiana anche se ha sempre dato prova di notevole bizzarria (uso un eufemismo) intellettuale: Paolo Flores d'Arcais in un articolo sul Fatto quotidiano di qualche giorno fa intitolato "Matteo Renzi è pessimo ma io lo voterò" racconta le sue intenzioni delle prossime settimane. Nella prima metà dell'articolo dimostra, citando fatti, dichiarazioni e testi, perché Renzi a suo giudizio è quanto di peggio e di più lontano da una sinistra radicale e riformista.

Fornita questa dimostrazione Flores dice che proprio questa è la ragione per cui darà il suo voto nelle primarie del prossimo 25 novembre a Matteo Renzi: perché se Renzi vincerà il Pd si sfascerà e questo è l'obiettivo desiderato da Flores, il quale alle elezioni (così prosegue il suo articolo) voterà per Grillo. Ma perché? Perché Grillo sfascerà tutto e manderà tutti a casa o in galera, da Napolitano a Bersani ad Alfano a Casini, da Berlusconi a D'Alema a Bossi, fino a Monti, Passera, Fornero, Montezemolo... insomma tutti. La palingenesi? Esattamente, la palingenesi. E poi? Poi verrà finalmente il partito d'azione, quello vagheggiato dai fratelli Rosselli e da pochi altri. Verrà e sarà un partito di massa. Guidato da lui? Questo Flores non lo dice. E con chi? Ma naturalmente con Travaglio, con Santoro e con tanti altri che hanno in testa disegni così ardimentosi.
A me sembrano alquanto disturbati o bizzarri che dir si voglia, altro non dico.

* * *
Resta ancora in piedi il problema di Mario Monti e della sua cosiddetta agenda. Le Cancellerie europee e Obama (con un fervido "in bocca al lupo" per lui) lo vorrebbero ancora alla guida del futuro governo, ma la volontà degli elettori italiani non può esser condizionata da governi stranieri sia pure strettamente a noi alleati. Sulla sua credibilità l'attuale classe dirigente è interamente d'accordo, ma sulla sua agenda ci sono molte riserve. Quanto a Grillo la sua opposizione a Monti è totale. Faccio in proposito le seguenti riflessioni.

1. La credibilità di Monti è strettamente legata alla sua agenda, in parte già attuata in parte non ancora. Se il futuro governo dovesse smantellare la politica economica di Monti la credibilità dell'Italia crollerebbe con tutte le conseguenze che ne deriverebbero. Un esempio per tutti: se futuri investimenti dovranno essere finanziati con un deficit di bilancio e quindi con un ulteriore aumento del debito pubblico, i mercati porterebbero lo spread ad altezze vertiginose con effetti devastanti sul valore del nostro debito, sulla solidità del nostro sistema bancario e sui tassi d'interesse.

2. Il fallimento della Grecia può essere sopportato sia pure con molte difficoltà dall'Europa ma l'eventuale default dell'Italia no, perché porterebbe con sé il fallimento dell'intera Unione. Quindi metterebbe in moto un vero e proprio commissariamento del nostro Paese o la nascita di un euro a doppia velocità nel quale noi saremmo relegati nel girone di serie B. Un disastro di proporzioni enormi, come o peggio d'una guerra perduta.

3. Lo Stato italiano ha assunto una fitta rete di impegni con l'Unione europea e li ha recepiti nella nostra Costituzione. Il mancato rispetto di quegli impegni sconvolgerebbe dunque non solo l'economia ma anche il nostro assetto giuridico e costituzionale.

Ce n'è abbastanza per concludere: in gioco non c'è Monti ma l'Italia. Esistono ovviamente margini di discrezionalità per accelerare il bilancio economico e l'equità sociale, ma il solo modo per renderli compatibili con la situazione esistente è di operare sulla crescita della produttività, su una ridistribuzione importante del reddito e della vendita di un parte del patrimonio pubblico. Non vedo altre vie per il semplice fatto che non esistono.

Occorre però che il futuro governo abbia il suo asse nel Centro e nella Sinistra democratica. Si chiama appunto centro sinistra, che unisca in unico disegno riformisti e moderati liberali. A Casini riesce ancora difficile congiungere la parola liberale con quella di moderato, ma bisogna che lo faccia intendendo per liberali non quelli di Oscar Giannino ma i liberal.

Ho sentito pochi giorni fa che Vendola dichiara come punto di riferimento per lui la politica del Roosevelt del 1933. Se questo è vero, il punto di riferimento italiano sarebbe Ugo La Malfa e quello francese Mendés France. Se così stanno le cose Vendola entri nel Pd, quello che nacque cinque anni fa al Lingotto di Torino e che Bersani attualmente rappresenta: un partito che, nel rispetto degli impegni europei, vuole costruire un Paese più produttivo, più equo e che abbia il lavoro come sua prima priorità. L'alternativa, se questo disegno fosse sconfitto, è chiara: ritorno alla lira, discesa del reddito reale a livelli ancora più bassi, disoccupazione endemica, mafie e lobby onnipotenti, democrazia puramente nominale. La scelta la farà il popolo sovrano e speriamo sia quella giusta.

18.4.11

Francia e Italia i due populismi

di BERNARDO VALLI

Da alcune settimane due populismi si scontrano in Europa offrendo uno spettacolo tutt'altro che edificante. Direi miserabile. L'aggettivo non è troppo forte, perché al centro della contesa ci sono quei profughi, economici o politici, la classificazione è spesso cancellata dal dramma umano, che ogni giorno approdano sulle nostre sponde dopo avere visto affogare non di rado nelle acque del Mediterraneo figli, genitori, amici. Nelle stesse acque nelle quali noi europei cominceremo presto a fare i nostri bagni estivi.

Il presidente del Consiglio ha definito quell'esodo uno "tsunami", cioè una catastrofe naturale, un fenomeno maturato nelle viscere del Mediterraneo e quindi senza volto. Insomma, una sciagura da scongiurare. Francia e Italia si comportano appunto come se quei profughi fossero un'onda di maremoto.
La tenzone tra i due populismi ha assunto toni grotteschi nelle ultime ore a Ventimiglia, al confine tra Francia e Italia, dove di solito transitano fortunati turisti o pendolari del posto tra la nostra Riviera e la Costa Azzurra, e dove hanno fatto irruzione gruppi di quei profughi reduci dalla spesso tragica traversata del Mediterraneo. Il governo italiano li ha dotati di permessi provvisori a suo avviso conformi agli accordi di Schengen. Ma il governo parigino, tramite il prefetto delle Alpi Marittime, ha impedito senza preavviso ai treni provenienti dall'Italia di varcare la frontiera, al fine di impedire il loro ingresso in Francia.

Due comportamenti che offrono, in egual misura, un'immagine non certo
nobile dell'Europa. Non è per motivi umanitari che il governo italiano ha dotato i migranti, per lo più tunisini, di permessi non riconosciuti validi, a torto o a ragione, dai francesi. Si tratta di una evidente, furba mossa per sbarazzarsene. Ed è per un'altrettanto furba mossa che il prefetto delle Alpi Marittime, ubbidendo al suo ministro dell'Interno, ha adottato l'interpretazione parigina degli accordi di Schengen, o ha preso come pretesto la modesta manifestazione franco-italiana in favore dei migranti in corso a Ventimiglia, per respingere i tunisini, molti dei quali hanno parenti in Francia.

Da parte italiana ci si è risentiti anche perché autentici cittadini della Repubblica italiana non hanno potuto varcare il confine, per via dei treni sospesi. Al colmo dell'indignazione, il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha chiesto al nostro ambasciatore di esprimere una ferma protesta al governo francese. Un incidente diplomatico prodotto da due meschine furbizie a confronto, che interviene in un momento di difficili rapporti tra Roma e Parigi, ed anche di isolamento di Roma nell'Unione europea, dove si evita spesso di familiarizzare con l'odierna Italia politica.

Una crescente ondata di populismo accomuna Italia e Francia e al tempo stesso inasprisce il loro dissenso. A Roma il governo dipende da un partito xenofobo, indispensabile alla maggioranza parlamentare, e solerte nell'alimentare i sentimenti contro gli immigrati. Un dirigente della Lega occupa addirittura il ministero dell'Interno.

A Parigi, a un anno dalle elezioni presidenziali, Nicolas Sarkozy conosce i peggiori sondaggi. L'ultimo gli aggiudica il 28 per cento dei consensi, un quoziente che potrebbe annunciare un'impossibile riconferma alla testa della Quinta Repubblica, nel caso Sarkozy intendesse riproporsi. E che, in tal caso, non esclude neppure un'umiliante eliminazione al primo turno. Quest'ultima ipotesi potrebbe avverarsi se la candidata del Front National, Marine Le Pen, andasse al voto decisivo del secondo turno con il campione della sinistra, ancora da designare.
Nicolas Sarkozy cerca dunque di recuperare i voti dell'estrema destra. I quali decisero la sua elezione quattro anni or sono, ma che, stando ai sondaggi, sarebbero stati riassorbiti nel frattempo dal Front National, da quando la figlia di Jean-Marie Le Pen, il fondatore, ha rinnovato, modernizzato, il discorso dell'ormai vecchio padre. A differenza della Lega, xenofoba ma anche anti-nazionale, il Front National è xenofobo e nazionalista. Entrambi i partiti hanno in comune l'avversione per gli immigrati. Ed è insistendo su questo tema, sia pur nei limiti impostigli dalla carica, che Nicolas Sarkozy spera di recuperare i consensi perduti. Il suo discorso ha compiuto una sterzata in direzione dell'estrema destra. Il rifiuto dei profughi dirottati verso la Francia dal governo italiano è l'evidente conseguenza dell'attuale politica di Sarkozy. Non a caso il suo ministro dell'Interno ha appena proposto di ridurre anche il numero degli immigrati legali.

Cosi i due populismi giocano con i migranti come se fossero una calamità, come se fossero oggetti destinati a far perdere voti. La Lega governa a Roma e il Front National minaccia politicamente il presidente a Parigi. Umberto Bossi appoggia la ridicola idea di boicottare champagne e camembert; e il prefetto delle Alpi Marittime, ubbidendo a ordini superiori, ferma i treni italiani alla frontiera.

5.12.10

Umberto Eco e l'Italia a 150 anni. I poveri della tv e i ricchi del web

di Gianni Riotta

«L'identità italiana dei prossimi 150 anni?». Umberto Eco sorride nel suo salone, all'ombra del Castello Sforzesco di Milano, davanti all'impossibile domanda. È tornato da poco da Parigi, alla riunione di redazione del quotidiano gauchiste «Liberation» gli han chiesto come sempre de "les Italiens", e ha provato a rispondere «occhio piuttosto ai movimenti culturali che politici, occhio alle università».

E a pochi giorni dal 150º compleanno del paese, provando a guardare a quali idee uniranno – o divideranno come presagisce nel suo romanzo Il cimitero di Praga – le prossime generazioni, il pioniere della semiologia azzarda «Giudica da televisione e internet. La tv ha fatto bene ai poveri e male ai ricchi. Internet male ai poveri e bene ai ricchi».

Sembra un paradosso dritto dai tempi de «Apocalittici e integrati», il saggio di Eco che diede alla cultura di massa dignità di "cultura", fece incavolare ermellini e parrucconi del 1964, animando oggi 7580 siti sul web: «La televisione diede un linguaggio ai poveri, la lingua nazionale italiana. Può darsi che la parlassero con i tic di Mike Bongiorno ma comunque la impararono. La classe colta, i ricchi dico per ironia, magari invece abbandonarono la lettura di Marcel Proust e de La ricerca del tempo perduto, per quiz e varietà. L'esatto contrario con il web. I poveri, chi non ha gli strumenti di cultura del nuovo sapere, rischia di perdersi nell'oceano di informazione della rete, finendo nei siti dei complottisti, dei populisti. Non imparano nuove informazioni, ma si intossicano di menzogne. I ricchi, i colti, possono scrivere una tesi di esegesi bliblica cliccando su una tastiera».

Si chiama "digital divide", la barriera culturale prodotta dal web e potrebbe essere questo il ponte levatorio del nuovo Castello del potere nel prossimo secolo e mezzo nazionale. Un compleanno che Eco festeggia con moderato entusiasmo, «Il paese mi sembra avere perduto energia morale, forza. È come se fosse narcotizzato. Io sono stanco di vedere la nostra identità maltrattata all'estero dagli analisti.

Ancora due o tre anni fa ci compativano, "poveracci vi siete ridotti male", adesso quasi si incavolano "perché non reagite?" come se le identità, il consenso nazionale, fossero facili schemi da ribaltare». E prima di arrivare alla sua, preoccupata, vista sull'Italia 2010- 2011, Eco torna agli anni della fondazione, ai mito del Risorgimento.

«Gli Stati Uniti hanno avuto una guerra civile, e tragica, ma già col romanzo di Margaret Mitchell del 1936, e tre anni dopo con il filmone, Via col Vento prodotto da Selznick, provarono a darsi una visione unitaria, nazionale, dove yankee e confederati potessero darsi conto reciprocamente delle ragioni. Esercizio per noi italiani impossibile. Non solo ci siamo divisi tra guelfi e ghibellini, ma poi tra bianchi e neri, in un caleidoscopio perenne di fazioni e gruppi. Che non ci ha dato serenità politica».

Per Eco è la cultura ad avere unito il paese, prima che politica e istituzioni ci provassero con alterne fortune: «Abbiamo una tradizione comunale di faide. Se oggi quella lacerazione è incarnata al Nord dalla Lega, non dimenticare che al Sud sono sempre rimaste attive spinte autonomistiche, separatiste, in Sicilia, in Sardegna. Il mito del Risorgimento, contestato o no, è contrapposto a un mito del regno Borbonico, che non ho mai condiviso. Per dirla tutta, se oggi c'è la monnezza in strada a Napoli è per il retaggio peggiore di quella tradizione.

E, con freddezza storica, dobbiamo ammettere che i piemontesi» – e qui Eco parla da piemontese doc, come il senatore Chevalley del Gattopardo – «fecero un sacco di cavolate, repressero dove dovevano riformare, ma credo che alla fine l'Italia unita sia un paese, e una comunità, migliore di quella che avremmo ereditato da Granducati di Toscana e Borboni. Sarebbe bene che Nord e Sud accettassero questa morale».

Per capire però il Dna profondo degli italiani a 150 anni, Eco chiama a un precoce sforzo globale. Considera il nostro paese «la prima nazione globale», quando ancora al posto del computer si usavano incunaboli. «La nostra identità è cosmopolita. In politica perché ogni castello chiamava lo straniero ad allearsi contro il castello contiguo. E in cultura perché la capacità "globale" dei nostri classici, ha fatto loro perdere italianità.

I francesi tendono ad annetterseli, considerano francesi Leonardo e Modigliani, gli spagnoli apprezzano un italiano come cugino, gli inglesi e i tedeschi guardano ai valori umanistici, come se Dante fosse compatriota di Shakespeare e Goethe e Machiavelli di Hegel. Se l'italiano è, e resta, esterofilo, gli stranieri tendono a assumerlo come un internazionale cosmopolita. Io sono arrivato in America più spesso invitato dagli istituti di cultura francese che da quelli di italianistica...».

Come ce la siamo cavata però per secoli, arrivando oggi malgrado tutto a essere la seconda industria d'Europa e una delle prime nel mondo, pur con un paese povero di risorse e di unità politica? «Perché ce la caviamo, siamo abituati a tenere duro, a creare, inventare, il Rinascimento è invenzione, il boom economico degli anni 60 invenzione. Sai da dove viene la parola kitsch secondo alcune etimologie? Da sketch, gli schizzi alla buona che gli artisti di strada vendevano ai turisti gentlemen inglesi del passato. Già allora riciclavamo le glorie, un marketing alla buona».

E oggi? Fabio Fazio ha chiesto a Eco, protagonista delle avanguardie alla Gruppo '63, collaboratore di «Espresso» e «Manifesto», se l'aggettivo "disperato" usato dal Sole per recensire il suo ultimo romanzo fosse azzeccato e la risposta, in tv, come qui, è la stessa: «Invecchiando ci si fa pessimisti. La sinistra aveva la carta Prodi e l'ha bruciata per due volte, proprio per quelle faide di fazione ancestrali. E la destra ha un leader che rappresenta tanti italiani nei loro tic e desideri, dà l'illusione di stare nella modernità, ma poi non ha riformato il paese. Ci vorrebbe un Comitato di salute pubblica, un governo unitario che lavorasse sui problemi, ma non vedo una classe politica, o un'opinione pubblica, capace di generarlo».

Disperazione o pessimismo non allontanano Umberto Eco dal lavoro: «I giovani li leggo, Ammaniti, Nove, la Avallone, sono bravi. Al cinema invece vado poco, solo i classici. Quando è rinata la rivista "Alfabeta" ho chiesto che venissero costituiti dei comitati di giovani laureati a Bologna, a Torino, a Roma, per dare la possibilità a tanti giovanissimi pieni di ingegno e senso critico. Ma il fatto politico più nuovo è passato dalla tv, il Vieni via con me di Fabio Fazio e Roberto Saviano. Oltre le ideologie del Novecento, m'è sembrato un modo di guardare al di là della politica, al di là dei partiti, cercando la cultura che ci unisca». È stato, per Eco, il regalo di compleanno all'Italia, nel compleanno numero 150.

24.11.10

L'osceno normalizzato

di BARBARA SPINELLI

Ci fu un tempo, non lontano, in cui era vero scandalo, per un politico, dare a un uomo di mafia il bacio della complicità. Il solo sospetto frenò l'ascesa al Quirinale di Andreotti, riabilitato poi dal ceto politico ma non necessariamente dagli italiani né dalla magistratura, che estinse per prescrizione il reato di concorso in associazione mafiosa ma ne certificò la sussistenza fino al 1980. Quel sospetto brucia, dopo anni, e anche se non è provato ha aperto uno spiraglio sulla verità di un lungo sodalizio con la Cupola. Chi legga oggi le motivazioni della condanna in secondo grado di Dell'Utri avrà una strana impressione: lo scandalo è divenuto normalità, il tremendo s'è fatto banale e scuote poco gli animi.

Nella villa di Arcore e negli uffici di Edilnord che Berlusconi - futuro Premier - aveva a Milano, entravano e uscivano con massima disinvoltura Stefano Bontate, Gaetano Cinà, Mimmo Teresi, Vittorio Mangano, mafiosi di primo piano: per quasi vent'anni, almeno fino al '92. Dell'Utri, suo braccio destro, era non solo il garante di tutti costoro ma il luogotenente-ambasciatore. Fu nell'incontro a Milano della primavera '74 che venne deciso di mandare ad Arcore Mangano: che dovremmo smettere di chiamare stalliere perché fu il custode mafioso e il ricattatore del Cavaliere. Quest'ultimo lo sapeva, se è vero che fu Bontate in persona, nel vertice milanese, a promettergli il distaccamento a Arcore d'un "uomo di garanzia".

La sentenza attesta che Berlusconi era legato a quel mondo parallelo, oscuro: ogni anno versava 50 milioni di lire, fatti pervenire a Bontate (nell'87 Riina chiederà il doppio). A questo pizzo s'aggiunga il "regalo" a Riina (5 milioni) per "aggiustare la situazione delle antenne televisive" in Sicilia. Fu Dell'Utri, ancor oggi senatore di cui nessuno chiede l'allontanamento, a consigliare nel 1993 la discesa in politica. Fedele Confalonieri, presidente Mediaset, dirà che altrimenti il Cavaliere sarebbe "finito sotto i ponti o in galera per mafia" (la Repubblica, 25-6-2000). Il 10 febbraio 2010 Dell'Utri, in un'intervista a Beatrice Borromeo sul Fatto, spiega: "A me della politica non frega niente, io mi sono candidato per non finire in galera".

C'è dell'osceno in questo mondo parallelo, che non è nuovo ma oggi non è più relegato fuori scena, per prudenza o gusto. Oggi, il bacio lo si dà in Parlamento, come Alessandra Mussolini che bacia Cosentino indagato per camorra. Dacci oggi il nostro osceno quotidiano. Questo il paternoster che regna - nella Mafia le preghiere contano, spiega il teologo Augusto Cavadi - presso il Premier: vittima di ricatti, uomo non libero, incapace di liberarsi di personaggi loschi come Dell'Utri o il coordinatore Pdl in Campania Cosentino. Ai tempi di Andreotti non ci sarebbe stato un autorevole commentatore che afferma, come Giuliano Ferrara nel 2002 su Micromega: "Il punto fondamentale non è che tu devi essere capace di ricattare, è che tu devi essere ricattabile (...) Per fare politica devi stare dentro un sistema che ti accetta perché sei disponibile a fare fronte, a essere compartecipe di un meccanismo comunitario e associativo attraverso cui si selezionano le classi dirigenti. (...) Il giudice che decide il livello e la soglia di tollerabilità di questi comportamenti è il corpo elettorale".

Il corpo elettorale non ha autonoma dignità, ma è sprezzato nel momento stesso in cui lo si esalta: è usato, umiliato, tramutato in palo di politici infettati dalla mafia. Gli stranieri che si stupiscono degli italiani più che di Berlusconi trascurano spesso l'influenza che tutto ciò ha avuto sui cervelli: quanto pensiero prigioniero, ma anche quanta insicurezza e vergogna di fondo possa nascere da questo sprezzo metodico, esibito.
Ai tempi di Andreotti non conoscemmo la perversione odierna: vali se ti pagano. La mazzetta ti dà valore, potere, prestigio. Non sei nessuno se non ti ricattano. L'1 agosto 1998, Montanelli scrisse sul Corriere una lettera a Franco Modigliani, premio Nobel dell'economia: "Dopo tanti secoli che la pratichiamo, sotto il magistero di nostra Santa Madre Chiesa, ineguagliabile maestra d'indulgenze, perdoni e condoni, noi italiani siamo riusciti a corrompere anche la corruzione e a stabilire con essa il rapporto di pacifica convivenza che alcuni popoli africani hanno stabilito con la sifilide, ormai diventata nel loro sangue un'afflizioncella di ordine genetico senza più gravi controindicazioni".

In realtà le controindicazioni ci sono: gli italiani intuiscono i danni non solo etici dell'illegalità. Da settimane Berlusconi agita lo spettro di una guerra civile se lo spodestano: guerra che nella crisi attuale - fa capire - potrebbe degenerare in collasso greco. È l'atomica che il Cavaliere brandisce contro Napolitano, Fini, Casini, il Pd, i media. I mercati diventano arma: "Se non vi adeguate ve li scateno contro". Sono lo spauracchio che ieri fu il terrorismo: un dispositivo della politica della paura. Poco importa se l'ordigno infine non funzionerà: l'atomica dissuade intimidendo, non agendo. Il mistero è la condiscendenza degli italiani, i consensi ancora dati a Berlusconi. Ma è anche un mistero la loro ansia di cambiare, di esser diversi. Il loro giudizio è netto: affondano il Pdl come il Pd. Premiano i piccoli ribelli: Italia dei Valori, Futuro e Libertà. Se interrogati, applaudirebbero probabilmente le due donne - Veronica Lario, Mara Carfagna - che hanno denunciato il "ciarpame senza pudore" del Cavaliere, e le "guerre per bande" orchestrate da Cosentino. Se interrogati, immagino approverebbero Saviano, indifferenti all'astio che suscita per il solo fatto che impersona un'Italia che ama molto le persone oneste, l'antimafia di Don Ciotti, il parlar vero.

Questa normalizzazione dell'osceno è la vita che viviamo, nella quale politica e occulto sono separati in casa e non è chiaro, quale sia il mondo reale e quale l'apparente. Chi ha visto Essi Vivono, il film di John Carpenter, può immaginare tale condizione anfibia. La doppia vita italiana non nasce con Berlusconi, e uscirne vuol dire ammettere che destra e sinistra hanno più volte accettato patti mafiosi. C'è molto da chiarire, a distanza di anni, su quel che avvenne dopo l'assassinio di Falcone e Borsellino. In particolare, sulla decisione che il ministro della giustizia Conso prese nel novembre '92 - condividendo le opinioni del ministro dell'Interno Mancino e del capo della polizia Parisi - di abolire il carcere duro (41bis) a 140 mafiosi, con la scusa che esisteva nella Mafia una corrente anti-stragi favorevole a trattative. Congetturare è azzardato, ma si può supporre che da allora viviamo all'ombra di un patto.

Il patto non è obbligatoriamente formale. L'universo parallelo ha le sue opache prudenze, ma esiste e contamina la sinistra. In Sicilia, anch'essa sembra costretta a muoversi nel perimetro dell'osceno. Osceno è l'accordo con la giunta Lombardo, presidente della Regione, indagato per "concorso esterno in associazione mafiosa". Osceno e tragico, perché avviene nella ricerca di un voto di sfiducia a Berlusconi.

Non si può non avere un linguaggio inequivocabile, sulla legalità. Non ci si può comportare impunemente come quando gli americani s'intesero con la Mafia per liberare l'Italia. L'accordo, scrive il magistrato Ingroia, fu liberatore ma ebbe l'effetto di rendere "antifascisti i mafiosi, assicurando loro un duraturo potere d'influenza". Non è chiaro quel che occorra fare, ma qualcosa bisogna dire, promettere. Non qualcosa "di sinistra", ma di ben più essenziale: l'era in cui la Mafia infiltrava la politica finirà, la legalità sarà la nuova cultura italiana.
Fino a che non dirà questo il Pd è votato a fallire. Proclamerà di essere riformista, con "vocazione maggioritaria", ma l'essenza la mancherà. Non sarà il parlare onesto che i cittadini in fondo amano. Si tratta di salvare non l'anima, ma l'Italia da un lungo torbido. Sarebbe la sua seconda liberazione, dopo il '45 e la Costituzione. Sennò avrà avuto ragione Herbert Matthew, il giornalista Usa che nel novembre '44, sul mensile Mercurio, scrisse parole indimenticabili sul fascismo: "È un mostro col capo d'idra. Non crediate d'averlo ucciso".

6.3.10

Alle radici del declino

di Rossana Rossanda

Sull'Italia dilaga un fiume di fango, scrive Alberto Asor Rosa. Lo ripete Alberto Burgio. È appena uscito da Bollati Boringhieri il libro di Franco Cordero, Il brodo delle Undici - quello che veniva dato al condannato prima di impiccarlo - dove il più erudito e iracondo dei nostri giuristi dipinge, dopo un primo capitolo di malefatte passate, l'Italia di Berlusconi.
Perché questa massa maleodorante dilaga ora? E a chi imputarla? Al solo Berlusconi? I suoi interessi, pensamenti e modi - fra i suoi difetti non c'è l'ipocrisia, se mai l'improntitudine - erano noti agli italiani che lo hanno votato tre volte, e ogni volta per tempi più lunghi. Erano stati assai più cauti verso Bettino Craxi, che di Berlusconi era l'amico e l'uomo contro il quale Enrico Berlinguer scagliò la questione morale.
C'è dunque un'inclinazione italica al corrompere e all'essere corrotto, dovuta ai secoli di servaggio sotto lo straniero o a prepotenti signorie nostrane, con il luminoso intervallo dell'età comunale? Ma anche in quello Dante pescò dei malversatori del suo inferno, e Petrarca sedeva mesto sull'Arno mirando le piaghe mortali dell'Italia sua. Per dire che sembra fatale l'appiccicarsi al potere di una dose di malcostume. Non c'è paese del resto dove gli scandali non avvengano, e siamo appena emersi - anzi siamo dentro ancora - da una tempesta mondiale di delitti finanziari, a quanto pare assai difficili da punire e da prevenire, e per somme così strabilianti che i cinquemila euro pubblici fatti erogare dall'ex sindaco di Bologna alla donna del suo cuore, per non dire i mille o duemila alle ospiti di Berlusconi, sembrano un caffè. E tuttavia non si può dire che la principale caratteristica degli Usa di Madoff sia la malversazione diffusa, accompagnata dal dileggio per la magistratura e mutamenti delle leggi per favorire il presidente. Invece da noi sì. Parlare dell'Italia significa parlare di questo, tanto che all'estero è diventato fair play non parlarne affatto. Siamo scomparsi dalla scena internazionale.
Com'è che siamo finiti così? Già avevamo inventato il fascismo appena conclusa l'unità nazionale, ma anche dopo il duro risveglio della guerra e una resistenza che volle ripulire il paese e si dette una delle migliori costituzioni europee non mancarono le porcherie. Per non parlare della mafia e della camorra, percepite come un male genetico, il malcostume privato/politico fu pressante sempre, da Lauro che comprava voti con pacchi di pasta, ad altri esempi che non potevano ridursi a malcostume locale.
Non lo furono certo i misfatti della Federconsorzi di Bonomi, le oscurità della Cassa del Mezzogiorno, lo scandalo Lockheed (giusto, chi sarà mai stato Antelope Cobbler?) per citare i primi che mi vengono in mente, e per tacere di Gladio e dei servizi perpetuamente deviati. Tutto questo stava sulle spalle della Democrazia cristiana, il partito fatto stato, ma - disse Aldo Moro in parlamento senza che volassero gli scranni - la Democrazia cristiana non si processa. E infatti non seppero leggere il suo memoriale non solo le Brigate Rosse, travolte dal suo sequestro e uccisione, ma neanche le due Camere delle Commissione di inchiesta. Distratte? Complici?
Non penso. In tempi più seri, Pci e il primo Psi invitavano a non confondere classe dominante e forchettoni, e a delineare diverse responsabilità e colpe dell'una e degli altri, facendo emergere alle Camere o nei consigli comunali, come nel caso di Roma, gli scandali e a far passare, a prescindere dai numeri di maggioranza e opposizione, le sole riforme che fece il paese. Non si identificò mai l'Italia e né la detestata Democrazia cristiana ai suoi, grossi, episodi di malcostume.
Nel corso degli anni '70 la scena politica cambiò. Il Pci perseguì inutilmente un accordo «storico» con la Dc, disarmando e dividendo l'opposizione formale, e disorientando le liste di sinistra. Con la morte di Moro la Dc, che non aveva cercato di salvarlo come lui chiedeva e avrebbe fatto se al suo posto per un altro, restava nel massimo della confusione, mentre a Berlinguer veniva meno il solo interlocutore che scopriva di avere forse avuto, rendendo del tutto vana la strategia che aveva perseguito. Di colpo nel '79 cambiava linea; ostacolato da un gruppo dirigente e dai quadri locali che andarono invece in cerca di «larghe intese» i cui soli risultati furono lo smisurato crescere dei costi del ceto politico e la fine di ogni opposizione parlamentare e popolare.
Così una maggioranza senza più un vero capo e una sinistra scombussolata andarono incontro senza vederla a una offensiva capitalistica su scala mondiale che innescava una inversione di tendenza, riorganizzando brutalmente la proprietà e l'organizzazione del lavoro. Nel 1984 il referendum sulla scala mobile vedeva, per la prima volta dal 1948, una disfatta dei lavoratori e, tre anni dopo, le elezioni del 1987 disegnavano l'incrinarsi degli equilibri della prima repubblica. Ancora due anni e su un Pci già in difficoltà cadeva la mannaia dell'89, cui Occhetto porgeva volonterosamente il collo; a Craxi e al governo Dc-Psi Tangentopoli dava il colpo di grazia.
A distanza di diversi anni, si vede che ben pochi dei pesci imputati da Mani pulite sono rimasti nelle reti della giustizia. Ma l'impatto politico, sommato ai processi di cui sopra, fu enorme perché la corruzione non cessò di allargarsi. Sul paesaggio dei partiti devastati dai reciproci tsunami, scendeva in campo Berlusconi, simbolo del profitto, dell'azienda pura, della competitività senza scrupoli che di colpo si presentò come il solo ancoraggio solido rispetto alle fanfaluche «ideologiche» tipo le classi, lo sfruttamento del lavoro, la negatività della speculazione finanziaria e immobiliare, il primato del bene comune, e di un'etica pubblica, eccetera.
Ancoraggio solido e di manica larga. Se il suo unico comandamento era produrre al prezzo più basso, cessare ogni mediazione sociale per far largo al capitale e agli azionisti, vendere ai ricchi e obbligare anche i più poveri a comprare quel che non potevano più produrre (che altro è l'Africa?), speculare a man salva sull'azzardo e l'inesistente, perché demonizzare qualche furbizia, qualche chiusura di un occhio, qualche mercanteggiamento della cosa pubblica? In fondo negli Usa la compravendita dei membri del Congresso e del Senato è legittimata dalle lobbies, con le quali sta trattando Obama, per far passare almeno un terzo del suo progetto di riforma sanitaria.
Da noi la lobby più potente è una maggioranza blindata con il voto di fiducia, dal quale nessuno può sciogliersi senza perire. Le istituzioni perdono ogni natura neutra se mai l'avevano avuta, e a ogni buono conto si privatizzano funzioni o beni già pubblici. Se la legge vi si oppone, si cambia la legge. Il parlamento si potrebbe anche chiudere, come Berlusconi non ha esitato a dire proponendo che vi siedano a votare solo i capi gruppo in proporzione degli elettori che rappresentano, e neanche questa volta le Camere si sono levate ululando. Il nostro uomo ha il livello culturale di Sarah Palin e la mancanza di scrupoli di Dick Cheney. Solo che meta degli americani ha votato contro i due, e un po' più di metà degli italiani si esprime per lui.
Negli anni fra i Settanta e gli Ottanta stanno le radici dell'attuale espandersi della malapianta. Contro la quale si erge senza tentennamenti soltanto un magistrato ambizioso per il quale la società tutta si spiega e divide fra onesti e corrotti. Dapprima aveva proposto questa filosofia agli industriali riuniti in Cernobbio, ora ha fortuna presso il popolo, più o meno viola, di una ex sinistra, dimissionaria o a pezzi.
E poi c'è chi arzigogola sull'origine dell'antipolitica.