22 febbraio 1550. Dopo 10 settimane di conclave, Giovan Maria Ciocchi del Monte viene eletto pontefice, nonostante il mancato sostegno dell'imperatore Carlo V Tra luci e ombre, il suo regno è strettamente legato alla figura del cardinale Innocenzo suo favorito e presunto amante
Claudio Rendina (La Repubblica)
È durato tre mesi il conclave che ha eletto pontefice il cardinale Giovanni Maria Ciocchi del Monte; è consacrato il 22 febbraio 1550 assumendo il nome di Giulio III e si delinea subito come un papa fortemente votato ai fasti rinascimentali, alle feste, ai banchetti che accompagnano la sua elezione. Coltiva l'omosessualità con ragazzi e uomini adulti, non badando a nasconderla; ordina la costruzione sulla via Flaminia della villa che sarà poi nominata Giulia dal suo nome, destinata a ospitare ogni tipo di orge. Inoltre, il papa pensa a sistemare il suo amante diciottenne, Santino, «pezzente ragazzo», secondo una qualifica di Antonio Muratori; secondo alcuni pettegolezzi, il ragazzo sarebbe addirittura il figlio naturale del pontefice. Santino è nato «da una povera donna che andava accattando», ribattezzato da Giulio III con il nome di Innocenzo e con il cognome della sua famiglia, grazie all'adozione da parte del fratello Bartolomeo. Il papa «se lo è preso in camera e nel proprio letto» e ha provveduto a farlo «ammaestrare nelle lettere e civilmente educare», iscrivendolo fin dall'età di 12 anni alla «ecclesiastica milizia», assegnandogli da cardinale il titolo di parroco della cattedrale di Arezzo, e pochi mesi dopo la nomina pontificia, il 31 maggio, conferendogli il titolo cardinalizio di San Teodoro.
Non finisce qui l'attenzione del pontefice verso l'amante preferito perché, come riferisce sempre il Muratori, «l'empiè fino alla gola di benefizi e di rendite ecclesiastiche», che assommano a 36 mila scudi; Innocenzo viene nominato anche legato di Bologna e della Romagna, nonché protettore dei Catecumeni, ed è messo a capo delle tre abbazie di San Saba, Miramondo e Santa Maria di Grottaferrata. E non finiscono qui le nomine prestigiose, perché il pontefice arriva ad affidare al suo favorito addirittura la Segreteria di Stato, anche se solo nominalmente perché Innocenzo è incapace di curare bene gli affari. Ultimo incarico a favore del giovane, lo nomina a cardinal nepote. A Innocenzo fanno capo le nunziature e i problemi di carattere politico; ma il giovane non ha le capacità necessarie, come per la Segreteria, tanto che si limita a firmare dispacci e a riscuotere le entrate della carica, mentre lo svolgimento degli affari è curato dal Segretario di Stato Girolamo Dandino. Al pontificato di Giulio III, caratterizzato dall'estrema licenziosità dei costumi, va il merito di aver riaperto il concilio di Trento nel 1551, confermando lo statuto dei Gesuiti, ai quali il papa affida l'anno dopo il Collegio Romano e il Collegio Germanico, un abile mossa per tenere lontane da sé le reprimende moralistiche nei confronti della sua vita di corte. E ancora, apertosi il conflitto tra l'impero e la Francia, il pontefice combatte contro i Farnese, alleati del re di Francia, che difende i protestanti, ma di fronte a un conflitto che rischia di prolungarsi, si riappacifica con i Farnese e sospende il concilio, ritenendolo incapace di bloccare le ostilità. Quando nel 1555 Giulio III muore, il nuovo papa Marcello II non fa a tempo a reprimere le velleità di Innocenzo, perché dura in carica solo venti giorni. Va meglio al successivo pontefice Paolo IV, che lo fa imprigionare a Castel Sant'Angelo, prima di morire dopo soli tre mesi di pontificato. Così la sua sorte resta legata al nuovo papa Pio IV, che fa scarcerare Innocenzo dopo sedici mesi, spogliandolo però di tutti i suoi benefici e lasciandogli solo mille scudi, relegandolo a Pisa presso i Gesuiti, perché lo redimano. Ma Innocenzo non dà segni di pentimento, e quando viene fatto tornare a Roma il suo comportamento non è mutato, per cui il nuovo papa Pio V gli toglie il titolo cardinalizio e lo relega a Montecassino per una nuova riabilitazione. Innocenzo tornerà a Roma definitivamente perdonato per volere di Gregorio XIII, ma vivrà di stenti, finché morirà a 46 anni nel 1578.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
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22.2.15
Arte, politica e feste licenziose il Rinascimento di papa Giulio III
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20.4.11
Un Paese senza politica energetica
di Federico Rendina
Politica energetica cercasi disperatamente, e molto disordinatamente. Fino a ieri il nucleare era una meta sicura, in nome di un mea culpa politico ma anche tecnologico da tributare ad un referendum (quello del 1987) sciagurato.
Oggi è una meta da abbandonare o quantomeno sospendere per scelta di Governo, in nome di un sentimento popolare nato con Fukushima esattamente com'era nato allora, con Chernobyl. Opportunismi forse comprensibili, prudenze politiche che ben si spiegano con una nuova consultazione elettorale alle porte, e non solo con i più che doverosi interrogativi su un disastro nato in un Paese citato dai nostri paladini del nucleare come un esempio quasi universale di sicurezza nell'uso dell'atomo.
Dibattito scientifico? Rigore programmatico? Siamo in Italia signori. Il Paese della politica energetica che, semplicemente, non c'è. Lo dimostrano, un po' paradossalmente, proprio i due accadimenti maturati insieme, forse casualmente, proprio ieri: la cancellazione delle (peraltro zoppicanti) norme che dovevano spianare la strada al nuovo nucleare italiano, la bozza (pare definitiva) del decreto che ridisegna i nostri super-sussidi alle energie rinnovabili cercando di calibrarne la spesa a carico di tutti gli italiani con l'indubbia esigenza di dare ossigeno ad un settore che rappresenterà gran parte del nostro futuro energetico, industriale, tecnologico.
Lo stop al nucleare arriva sull'onda delle emozioni, del sentimento popolare di cittadini che aggiungono comprensibili timori allo sconcerto di una politica energetica che, semplicemente, non c'è. Un fantasma che ha attraversato le ultime legislature (di destra, ma anche di sinistra) senza saper trasmettere né una rotta precisa né un obiettivo realmente comprensibile, né un quadro di regole coerenti né opzioni chiare.
Sì ai nuovi gasdotti e ai rigassificatori, ma no a vere corsie preferenziali per le autorizzazioni. Senza il coraggio (è solo un esempio) di cogliere la formidabile opportunità di regalare al nostro magnifico stivale un profittevole hub metanifero per l'intero continente. Sì alle rinnovabili, ma con elargizioni a pioggia senza alcun discrimine né tecnologico né legato a una corretta pianificazione territoriale che potesse evitare il fiorire, questo sì, della speculazione finanziaria piuttosto che dell'investimento sulla creazione di una vera filiera industrale nazionale (la Germania insegna, da tempo). Solo ora si tenta (qualche segnale c'è) di correre ai ripari.
Sì al "rinascimento" nucleare, ma con il sistematico mancato rispetto sia della tempistica che delle priorità promesse. Due anni di ritardo per la nascita dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, che ad oggi è ancora senza una sede. Neanche l'ombra di una soluzione (e neanche un orientamento) per risolvere il problema delle scorie atomiche, non solo quelle che vorremmo produrre dal "rinascimento", ma perfino quelle vecchie che vagano nei siti delle nostre centrali chiuse 25 anni fa (lì ben piazzate e non ancora smantellate).
E che dire dei due mega-piani che da anni vagano nelle intenzioni senza prendere alcuna forma. Ecco, evanescente, il piano nucleare nazionale che doveva tracciare un percorso operativo coerente per la costruzione delle nostre nuove centrali. Ed ecco la "madre" della riscossa: il nuovo Piano energetico nazionale, che indicasse una strategia coerente nel mix tra atomo, energie verdi, efficienza energetica, ammodernamento delle reti e relative misure di politica economica e industriale. «Arriverà con una conferenza nazionale entro fine anno» promettono quest'anno (come l'anno scorso, quello prima, quello prima ancora) i nostri governanti. Che con un pizzico di doveroso realismo ammettono, loro per primi, la grande falla. Non basta.
Politica energetica cercasi disperatamente, e molto disordinatamente. Fino a ieri il nucleare era una meta sicura, in nome di un mea culpa politico ma anche tecnologico da tributare ad un referendum (quello del 1987) sciagurato.
Oggi è una meta da abbandonare o quantomeno sospendere per scelta di Governo, in nome di un sentimento popolare nato con Fukushima esattamente com'era nato allora, con Chernobyl. Opportunismi forse comprensibili, prudenze politiche che ben si spiegano con una nuova consultazione elettorale alle porte, e non solo con i più che doverosi interrogativi su un disastro nato in un Paese citato dai nostri paladini del nucleare come un esempio quasi universale di sicurezza nell'uso dell'atomo.
Dibattito scientifico? Rigore programmatico? Siamo in Italia signori. Il Paese della politica energetica che, semplicemente, non c'è. Lo dimostrano, un po' paradossalmente, proprio i due accadimenti maturati insieme, forse casualmente, proprio ieri: la cancellazione delle (peraltro zoppicanti) norme che dovevano spianare la strada al nuovo nucleare italiano, la bozza (pare definitiva) del decreto che ridisegna i nostri super-sussidi alle energie rinnovabili cercando di calibrarne la spesa a carico di tutti gli italiani con l'indubbia esigenza di dare ossigeno ad un settore che rappresenterà gran parte del nostro futuro energetico, industriale, tecnologico.
Lo stop al nucleare arriva sull'onda delle emozioni, del sentimento popolare di cittadini che aggiungono comprensibili timori allo sconcerto di una politica energetica che, semplicemente, non c'è. Un fantasma che ha attraversato le ultime legislature (di destra, ma anche di sinistra) senza saper trasmettere né una rotta precisa né un obiettivo realmente comprensibile, né un quadro di regole coerenti né opzioni chiare.
Sì ai nuovi gasdotti e ai rigassificatori, ma no a vere corsie preferenziali per le autorizzazioni. Senza il coraggio (è solo un esempio) di cogliere la formidabile opportunità di regalare al nostro magnifico stivale un profittevole hub metanifero per l'intero continente. Sì alle rinnovabili, ma con elargizioni a pioggia senza alcun discrimine né tecnologico né legato a una corretta pianificazione territoriale che potesse evitare il fiorire, questo sì, della speculazione finanziaria piuttosto che dell'investimento sulla creazione di una vera filiera industrale nazionale (la Germania insegna, da tempo). Solo ora si tenta (qualche segnale c'è) di correre ai ripari.
Sì al "rinascimento" nucleare, ma con il sistematico mancato rispetto sia della tempistica che delle priorità promesse. Due anni di ritardo per la nascita dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, che ad oggi è ancora senza una sede. Neanche l'ombra di una soluzione (e neanche un orientamento) per risolvere il problema delle scorie atomiche, non solo quelle che vorremmo produrre dal "rinascimento", ma perfino quelle vecchie che vagano nei siti delle nostre centrali chiuse 25 anni fa (lì ben piazzate e non ancora smantellate).
E che dire dei due mega-piani che da anni vagano nelle intenzioni senza prendere alcuna forma. Ecco, evanescente, il piano nucleare nazionale che doveva tracciare un percorso operativo coerente per la costruzione delle nostre nuove centrali. Ed ecco la "madre" della riscossa: il nuovo Piano energetico nazionale, che indicasse una strategia coerente nel mix tra atomo, energie verdi, efficienza energetica, ammodernamento delle reti e relative misure di politica economica e industriale. «Arriverà con una conferenza nazionale entro fine anno» promettono quest'anno (come l'anno scorso, quello prima, quello prima ancora) i nostri governanti. Che con un pizzico di doveroso realismo ammettono, loro per primi, la grande falla. Non basta.
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