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26.11.18

Così Jean-Claude Juncker ha ucciso il sogno dell'Europa

Favori giganteschi alle multinazionali. Aiuti ai miliardari. E beffe ai cittadini. Ecco come il numero uno della Commissione ha scatenato il populismo
di Paolo Biondani e Leo Sisti

Una voragine nei conti dei 28 Paesi dell’Unione europea: mille miliardi di euro all’anno, tra elusione ed evasione fiscale. Multinazionali che non pagano le imposte e smistano decine di miliardi di dollari dei loro profitti, accantonati grazie a operazioni finanziarie privilegiate in Lussemburgo, verso altri paradisi rigorosamente “tax free”. Stati membri dell’Unione che si fanno concorrenza sleale sulle tasse. È disastroso il bilancio che sta lasciando Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, nonché ex padre-padrone del Granducato, mentre imbocca l’ultimo anno del suo mandato, in scadenza dopo le elezioni del 2019: il suo viale del tramonto. Ormai ogni giorno il numero uno della Ue deve incrociare i ferri con populisti e sovranisti, pronti a sfidare regole, limiti e vincoli europei. In Italia ad attaccarlo è soprattutto Matteo Salvini, con un avvertimento: «Pensi al suo paradiso fiscale in Lussemburgo». Dove Juncker è stato presidente del Consiglio dal 1995 al 2013 e, già prima, più volte ministro delle Finanze, esordendo con il primo incarico politico nel 1982, ad appena 28 anni. Ed è proprio il Lussemburgo il vero nodo del caso Juncker, di cui ora approfittano i nemici dell’Europa. Il nodo di un paese fondatore della Ue che spinge i ricchissimi a eludere le tasse.

Lo scandalo si apre il 5 novembre 2014. Quattro giorni dopo l’insediamento di Juncker alla guida della Commissione europea, un network giornalistico internazionale svela i segreti fiscali del Lussemburgo. A guidare la ricerca, durata sette mesi, è l’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), a cui aderisce anche L’Espresso, che nel 2016 si imporrà con i Panama Papers. “LuxLeaks” è il nome in codice dell’inchiesta, dove “Lux” sta per Lussemburgo e “Leaks” per fuga di notizie. L’Espresso, insieme a quaranta media di tutto il mondo, accede a un archivio con 28 mila documenti sottratti da due impiegati, poi condannati, della sede lussemburghese di PriceWaterhouseCoopers (Pwc), un colosso della consulenza e revisione societaria. Intese riservatissime che garantiscono a 340 multinazionali, da Amazon ad Abbott, da Deutsche Bank a Pepsi Cola, di pagare meno dell’uno per cento di tasse. Un sistema sviluppato proprio in Lussemburgo. Lo scoop provoca interventi parlamentari, denunce, indagini giudiziarie. Il 20 novembre L’Espresso, in copertina, chiede le dimissioni di Juncker, «inadatto a guidare l’Europa». Juncker però è rimasto presidente. Ed è diventato il simbolo di un’Europa sempre più in crisi.

Solo dal 2002 al 2010, mentre Juncker era premier del Lussemburgo, il suo paese ha attirato 220 miliardi di dollari grazie a quegli accordi fiscali confidenziali. Il 2003 è un anno chiave. Jeff Bezos, fondatore di Amazon, decide di fissare nel Granducato il suo quartier generale europeo. Merito di un corteggiamento assiduo di Juncker, che allora se ne vantava: «Amazon è venuta in Lussemburgo non solo per motivi fiscali, ma anche per il contatto con il governo». Robert Comfort, per undici anni responsabile fiscale del colosso americano in Europa, in un’intervista è ancora più esplicito: «Il messaggio di Juncker era questo: se avete qualche problema che non riuscite a risolvere, tornate da me. Cercherò di aiutarvi». Juncker dunque ha aiutato il suo paese. Per questo, quando scoppia LuxLeaks, anche un suo avversario politico, come il premier Xavier Bettel che gli è subentrato nel 2013, si precipita a difendere il sistema, con parole volgari: «È intollerabile che si getti il Lussemburgo nella merda».

Juncker e il sistema fiscale lussemburghese sembrano vacillare quando tra i 751 parlamentari europei inizia una raccolta di firme per una mozione di censura. Nel testo, presentato dalle destre (tra cui Lega e Movimento 5 Stelle) dopo che un precedente tentativo delle sinistre era andato a vuoto, si leggeva: «Juncker è direttamente responsabile delle frodi fiscali che hanno fatto risparmiare miliardi alle multinazionali». Ma il 27 novembre 2014 la coalizione tra popolari (lo stesso gruppo di Juncker) e socialisti forma un blocco compatto, salvando Mister Euro: mozione respinta con 461 voti contrari, 101 a favore e 88 astensioni.

La guerra delle tasse però continua su un altro fronte. Da più parti s’invoca una commissione parlamentare. Ma di che tipo? Una vera commissione d’inchiesta? Oppure una semplice “commissione speciale”? La differenza non è da poco, perché solo con la prima scatta l’obbligo per gli Stati membri di presentare i documenti richiesti dai deputati. Lo scontro è frontale. A favore della commissione d’inchiesta si schierano verdi, estrema sinistra, una parte dei liberali, conservatori e cinquestelle. Il verde Philippe Lamberts è soddisfatto: «Si verserà così tanto sangue sul tappeto, che nessuno sarà in grado di pulirlo». Non sa che una sorta di golpe è dietro l’angolo. Il 12 febbraio 2015 una controffensiva di popolari e socialisti evita l’inchiesta e approva solo una commissione speciale, denominata Taxe. A presiederla sarà Alain Lamassoure, francese come il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici, entrambi con un passato da ministri in patria. Durerà sei mesi e avrà 45 membri. Tra i suoi compiti, il più importante è richiedere agli Stati membri di trasmettere tutti gli accordi fiscali (tax ruling) emessi fin dal primo gennaio 1991. Evidente lo scopo: stanare i patti agevolati, capire se qualche Stato ha garantito alle multinazionali «risparmi di tasse derivanti da trasferimenti artificiali di utili».

L’attività della commissione speciale è una débâcle: nessun governo nazionale fornisce i suoi tax ruling, trincerandosi dietro impegni di confidenzialità e riservatezza. Ma c’è di peggio. Lo dimostra un carteggio, iniziato nell’aprile 2015, proprio tra Lamassoure e Moscovici. Il primo preme sul secondo perché gli Stati consegnino i verbali del cosiddetto “Gruppo codice di condotta”. Si tratta di un comitato di tecnici delle finanze, istituito nel 1998 dall’Ecofin, il consesso dei ministri dell’economia della Ue, per valutare le pratiche fiscali nocive. Quindi, in teoria, per bloccare schemi tributari che favoriscono le multinazionali. In pratica però i pareri degli esperti restano sostanzialmente ignorati. Perché in questa materia vige il criterio dell’unanimità. Quindi basta il veto di un solo Stato per fermare qualunque cambiamento. E così, dopo numerose proteste, quando le prime carte arrivano finalmente alla commissione speciale Taxe, ecco la sorpresa: molte parti degli atti risultano censurate.

Per gli europarlamentari c’è un ulteriore diktat: chi è ammesso a consultarli, deve firmare una dichiarazione impegnandosi a «non divulgarne il contenuto a terze persone». E le carte si possono leggere solo in una “reading room”, una stanza speciale a porte chiuse, tra le 9.30 e le 18.30, senza portare telefoni o computer. Ricorda Fabio De Masi, esponente della Linke tedesca: «Era vietato fare fotocopie. Vietato anche appuntare note, almeno all’inizio. Inoltre la Commissione Juncker ha precisato che una consistente fetta di documenti era andata persa durante un trasloco: nessuno li ha mai visti». Commenta Lamberts: «È indegno di una democrazia, è una gran buffonata».

La conclusione più amara viene dall’europarlamentare Sven Giegold dei Verdi tedeschi: «Sapevamo che c’era un’evasione di massa. E sapevamo che c’era una colossale elusione fiscale, con le multinazionali come protagoniste. Voi giornalisti del consorzio Icij avete pubblicato un elenco di casi estremi, però non potevate immaginare fino a che punto fosse giunto il sistema in Lussemburgo. Leggendo le carte, abbiamo scoperto che il principio dei tax ruling era conosciuto da vent’anni. Nella “reading room” abbiamo rinvenuto verbali di incontri del Consiglio europeo degli ultimi due decenni. Possiamo ricostruire che cosa è avvenuto. Sappiamo che qualcuno ha cercato di chiudere le scappatoie fiscali: senza successo, perché occorreva il consenso unanime. E sappiamo che alcuni paesi hanno fermato il cambiamento: soprattutto Lussemburgo, Belgio, Olanda, tutti difesi dal Regno Unito. Per vent’anni alcuni stati membri hanno impedito il cammino dell’Europa verso una tassazione pulita. Lo sappiamo, ma non possiamo provarlo pubblicamente: perché carte non possiamo averne».

Già dopo i primi sei mesi, sarebbe prevista la chiusura dei lavori di Taxe, che però continuano. Finalmente, il 25 novembre 2015 la commissione speciale vota una “risoluzione”. Ovvero una serie di raccomandazioni, che non hanno carattere vincolante, ma consistono in un invito rivolto alla Commissione Juncker perché formuli proposte di direttive, che per diventare leggi dovranno superare il vaglio del Consiglio europeo, formato dai capi di Stato e di governo dell’Unione. Un percorso ad ostacoli. Nel testo finale, in particolare, viene rigettato un emendamento, proposto da De Masi e altri europarlamentari, che mirava a definire il Lussemburgo «centro di operazioni fiscali aggressive, frutto di strategie globali sotto la supervisione di Juncker». L’unica censura ammessa riguarda la sparizione di una pagina da un rapporto sulle frodi fiscali nel Granducato: un dossier commissionato nel 1996 proprio dall’allora premier Juncker a un suo parlamentare, ma riemerso soltanto nel settembre 2015, poco dopo la sua audizione a Bruxelles. Un mistero mai chiarito.

La risoluzione concede un plauso all’inchiesta LuxLeaks e qualche cenno a misure concrete, come l’idea di obbligare le multinazionali a redigere un rendiconto per ogni paese dove hanno filiali, invece di un solo bilancio globale. Solo un passaggio del testo cita «pratiche fiscali discutibili promosse da società di revisione in un determinato Stato membro». Senza nemmeno nominare il Lussemburgo.

La commissione speciale viene poi autorizzata a proseguire i lavori con una seconda fase, da gennaio a luglio 2016, chiamata Taxe 2. Qui si riapre la polemica sulla documentazione del Gruppo codice di condotta, disponibile in quantità maggiore. Ma con un vincolo paralizzante: per esaminare molte nuove carte importanti, si deve attendere l’autorizzazione degli Stati interessati. Che rallenta i lavori. O non arriva mai.

Quanto a Juncker, il suo nome non viene neppure sfiorato. Nessuna accusa, nessuna responsabilità politica. Del resto, la sua linea di difesa è sempre stata una sola: tutti colpevoli, nessun colpevole. Il caso LuxLeaks? «Non riguarda il solo Lussemburgo, dovremmo parlare di EuLeaks», ha sempre risposto Juncker, evidenziando che i tax ruling «esistono anche in altri ventidue Stati europei». Autocritiche? Nessuna. Nemmeno sul suo passato da premier lussemburghese: «Oggi farei la stessa cosa: volevamo diversificare la nostra economia». Dalle banche alla finanza. Parola di Juncker. Di cui potranno rallegrarsi i 550 mila abitanti del Lussemburgo, che secondo gli ultimi dati del Fondo monetario internazionale oggi sono primi al mondo per Pil pro capite: 120 mila dollari all’anno a testa. Ricchi con le tasse altrui, mentre l’Europa affonda.

22.9.15

L’Europa aspetta Godot, ma Annibale è alle porte

L’Europa aspetta Godot, ma Annibale è alle porte

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[Carta di Laura Canali]
Ci attendiamo che gli Usa garantiscano la sicurezza del Vecchio Continente. Washington però ormai guarda al Pacifico, mentre ai nostri confini ci sono due crisi che non possiamo più ignorare.
Nella storia dei popoli esistono periodi caratterizzati da mutamenti tanto rapidi, radicali e continuati che il cambiamento cessa di essere l’eccezione e la stabilità la regola.

Diviene vero il contrario: il cambiamento si fa regola e la stabilità è degradata a eccezione, in una cornice in cui la storia appare destinata a travolgere nella sua inarrestabile, tumultuosa avanzata chiunque non riesca a mantenere il suo ritmo rimanendo sempre sulla cresta dell’onda.

È quanto sta avvenendo in questo momento. Dopo un lungo periodo di apparente immobilità, propiziata da un confronto bipolare tra due blocchi apparentemente avversari ma che in realtà si aiutavano l’un l’altro a mantenere salda la condivisione del mondo, il vaso di Pandora si rivela di nuovo palesemente aperto, lasciando via libera ad ambizioni e rivalità che per lungo tempo noi abbiamo sottovalutato e che solo ora appaiono in tutta la loro evidente estrema pericolosità.

In questo contesto l’Unione Europea, fiera sino a ieri delle due generazioni di pace dopo millenni di guerra che essa giustamente considera come la migliore e la più valida delle sue conquiste, si rende improvvisamente conto di come la storia abbia l’abitudine di rimescolare le carte in continuazione e di come nessuna conquista possa essere considerata duratura se non le si dedicano tutta la cura e i sacrifici che essa richiede.

In periodi tesi come quello attuale dobbiamo in primo luogo essere sinceri con noi stessi e pronti a riconoscere e a correggere le nostre colpe se e quando qualcosa va male. In effetti, in questo momento alcuni fra i maggiori difetti della nostra incompleta costruzione comunitaria si stanno impietosamente evidenziando.

In materia di pace abbiamo infatti seguito due politiche tra loro nettamente contrastanti. La prima era una politica declamatoria e irenica che esaltava la pace come lo stato di natura ideale che ci permetteva di esprimere al meglio tutti i valori in cui credevamo. La seconda era invece la politica della realtà, quella fatta dalle grandi e piccole decisioni di tutti i giorni. Una politica che in tutti gli Stati membri della Unione è stata orientata per anni a lesinare proprio su quelle spese per la sicurezza che costituivano il sacrificio indispensabile per il mantenimento e la corretta manutenzione della nuova pax europea.

La speranza rimaneva sempre quella di poter scaricare su altri la parte del fardello comune che ci spettava. Prima sul Grande Fratello d’oltre Atlantico, poi, quando è divenuto chiaro che dal tradizionale legame bilaterale anche egli voleva soltanto prendere e non era più disposto a dare, sugli altri Stati dell’Unione. Fra i fratelli europei si è innescata così una vera e propria corsa al ribasso in cui hanno sempre prevalso gli aspetti del più bieco degli egoismi.

Come risultato ci ritroviamo adesso con il fuoco alle frontiere. Bruciano i campi dei nostri vicini e ciò significa che è molto facile che il fuoco si estenda rapidamente anche alle nostre culture. Ricordate l’espressione romana Hannibal ad ianuas!, “Annibale è alle porte”? Beh, questa volta Annibale è veramente di nuovo alle nostre porte; per di più bussa contemporaneamente a Nordest e a Sud. Alcune crisi ancora non si profilano con chiarezza come minacce ma come tali potrebbero evidenziarsi da un momento all’altro, magari senza preavviso e con estrema virulenza.

In una situazione del genere – alle frontiere orientali una Russia divenuta rapidamente tanto ostile da ritenere necessario ricordarci quasi quotidianamente che lei è una delle due grandi potenze nucleari del mondo; alle frontiere meridionali un islam dilaniato da un contrasto fra sciiti e sunniti sempre più sanguinoso e che non riesce a mantenere sotto controllo schegge impazzite di fanatici capaci di esprimere soltanto paura ed odio – ci si aspetterebbe dall’Unione Europea una reazione concordata rapida ed efficace.

In altri momenti critici della sua storia ciò è avvenuto. Questa capacità dell’Europa di riuscire ad andare avanti soltanto all’ultimo minuto utile ci aveva fatto ironizzare sulla strana peculiarità di una istituzione che si rivelava in grado di dare il meglio soltanto in momenti di consolidata frustrazione e di angosciosa paura. Adesso invece l’Ue non accenna a muoversi e a fare il salto di qualità che sarebbe indispensabile. La sua inerzia esalta addirittura, per contrasto, il dinamismo della Lega Araba che in questi ultimi tempi si è dimostrata capace, se non altro, di non nascondersi i problemi e di assumere decisioni che sino a ieri sarebbero sembrate impossibili.

Sembra quasi che fra Lega Araba e Unione Europea i ruoli siano ora completamente invertiti rispetto a 15/20 anni fa, allorché era il Sud Mediterraneo a crogiolarsi in un immobilismo suicida mentre il Nord ancora appariva pieno di vitalità. Paesi vecchi e di vecchi? Declino biologico, oltre che declino storico? Di sicuro c’è parecchio di questo, anche se l’invecchiamento dei nostri paesi non riesce a giustificare da solo né la loro inerzia né la rapidità del loro discesa.

In tale contesto è deleterio che noi continuiamo – come innamorati traditi che non vogliono accettare la separazione definitiva e confidano nell’impossibile ritorno dell’amata – ad aspettare che gli Usa riprendano il ruolo guida che erano stati capaci di esprimere nell’ambito del legame transatlantico per più di cinquant’anni e ci costringano loro a prendere quelle decisioni che per ora sembriamo non essere capaci di prendere da soli.

Aspettiamo così un Godot che non verrà mai, ora che l’era del Pacifico ha definitivamente preso il posto di quella dell’Atlantico. Più aspettiamo senza agire più ci indeboliamo, innescando un rapporto causa-effetto destinato a rendere ancora più improbabile un eventuale ritorno che comporterebbe anche l’obbligo di supplire alle nostre carenze.

Forse per noi è anche meglio che il nostro Godot non sia orientato a tornare:  la politica statunitense degli ultimi anni, esaminata in ottica europea, ha reso pericolosissimo il nostro rapporto con il mondo arabo, difficile quello con l’Iran e angosciante quello con la Russia. Da chiedersi inoltre cosa potrebbe succedere domani ove al posto di un presidente ragionevole per quanto debole come Obama dovesse essere eletto un esaltato repubblicano, magari del Tea Party!

Di pari passo con l’attesa quasi messianica del ritorno Usa in Europa va la fiducia che ancora continuiamo a concedere a scatola quasi chiusa al Patto Atlantico e alla Nato. Rifiutiamo di accorgerci che essi sono scaduti da strumento politico principe dell’Occidente dotato di un adeguato ed efficace braccio armato a semplice serbatoio di forze militari fra loro compatibili, cui si attinge sulla base di logiche spesso leonine e discutibili. Basti pensare ai casi della Georgia e dell’Ucraina, in cui la Nato a cuor leggero ha contribuito a creare gravi crisi che non ha avuto poi la capacità di affrontare efficacemente.

Nonostante ciò, continuiamo a confidare per la nostra difesa collettiva in un’organizzazione datata che avrebbe bisogno di una revisione tanto radicale da essere quasi una ricostruzione su basi differenti e che rischia di essere paralizzata – o male indirizzata nel momento del bisogno – da logiche a noi estranee.

C’è da chiedersi se ciò non avvenga perché questa situazione consente ai complessi militar-industriali europei di continuare a crogiolarsi nella loro inefficienza, perpetuando l’assurdo di Forze armate che mantengono sotto le armi più di un milione e mezzo di persone e dispongono di un bilancio pari al 40% di quello Usa ma rimangono ben lontane dall’esprimere le prestazioni che da tali numeri sarebbe logico pretendere.

La quadratura di questo cerchio consisterebbe, come già detto, nell’edificazione di un vero e proprio strumento europeo di difesa. Ciò dal punto di vista politico ci darebbe il vantaggio di poter essere completamente autonomi nelle decisioni concernenti la nostra sicurezza, mentre da quello economico ci permetterebbe di fruire di indubbie economie di scala. L’operatività delle nostre forze ne sarebbe inoltre considerevolmente esaltata. Cosa aspettiamo allora per fare questo passo decisivo e indispensabile?

Quando si trattò di unificare la moneta sapemmo procedere rapidamente e bene. Perché esitiamo ora che è chiaramente giunto il momento in cui la ritardata unificazione dei nostri strumenti di difesa ci pone di fronte a rischi che non è esagerato considerare inaccettabili?

Annibale, giunto alle porte di Roma, si limitò a un gesto simbolico: lanciò una lancia oltre le mura serviane prima di ritirarsi verso Capua. Fu una fortuna per Roma, rimasta sguarnita e quindi non adeguatamente difesa. Ma non sempre nella storia fortune del genere si ripetono!

Per approfondire: Dopo Parigi, che guerra fa

L’autore di questo articolo è Generale della riserva dell’Esercito. Già direttore del Centro militare di studi strategici, consigliere militare del presidente del Consiglio, rappresentante militare permanente dell’Italia presso Nato, Ue e Ueo. Consigliere scientifico di Limes.